Autore Sandro Veronesi
Titolo Il colibrì
EdizioneLa nave di Teseo, Milano, 2019, Oceani 77 , pag. 368, cop.fle., dim. 15x21,4x3 cm , Isbn 978-88-346-0047-4
LettoreAngela Razzini, 2019
Classe narrativa italiana












 

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Indice


 13 Si può ben dire (1999)
 17 Cartolina fermo posta (1998)
 19 Sì o no (1999)
 29 Purtroppo (1981)
 33 L'occhio del ciclone (1970-79)

 41 Questa cosa (1999)
 43 Un bambino felice (1960-70)
 49 Un inventario (2008)
 55 Aerei (2000)
 63 Una certa frase magica (1983)

 67 L'ultima notte d'innocenza (1979)
 73 Urania (2008)
 83 Gospodinèèèè! (1974)
 91 Seconda lettera sul colibrì (2005)
 93 Un filo, un Mago, tre crepe (1992-95)

105 Validi (2008)
111 Fatalities (1979)
117 Un auspicio sbagliato (2009)
119 Com'è andata (2010)
127 Non c'eri (2005)

131 Solo che (1988-99)
145 Férmati prima (2001)
149 Di crescita e forma (1973-74)
157 Prima lettera sul colibrì (2005)
161 [...] (2010)

179 Tutta una vita (1998)
183 Ai Mulinelli (1974)
189 Weltschmertz & Co. (2009)
195 Gloomy Sunday (1981)
211 Eccola, scende (2012)

213 Shakul & Co. (2012)
221 Soppesato (2009)
227 Via Crucis (2003-2005)
245 Per dare e per ricevere (2012)
247 Mascherina (2012)

261 Brabantì (2015)
267 Andar per bocca (2013)
277 Gli sguardi sono corpo (2013)
285 I lupi non uccidono i cervi sfortunati (2016)
295 Terza lettera sul colibrì (2018)

299 Le cose come stanno (2016)
311 Ultima (2018)
315 L'uomo nuovo (2016-29)
335 A disposizione (2030)
337 Le invasioni barbariche (2030)
357 Questo vecchio cielo (1997)

359 Il colibrì


 

 

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Pagina 13

Si può ben dire (1999)



Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l'eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l'ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all'inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante.

Mettiamola così: una delle cose che succedono in questa storia dalle molte altre storie succede nel quartiere Trieste, a Roma, in una mattina di metà ottobre del 1999, in particolare all'angolo tra via Chiana e via Reno, al primo piano di uno di quei palazzi che appunto non staremo qui a descrivere, dove sono già successe migliaia di altre cose. Solo che la cosa che sta per accadervi è decisiva e, si può ben dire, potenzialmente esiziale per la vita del protagonista di questa storia. Dott. Marco Carrera, dice la targa apposta sulla porta del suo ambulatorio, specialista in oculistica e oftalmologia - quella porta che ancora per poco lo separa dal momento più critico della sua vita dai molti altri momenti critici. All'interno dell'ambulatorio, infatti, al primo piano di uno di quei palazzi eccetera, egli sta prescrivendo una ricetta a una vecchia signora malata di blefarite ciliare - collirio antibiotico, dopo un innovativo, anzi, rivoluzionario, si può ben dire, trattamento a base di N-acetilcisteina instillata nell'occhio che ha già risolto in altri suoi pazienti il problema più grave di questa patologia, e cioè la tendenza a cronicizzare. All'esterno, invece, il destino sta aspettando di travolgerlo per il tramite di un ometto basso di nome Daniele Carradori, calvo e barbuto, dotato però di uno sguardo - si può ben dire - magnetico, che tra poco si concentrerà sugli occhi dell'oculista instillandovi prima incredulità, poi sconcerto e infine un dolore che non potranno essere curati dalla sua (dell'oculista) scienza. È una decisione che l'ometto ormai ha preso, e che lo ha spinto fino alla sala d'attesa dove ora sta seduto a guardarsi le scarpe senza approfittare della ricca offerta di riviste nuove di zecca - non marce e vecchie di mesi - sparse sui tavolini. Inutile sperare che ci ripensi.

