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| << | < | > | >> |IndicePresentazione 7 di Amedeo Bertolo Vietato vietare 11 Tredici ricette per vari disgusti 17 Arroz con rata de arrozal 19 Ragù di dromedario 21 Pias e tocom scirnà 23 Involtini di bruco al cartoccio 25 Omelette aux vers à soie 27 Couscous de sauterelles 28 Cherba 30 Ciao ciu pai 31 Murgha Kari 32 Hutspot 35 Abe giusc 37 Spezzatino di scimmia con arachide 38 Pastissada de caval 41 Postfazione 43 di Andrea Perin Gusti e disgusti ai tempi della globalizzazione 45 Tre ricette per altri disgusti 57 Picante de cuy 58 Torta al cotechino 59 Roast-beef alla Coca-Cola 60 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Arroz con rata de arrozalNecessitano: topi di media dimensione (possibilmente topolini di risaia) 1 chilo di riso di Valencia 150 gr. di fagiolini verdi 150 gr. di garrofon (tipo di legume bianco locale) o di fave 1 pomodoro grosso molto maturo 4 cucchiai di olio d'oliva zafferano sale Mettere l'olio in una casseruola e quando è caldo aggiungere i topi scuoiati e tagliati a pezzi (come per il coniglio). Soffriggerli brevemente e poi metterli da parte non appena pronti. Soffriggere anche i fagiolini e il garrofon (o le fave) e metterli da parte non appena pronti. Soffriggere infine, dopo averlo tritato, anche il pomodoro. Quando è pronto rimettere il tutto nella casseruola, mescolare, salare e aggiungere dell'acqua (nella proporzione di due parti d'acqua e una parte di riso). Coprire e cucinare a fuoco medio. Dopo 20/30 minuti aggiungere lo zafferano e il riso e cuocere fino a completarne la cottura. Questa ricetta, ancora in uso, è tipica dell'Albufera, che si trova a 5 km da Valencia sulla strada per Alicante, e in particolare del paese di El Saler. L'Albufera è una laguna che da secoli è stata parzialmente trasformata in risaia divenendo l'habitat ideale per un topino bianco-rosato ghiotto del riso. | << | < | > | >> |Pagina 35HutspotNel 1574, al tempo dell'assedio spagnolo di Leyda, gli abitanti affamati si nutrivano di quel poco che riuscivano a coltivare. Carote, cipolle e patate furono a lungo il loro solo nutrimento; e appunto la pentola di patate carote e cipolle è all'origine del famoso ragù olandese hutspot. È cosa notoria che gli abitanti di Leyda durante l'assedio ricorsero ampiamente ai gatti. Mettere in una pentola 1 chilo di carne tagliata in pezzi, ricoprirli con 1 litro d'acqua fredda, condire con sale e cuocere a calore moderato per 3/4 d'ora; a questo punto versare nella pentola 1 chilo di carote e 500 gr. di cipolle (tutto nettato e tagliato in pezzi), condire con sale e continuare la cottura sempre a calore moderato. Una ventina di minuti prima di completare la cottura, mettere nel fondo di una grande pignatta di terracotta 1 chilo di patate sbucciate, nettate e tagliate in pezzi; disporvi sopra dei pezzi di carne, poi le carote e le cipolle e bagnare con il brodo di cottura. A cottura completa ritirare i pezzi di carne e il brodo; schiacciare in un mortaio i legumi, rimetterli nella pignatta con i pezzi di carne, aggiungere grasso di bue caldissimo e mescolare; ben calda, servire la vivanda nella pignatta di cottura e passare a parte il brodo. | << | < | > | >> |Pagina 45Gusti e disgusti ai tempi della globalizzazione
di Andrea Perin
«Roba da naufraghi! Cibo da selvaggi». Se vent'anni fa vi avessero invitato a un pasto a base di pesce crudo, probabilmente sareste rimasti disgustati. Oggi invece, se non vi cibate di sushi o sashimi, venite considerato poco meno che un troglodita: questa pietanza giapponese è ora diventata tendenza in tutto il mondo che conta, spiluccata dalle top model di Brera e dai manager di Manhattan o dai nuovi ricchi di Mumbay. Tanto che i giapponesi stessi, preoccupati da tanta diffusione e disgustati dalle interpretazioni frettolose e approssimative di molti locali desiderosi di sfruttare il momento, hanno creato un'apposita commissione che girerà il mondo a stabilire cosa è vero sushi e cosa volgare imitazione. Insomma, sarà il potere della globalizzazione o il fascino dell'esotico, ma il fatto è che anche i gusti in cucina cambiano e perciò anche la mappa del