Ci siamo. La porta dell'ambulatorio si apre, la vecchia blefaritica varca la soglia, si volta a stringere la mano del dottore e se ne va verso il banco della segreteria a pagare la prestazione (120.000 lire), mentre Carrera fa capoccella per invitare il prossimo paziente. L'ometto si alza, si fa avanti, Carrera gli stringe la mano e lo fa accomodare. Il giradischi d'epoca marca Thorens ormai superato dai tempi - ma ai suoi, di tempi, cioè un quarto di secolo fa, uno dei migliori -, incastonato nello scaffale insieme al fido amplificatore Marantz e alle due casse in mogano AR6, sta riproducendo a volume bassissimo il disco di Graham Nash intitolato Songs for Beginners (1971), la cui enigmatica copertina, appoggiata al suddetto scaffale, e raffigurante il suddetto Graham Nash con una macchina fotografica in mano in un contesto di difficile decifrazione, risulta la cosa più vistosa di tutta la stanza. La porta si richiude. Ci siamo. La membrana che separava il dottor Carrera dal più potente urto emotivo di una vita ricca di altri potenti urti emotivi è caduta.

Preghiamo per lui, e per tutte le navi in mare.

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Pagina 49

Un inventario (2008)



    A: Giacomo - jackcarr62@yahoo.com
    Inviata - Gmail - 19 settembre 2008 16:39
    Oggetto: Inventario piazza Savonarola
    Da: Marco Carrera



Caro Giacomo,

tu continui a non rispondermi e io continuo a scriverti. Intendo tenerti informato del lavoro che sto facendo per vendere la casa di piazza Savonarola, e non mi fermerà certo il tuo silenzio. La novità è che ho chiamato Piero Brachi (ricordi? Quello dello STUDIO B dove per due decenni sono stati comprati tutti i mobili di casa nostra), che adesso, a settanta e passa anni, gestisce un sito di aste di arredamento specializzato in design degli anni sessanta e settanta, e mi sono fatto fare una stima dei pezzi contenuti nell'appartamento. Come immaginavo alcuni sono parecchio pregiati, e ne è venuta fuori una valutazione impressionante, anche considerando che per le note vicende che hanno portato allo spopolamento di quella casa e alla rovina della nostra famiglia, si tratta per lo più di oggetti in ottimo stato di conservazione. Molti di essi, dice Brachi, sono esposti al MoMa. Dunque occorre prendere una decisione su cosa farne quando venderemo casa, considerando che lasciandoceli dentro non ci verrà riconosciuto alcun sovrappiù sul prezzo di vendita. Possiamo affidarli a Brachi stesso, che provvederà a venderli poco alla volta tramite il suo sito, oppure dividerceli a seconda delle nostre esigenze o affezioni. Ti prego di considerare la questione che sto ponendo, Giacomo, che per evidenti ragioni non è una mera faccenda di quattrini: si tratta di tutto ciò che resta di una vita e di una famiglia che non ci sono più, ma delle quali tu e io abbiamo fatto parte per oltre vent'anni, e anche se le cose sono andate come sono andate non c'è ragione, credimi, di "disfarsene", come hai detto tu l'ultima volta che mi hai risposto, aggiungendo malora a malora. Insomma, era commosso Brachi nel rivedere tutte quelle cose così belle che lui stesso ci aveva venduto: non posso credere che a te non interessi nemmeno mettere bocca nella decisione sulla fine che devono fare. Ti garantisco che non ci sarà da discutere, farò esattamente quello che tu dirai, se solo accetterai che non è giusto farne carne di porco. Le cose sono innocenti, Giacomo.

Dunque, di seguito ti allego l'inventario con tutte le stime che mi ha consegnato Piero Brachi. È molto asciutto, impersonale, come gliel'ho chiesto e come immagino tu preferisca, sebbene perfino lui sapesse molte cose intime di ognuno di quegli oggetti: per chi era stato comprato, in quale stanza si trovava ecc.


Inventario dei pezzi d'arredamento della casa di piazza Savonarola:

n. 2 divani a due posti Le Bambole, metallo, pelle grigia, poliuretano, Mario Bellini per B&B, 1972 (20.000 €)

n. 4 poltrone Amanta*, fibra di vetro e pelle nera, Mario Bellini per B&B, 1966 (4400 €)

n. 1 poltrona Zelda, legno tinto a palissandro e pelle color cuoio, Sergio Asti, Sergio Favre per Poltronova, 1962 (2200 €)

n. 1 poltrona Soriana, acciaio e pelle anilina marrone, Tobia e Afra Scarpa per Cassina, 1970 (4000 €)

n. 1 poltrona Sacco*, polistirolo e pelle marrone, Gatti, Paolini e Teodoro per Zanotta, 1969 (450 €)

[...]

n. 1 macchina da scrivere Valentine, metallo e plastica rossa, Ettore Sottsass e Perry A. King per Olivetti, 1968 (500 €)

n. 3 telefoni Grillo, Marco Zanuso e Richard Sapper per Siemens, 1965 (210 €)

n. 1 radio Cubo ts522, acciaio cromato e plastica rossa, Marco Zanuso e Richard Sapper per Brionvega, 1966 (360 €)

n. 1 impianto Hi-Fi integrato Totem*, Mario Bellini per Brionvega, 1970 (700 €)

n. 2 ricevitore per filodiffusione FD 1102 n. 5, Marco Zanuso per Brionvega, 1969 (300 €)

n. 1 giradischi RR 126 Mid-Century*, con amplificatore e diffusori integrati, bachelite e legno beige, plexiglass, Pier Giacomo e Achille Castiglioni per Brionvega, 1967 (2000 €)

n. 1 mangiadischi Penny, Musicalsound, 1975 (180 €)


Gli oggetti contrassegnati con * sono stati valutati meno del 50 per cento del loro valore perché risultano non funzionanti o in cattivo stato di conservazione.

Totale stima 92.800 E


Capisci, Giacomo? Quella casa è un museo. Dimmi cosa vuoi fare di questa roba, davvero, e io lo farò. Ma non dirmi di disfarmene.

Ah, spero che tu ti sia accorto che per quegli asterischi siamo pari: abbiamo rotto un giradischi per uno...

Un abbraccio

Marco

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Pagina 73

Urania (2008)



    A: Giacomo - jackcarr62@yahoo.com
    Inviata - Gmail - 17 ottobre 2008 23:39
    Oggetto: Romanzi di Urania
    Da: Marco Carrera



Caro Giacomo,

oggi vorrei parlarti della collezione (quasi) completa dei romanzi di Urania del babbo. Anche questa collezione, pur incompleta com'è, ha un alto valore commerciale, considerando la cura che il babbo ha sempre avuto nel conservare questi libri, il rivestimento in carta velina con cui li ha protetti uno per uno e il conseguente, sbalorditivo stato di conservazione in cui si trovano dopo cinquanta o sessant'anni: ma non è di questo che voglio parlarti. Per come vedo le cose io, questi libri dovrebbero diventare tuoi, per le ragioni che sto per dirti, e siccome il loro ingombro è minimo se non li vorrai te li conserverò io, ma non mi sognerò nemmeno lontanamente di venderli.

Dunque. La collezione. Va dal numero 1 al numero 899, cioè dal 1952 al 1981, e soffre di soli sei fascicoli mancanti. Ecco quali, e perché:


N. 20, Pària dei cieli, di Isaac Asimov, del 20 luglio 1953.

Strano - non ti sembra? - che dopo diciannove numeri comprati regolarmente il babbo, ventisettenne, appena laureato, abbia mancato proprio questo, uno dei più bei libri, sembra, scritti dal suo autore preferito. Infatti l'aveva comprato, perché nello scaffale del suo studio dove i suoi Urania sono sempre stati conservati (nell'inventario fatto da Brachi il mese scorso, che ti ho mandato, è denominato "libreria componibile Sergesto", e tu lo ricorderai per forza perché ne avevi uno identico in camera tua, che in effetti è ancora lì, pieno dei Tex e degli altri fumetti che leggevi), nello scaffale, dicevo, tra il fascicolo precedente, n. 19, "Preludio allo spazio", di Arthur C. Clarke, e quello successivo, n. 21, "Terrore sul mondo", di Jimmy Guieu, c'è un cartoncino con su scritto "prestato ad A", con la data "19 aprile 1970". A., converrai con me, è sicuramente il suo amico Aldo Mansutti, anzi "Aldino", come lo chiamava lui, morto in quell'assurdo incidente di moto di cui tanto si è parlato, in casa, e che ha reso i nostri genitori così restii a comprarci il motorino. Ricordo bene quando andammo tutti al funerale di quell'Aldino, io ero di sicuro alle medie, probabilmente in prima, o all'inizio della seconda - quindi doveva essere per l'appunto il 1970. Sicché dev'essere successo questo: il babbo ha prestato il libro ad Aldino, ha messo il cartoncino al suo posto nello scaffale per ricordarsene, perché alla sua collezione ci teneva, ma poco dopo Aldino è morto e ovviamente lui non ha mai pensato di chiederlo indietro a sua moglie - la Titti, ti ricorderai, la Titti Mansutti, che ho rivisto pochi giorni fa, vecchissima, per un'altra faccenda di cui ti parlerò. Tanto più considerando che a quel punto, cioè nel 1970, la collezione già non era più completa, poiché mancava anche di altri cinque numeri, vale a dire: il 203, il 204, il 449, il 450 e il 451. Seguimi, Giacomo, non smettere di leggere. Cerchiamo di capire perché mancano, quei cinque fascicoli.