disgusto in Italia va aggiornata, perché quello che faceva orrore ieri ora è spesso diventato buono, e magari domani sarà banale e scontato. Parte della responsabilità è sicuramente da imputarsi al turismo internazionale, che ormai permette a tutti, con spese non eccessive, di arrivare in ogni parte del mondo e assaggiare cibi che prima avevano letto solo nei libri di Salgari o sbirciato nei programmi televisivi. E sebbene molti italiani continuino a tornare ancora disgustati dicendo che fuori dell'amata penisola si mangia da schifo, che non sanno cucinare spaghetti e pizza, altri assaggiano con coraggio e determinazione tutto quello che trovano, per raccontare a casa con orgoglio agli amici le loro imprese alimentari: non più solo il cane in Cina o la cavalletta in Messico, ma l'orso in Slovenia, lo jacarè in Mato Grosso, i vermi nel Borneo o la marmotta in Mongolia. E se questi sono cibi che si assaggiano solo una volta nella vita, magari a denti stretti e solo per il gusto di darsi un'aria da «uomo di mondo», con il passaparola inevitabilmente rischiano di perdere il loro fascino esotico per diventare quasi familiari. Ma il cambiamento nella mappa alimentare cominciamo a trovarcelo anche in casa: non solo le mode trendy, come il sushi, ma anche tutti gli stimoli e le novità che l'immigrazione sta importando nei paesi europei. Niente di nuovo sotto il sole in realtà, perché ogni cucina è formata dalla stratificazione di apporti esterni che si sono succeduti nel tempo, con buona pace di chi ritiene che le usanze si perdano nella notte dei tempi. Basti pensare a tutte le novità importate dagli arabi nell'Europa cristiana dal Medioevo a oggi (la melanzana, gli agrumi, il caffè, etc.) e i cibi arrivati dal Nuovo Mondo (patate, pomodori, mais, zucchine, etc.). Le cronache ci raccontano come molti di questi hanno impiegato secoli, non anni, a entrare nell'uso quotidiano e vincere resistenze e disgusti verso il nuovo. Senza andare tanto lontano, per chi ha la memoria buona e qualche anno sulle spalle, anche l'arrivo dei meridionali in Nord Italia ha ampliato il menù sulle tavole dei padani: come dimenticare gli sguardi stupiti e diffidenti delle casalinghe al mercato di fronte alle cime di rapa e ai broccoletti, ai lampascioni e ai peperoncini piccanti? Oggi fanno parte del menù quotidiano, e la pizza stessa ha smesso di essere un cibo tipicamente napoletano, tanto che buona parte dei locali hanno pizzaioli egiziani o cinesi. La difesa politica («polenta sì, cous-cous no!») appare sempre più come una patetica battaglia di retroguardia, ampiamente superata dalla vita quotidiana. In qualsiasi supermercato o drogheria o ortolano si trovano alimenti che sino a poco tempo fa erano stabilmente collocati nell'immaginario esotico: zenzero e spezie varie, banane platanos e papaia, fagioli neri e guaranà, etc. E se vogliamo cibi che al momento ci sembrano meno scontati, basta entrare in uno dei tantissimi negozi in cui si servono gli immigrati: bevande al crisantemo, chele di granchio surgelate, fiori di banana in salamoia, aglio in salamoia o sotto aceto, bambù in tutte le maniere, etc.
Senza dover viaggiare, esistono anche siti internet che vendono per
corrispondenza cibi che sembrano l'evoluzione ghiotta dei peggiori incubi
alimentari, all'insegna della più spericolata cucina
fusion
(www.edible.com): direttamente a casa possono arrivare lecca-lecca
con bacherozzi
(tequilalix lollipop),
formiche giganti della Colombia ricoperte del più fine cioccolato belga
(chocolate covered giant ants),
caramelle con scorpione cinese
(toffee scorpion candy),
curry di coccodrillo thailandese in scatola
(thai green crocodile curry);
e si trova anche un'autentica leccornia mondiale come il
Kopi Luwak,
il caffè fatto con le bacche transitate nell'apparato digerente degli zibetti
dell'Indonesia: i chicchi, una volta evacuati, vengono tostati per una
produzione che non supera i 280 chili all'anno. Non sempre si trovano i nidi di
rondine, detti anche «caviale d'oriente», realizzati con la
saliva dei rondoni: quelli più pregiati arrivano a costare 10.000 dollari al
chilo.
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