N. 203, Il vampiro del mare, di Charles Eric Maine, del 10 maggio 1959 e n. 204, La razza senza fine, di Gordon R. Dickson, del 24 maggio 1959.

Al posto di questi nello scaffale non c'era nessun cartoncino, segno che non li aveva prestati, che stavolta non li aveva proprio comprati. E il motivo, ragionando un po' sulle date, io l'ho capito: la famosa caduta di Irene dal seggiolone. Ricordi?

[...]


L'ultimo fascicolo della sua collezione l'ho lasciato per ultimo perché è addirittura il simbolo dell'ultimità. Ce l'ho davanti in questo momento: la copertina bianca con la grafica rossa, l'illustrazione circolare (un ragazzo e una ragazza in piedi in un parco che parlano con uno più vecchio seduto su una panchina, tutti e tre nudi, con altre figure nude tra gli alberi in lontananza), il titolo "Le comuni del 2000", l'autore Mack Reynolds e infine la data: 23 agosto 1981.

Ma il 23 agosto 1981 è il giorno della fine del mondo. E tuttavia quel fascicolo, abbiamo visto, era uscito in realtà da tredici giorni, cioè il 10, quando la fine del mondo era ancora impensabile, e il babbo lo ha sicuramente comprato prima di ferragosto all'edicola di Castagneto dove comprava i giornali, e anche sicuramente letto in un paio di giorni, come faceva sempre, un po' in spiaggia e un po' sul letto, disteso sul fianco destro, verso il comodino, dando le spalle alla mamma, visto che a Bolgheri, d'agosto, quando c'eravamo tutti, per mancanza di spazio non potevano dormire separati. Da lunedì 24 agosto sarebbe stato disponibile in edicola il numero successivo (magari a Castagneto no, magari a Castagneto sarebbe arrivato martedì o mercoledì), ma questo, come tutto il resto, per lui è diventato di colpo irrilevante. E questa volta, per sempre. Sicché, il n. 899, "Le comuni del 2000", di Mack Reynolds, è l'ultimo libro di Urania che il babbo abbia comprato e letto - l'ultimo della sua collezione (quasi) completa, dal numero 1 all'899. L'ultimo della sua vita.

D'accordo, Giacomo, ti ho incolpato, ed è stato terribile incolparti. Ma cazzo, sono passati trent'anni. Ti chiedo scusa di averti incolpato, ti chiedo scusa di avere contribuito a rendere invivibile la vita nella nostra famiglia per un sacco di giorni che, malgrado continuassero ad accumularsi gli uni sugli altri, erano tutti ancora troppo vicini a quel maledetto giorno. Ma sono passati trent'anni. Eravamo ragazzi, ora siamo uomini. Non possiamo nemmeno volendo diventare due estranei. Di solito i fratelli litigano per l'eredità, quando muoiono i genitori: sarebbe bello se noi, invece, per l'eredità ci riconciliassimo. Più che altro, sarebbe tipico della nostra famiglia, funzionare all'incontrario.

Rispondimi.

Marco

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Pagina 105

Validi (2008)



    A: Giacomo - jackcarr62@yahoo.com
    Inviata - Gmail - 12 dicembre 2008 23:31
    Oggetto: Validi
    Da: Marco Carrera



La mail di oggi, caro Giacomo, è per raccontarti come ho sistemato i tre plastici dei trenini elettrici del babbo. Non è stato facile, ma alla fine forse è stato il mio capolavoro. Facile è stato piazzare i plastici di architettura: quello del Ponte all'Indiano, che gli era stato regalato dai progettisti dopo avere vinto il concorso, l'ho donato alla Facoltà di Ingegneria, ed è stato subito piazzato in aula magna. Quello della villa di Mansutti a Punta Ala l'ho portato alla Titti, la moglie di Aldino, che è ancora viva e pure lucida. Non la vedevo da, non so, trenta, quarant'anni, e anche se la villa l'hanno venduta da tempo il modellino l'ha preso e si è pure commossa. Il plastico della cupola del Brunelleschi, quello grande, non quello piccolo che il babbo aveva già regalato non so a chi, quello grande, dicevo, che ricorderai di sicuro dato che una volta ti sei beccato una rospata perché ci stavi giocando a soldatini, l'ho portato alla sede dell'Ordine degli Ingegneri di Firenze e gliel'ho regalato sbalordendo tutti. In cambio gli ho chiesto di smetterla di mandare i bollettini e i solleciti per la quota annuale del babbo. Il plastico del famoso ampliamento abusivo di Bolgheri, sebbene sia il meno bello, l'ho tenuto io. E poi, vabbe', c'è la casa di bambola sulla cascata che aveva fatto per Irene in perfetta riproduzione di quella di Wright, che non ho toccato: l'ho lasciata in camera di Irene, e quando venderemo si vedrà. Insomma con quelli è stato facile.

Il problema erano i tre plastici dei trenini. Uno nemmeno l'hai visto, dato che il babbo l'ha fatto quando tu eri già andato via: minimalista, ingegnosissimo, lungo tre metri e mezzo e largo solo sessanta centimetri, consente di farci andare fino a undici treni contemporaneamente, in un modo che pare prodigioso. Il segreto in realtà è banale: è costruito su due piani, uno visibile e uno, sotto, invisibile, nascosto nello spessore della base, per cui i trenini arrivati alla fine del plastico infilano in una galleria, invertono il senso di marcia e uno scambio li fa scendere di sotto, dove tornano indietro senza che nessuno li veda e poi dall'altra parte risalgono, sempre sotto una galleria, invertendo di nuovo il senso e rispuntando da capo come Stanlio in quella comica quando compare con una scala a pioli sulla spalla, poi si vede la scala che passa, lunga, lunghissima, e alla fine Stanlio che la porta in spalla anche all'altra estremità. Insomma, un gioiello che non poteva esser buttato via. Ma anche gli altri due, che invece dovresti ricordare, quello immenso degli anni sessanta e quello in salita che riproduce il tornante di Piteccio della Porrettana, erano troppo belli per essere distrutti. Solo che non si può mica vendere casa con dentro quei catafalchi che portano via una stanza intera. Sicché mi sono messo a cercare il modo di donarli a chi sapesse apprezzarli. Mi sono ricordato che negli ultimi tempi, prima di aggravarsi, il babbo parlava di un prodigioso superplastico realizzato nei sotterranei del Dopolavoro Ferroviario, sai dove c'era anche il circolo di tennis, vicino alle Cascine? Lì. Allora ci sono andato, e qui si parla di più di quarant'anni, Giacomo, dall'ultima volta in cui ci avevo messo piede. È molto cambiato, ovviamente, e ci ho impiegato un sacco di tempo anche solo a trovare qualcuno che sapesse di cosa stavo parlando. Il fatto è che i modellisti che si riuniscono in quel sotterraneo sono alquanto fantomatici, non hanno giorni fissi e orari precisi, quando non ci sono loro quel sotterraneo è chiuso e nessun altro dei soci del circolo ne sa nulla. Ho dovuto fargli la posta per un mese, ma alla fine, un sabato mattina, sono riuscito a trovare il presidente dell'associazione dei modellisti, un certo Beppe, che giocava a ramino con altri soci. Appena ho nominato il babbo ha mollato la partita e mi ha portato nel sotterraneo anche se era chiuso, e devo dire che il babbo aveva ragione, il plastico che hanno costruito in quella sala è veramente incredibile. Beppe l'ha messo in funzione apposta per me, e ti assicuro che è pazzesco perché è un tratto di ferrovia urbana grande quanto tutta la stanza, con i palazzi in scala, le strade, le macchine, gli omini, tutto. Insomma gli ho spiegato la faccenda e anche lui si è detto d'accordo che quei plastici non dovevano andare distrutti - così, per principio, dato che non li aveva mai visti. Parlava del babbo con grandissimo rispetto, questo va detto, anche se evidentemente il babbo aveva gestito alla sua maniera anche il rapporto con lui, cioè con riservatezza estrema, accennando appena alle sue opere e parlandone per lo più a proposito di questioni tecniche, per cui questo Beppe non aveva idea di cosa stessimo parlando. Abbiamo fissato perché venisse a vederli il prima possibile - un mese dopo, non chiedermi perché. Quando è venuto è rimasto sbalordito, soprattutto della Porrettana, ma anche degli altri due, e ha detto che li avrebbero presi loro tutti e tre. Per "loro" intendeva l'associazione modellisti di cui era presidente. Uno, quello che non hai mai visto, ha detto che era perfetto per la scuola, perché hanno addirittura una scuola per insegnare ai giovani a costruire plastici di trenini, renditi conto. E insomma questo Beppe era entusiasta, era solo questione di trovare un furgone abbastanza grande per poterli portar via: ha preso il mio numero, mi ha lasciato il suo, ed è sparito, letteralmente, per altri due mesi. Ho provato a chiamarlo un paio di volte, ma era staccato. Sono anche andato al circolo a chiedere di lui, mica per niente, metti che gli fosse capitato qualcosa di brutto, ma nessuno ha saputo dirmi nulla. Finché due settimane fa mi ha telefonato e mi ha detto che finalmente aveva trovato il furgone. Abbiamo fissato e la settimana scorsa è venuto insieme ai "ragazzi", come li chiama lui (tutti abbondantemente sopra i cinquant'anni), a prendersi i plastici. Ecco, Giacomo, tu non immagini il rispetto che questi "ragazzi" manifestavano per il babbo: in sei, erano, compreso Beppe, tutti col cappello in mano (portano tutti il cappello, di quelli tipo Borsalino che andavano una volta, non chiedermi perché), incantati, con gli occhi lucidi davanti al suo lavoro di cinquant'anni. Uno ha cercato di farfugliarmi che era un grande onore, per lui, essere lì e addirittura prendere in eredità le opere dell'Ingegnere, come lo chiamavano tutti: era l'ex proprietario, ora in pensione, del negozio dove il babbo andava a comprare i trenini e a discutere di cose tecniche, e mi ha confessato che vedere i plastici del babbo era sempre stato uno dei suoi più grandi desideri ma che il babbo gli metteva soggezione e per questo non gliel'aveva mai chiesto. Di nuovo, constatavo che il babbo non aveva mai dato confidenza a nessuno, né nessuno aveva fatto nulla per prendersela, ragion per cui, malgrado vivessero divorati dalla stessa passione e nonostante la gran considerazione in cui si tenevano reciprocamente, avevano vissuto per decenni in due universi paralleli, incrociandosi pochissime volte. A Firenze, capisci, non a Tokyo. Poi, finiti i convenevoli, si sono messi al lavoro: hanno applicato degli appositi non so come chiamarli, rialzi a morsetto a ognuno dei plastici, di modo da proteggerli (delle specie di ponticelli regolabili in compensato, simili a quelli di cartone che mettono le pasticcerie sui vassoi di pastarelle perché non si acciacchino), poi li hanno avvolti nel pluriball e se li sono caricati sulle spalle. Uno, quello grande, non passava dalle porte e hanno dovuto addirittura calarlo dal finestrone con le funi. Un'ora e mezza, ci hanno messo. Alla fine mi hanno ringraziato, tutti commossi, e se ne sono andati sul loro furgone, con Beppe alla guida, due accanto a lui e gli altri tre sul pianale, a reggere il plastico grande che sporgeva di un metro e sennò cascava. Per onorare la riservatezza con cui il babbo li ha sempre trattati, sono certo che non li rivedrò più. Solo che, per dire come siano davvero una specie di setta segreta, ieri, che era domenica, sono andato alla solita rosticceria a prendere il solito pollo arrosto, e uno dei rosticcieri, quello più vecchio, un tipo secco secco con un faccione che pare di gomma e i denti marci, che conosco da anni, mi è venuto vicino e mi ha bisbigliato nell'orecchio: "Ho saputo che i ragazzi sono stati da te." Io non avevo capito a cosa alludesse, e lui allora mi ha strizzato l'occhio e ha sussurrato, ancora più piano, proprio come se fosse un segreto che gli altri clienti non dovevano sentire nemmeno per sbaglio "i plastici di tuo padre: dicono che sono molto validi". Ha detto proprio così, "validi".

Capito come va, qui?

No, forse non hai capito. Colpa mia che non riesco a spiegarlo. Colpa mia.

Buon Natale

Marco

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Pagina 149

Di crescita e forma (1973-74)



Una sera, nella casa di piazza Savonarola, Marco, Irene e Giacomo Carrera udirono i loro genitori litigare. Non succedeva mai che litigassero apertamente: di solito lo facevano di nascosto, bisbigliando, per non farsi sentire dai figli, col risultato che li sentiva soltanto Irene, poiché Irene li spiava. Per Marco e Giacomo fu la prima volta. L'oggetto del contendere era Marco ma lui e suo fratello non se ne resero conto: solo Irene sapeva, perché aveva seguito la lite fin dall'inizio, mentre loro due l'avevano raggiunta dietro la porta della camera della madre solo quando erano cominciati gli urli. Il fatto è che Marco non era cresciuto regolarmente: fin dal primo anno d'età il suo sviluppo fisico era rimasto schiacciato sui centili più bassi, e dai tre anni in poi era proprio uscito dai diagrammi. Era tuttavia sempre stato molto bello e proporzionato, cosa che secondo Letizia segnalava un preciso intento della natura nei suoi confronti - di staccarlo dal mucchio, differenziarlo, per mettere in chiaro che gli aveva assegnato doni molto rari. L'armonia, secondo lei, che quel bambino aveva sempre incarnato - minuto, d'accordo, ma pur sempre luminoso, aggraziato e anche, per quanto fosse un po' forzato dirlo di un bambino, virile - era evidentemente connaturata con un ritmo di crescita completamente diverso, e infatti anche i denti li aveva cambiati molto tardi. Non c'era da preoccuparsi. Del resto, non appena questo deficit era apparso evidente, lei aveva coniato per il suo bambino il più rassicurante dei soprannomi, colibrì, per rimarcare che, insieme alla piccolezza, in comune con quel grazioso uccellino Marco aveva anche la bellezza, per l'appunto, e la velocità: fisica - notevole, in effetti -, che gli tornava buona negli sport; e mentale - asserita, questa, più che altro - nella scuola e nella vita sociale. Perciò aveva continuato a ripetere sempre lo stesso mantra, anno dopo anno: non c'era da preoccuparsi, non c'era da preoccuparsi, non c'era da preoccuparsi.

Probo, invece, si era preoccupato subito. Finché Marco era bambino si era però sforzato di credere alle parole rassicuranti di sua moglie, ma quando l'adolescenza aveva cominciato ad accennarsi senza che il corpo di suo figlio manifestasse l'intenzione di volersi sviluppare secondo la norma, si era sentito colpevole. Come avevano potuto, loro due, lasciar fare alla natura? Era una malattia, altro che colibrì, come potevano essere tanto folli da non preoccuparsi? Cosa non funzionava in Marco? Aveva cominciato a interrogare la scienza, prima in generale, senza tirare in ballo il ragazzo - ma poi, quando ebbe compiuto i quattordici anni, per Probo divenne veramente insopportabile vederlo appollaiato su quella Vespina come un beduino sul cammello, e lo coinvolse. Il risultato fu una serie di consulti, di esami e di accertamenti diagnostici, al termine della quale fu stabilito che Marco soffriva di una forma di ipoevolutismo staturale (grazie tante, questo si vedeva), moderato e non grave (e meno male, ma si vedeva anche questo), dovuto a insufficiente produzione di ormone della crescita. Il problema era che a quel tempo la cura non esisteva: esistevano dei protocolli sperimentali, ma erano generalmente circoscritti ai casi di ipoevolutismo grave, cioè il nanismo. Solo uno specialista, tra i tanti consultati, un pediatra endocrinologo di Milano di nome Vavassori, aveva dichiarato di poterli aiutare, grazie a un programma che stava portando avanti da qualche anno con risultati - asserì - molto incoraggianti. Da qui la lite. Probo comunicò a Letizia di avere intenzione di inserire Marco in quel programma, Letizia replicò che si trattava di una follia, Probo ribatté che la follia era stata lasciar andare le cose per conto loro per tutti quegli anni, Letizia insistette con la faccenda dell'armonia e del colibrì - e fin qui avevano discusso a voce bassa, come al solito, e solo Irene li aveva uditi. La lite entrò in una fase del tutto nuova quando Letizia, per rafforzare la propria tesi circa la necessità di non interferire con la natura, menzionò un libro, anzi non un libro ma il libro, il feticcio della sua generazione di architetti, o perlomeno di quelli con cui faceva comunella, vale a dire i più intelligenti e internazionali, dato che andava letto in inglese non essendo nemmeno mai stato tradotto in italiano: On Growth and Form, di D'Arcy Wentworth Thompson. A quel punto un grido belluino scosse la grande casa di piazza Savonarola, generalmente silenziosa, giungendo, nitido e incongruo, fino alle orecchie dei due fratelli che stavano guardando la televisione: "DEVI INFILARTELO SU PER IL CULO, THOMPSON, HAI CAPITOOO?!!?"

Da lì in poi il litigio era andato avanti come una controversia accademica, gridata però a tutta voce e infarcita di insulti: i due fratelli non capivano, Irene ghignava e non spiegava. Letizia dette del povero stronzo a Probo, Probo replicò dicendo che quel libro del cazzo lei lo citava ma non l'aveva nemmeno letto, così come non l'aveva letto nessuno dei professori dei suoi coglioni che lo menzionavano a ogni due per tre; Letizia allora si trovò costretta a riassumere in parole comprensibili da un mentecatto il senso del capitolo intitolato Magnitude, nel quale si dimostra, per l'appunto, matematicamente, che in natura forma e sviluppo sono legati da un'intrinseca e indissolubile legge armonica, e Probo le dette della cialtrona, dato che citava sempre quel capitolo, cioè il primo, perché era l'unico che avesse letto; e così via. La lite durò a lungo, spingendosi molto lontano dalla scintilla che l'aveva generata - investendo, per parte di lei, concetti che un ingegnere fallito non poteva nemmeno sognarsi di comprendere, tipo il mandala junghiano e l'arte-terapia steineriana, e per parte di lui reiterando sempre lo stesso invito, cioè quello di infilare mandala e arte-terapia e Jung e Steiner nello stesso orifizio destinato poco prima a On Growth and Form. Ancora più lontano: Letizia era stufa, stufa marcia, non ce la faceva più. E di cosa cazzo era stufa? Della fatica che doveva fare per sopportare un coglione come lui. E sapesse lei, allora, quanto si era sfrantumato le palle lui delle sue stronzate. Ma vaffanculo. Ma vaffanculo te. I due ragazzi si preoccuparono: sembrava davvero che i loro genitori stessero separandosi. Ma Irene, invece di perder tempo a preoccuparsi, agì: "Cosa cazzo vi prende?" gridò, bussando alla loro porta, "Fatela finita!" I suoi fratelli scapparono immediatamente in salotto, ma Irene tenne la posizione e rimase lì, alla porta, per affrontarli. Era maggiorenne, ormai: per come vedeva le cose, nessuno avrebbe dovuto andarsene da quella casa prima che lo facesse lei - dunque, niente separazioni. Sua madre accapò alla porta, si scusò, seguita da suo padre, che si scusò a sua volta. Irene li guardò con sdegno, disse solo che fortunatamente Marco non aveva capito qual era il motivo della lite, e tanto bastò per determinare (questo si può dirlo solo col senno di poi, però si può dirlo) il futuro di almeno tre membri della famiglia, se non di quattro, se non di tutti e cinque: quello dei suoi genitori stessi e quello di Marco, di sicuro.

Accadde infatti che Probo e Letizia, sconvolti per esser stati così cazziati dalla loro figlia, si sentirono talmente in colpa, talmente mortificati ed egoisti, che rammendarono immediatamente lo strappo generato da quella lite nella rete tessuta negli anni con tanta fatica e tanta ipocrisia intorno al loro nido. Vi era infatti qualcosa di strenuo, nel loro legame, e di immodificabile, che essi nemmeno riuscivano a spiegare: né Letizia alla sua analista, durante le tumultuose sedute che da anni s'incentravano proprio sulla sua incapacità di separarsi da Probo, né Probo a se stesso, nelle sue lunghe solitarie giornate al tavolo da lavoro, la mano ferma, l'occhio aguzzo, il fischio al naso del fumatore e la mente che vagava lontano fino ad abbracciare tutta intera la propria sconfinata infelicità. Perché rimanevano insieme? Perché, se al referendum di pochi mesi prima avevano entrambi convintamente votato per il divorzio? Perché, se ormai non si sopportavano più? Perché? Paura, verrebbe da pensare - ma paura di che? Di sicuro la paura c'era, ma non era la stessa paura - e dunque anche quella li separava. C'era qualcos'altro, qualcosa di ignoto e indicibile che li teneva insieme - un unico misterioso punto di contatto che manteneva attiva la promessa che si erano fatti quasi vent'anni prima, quando sbocciavan le viole, come diceva una canzone di Fabrizio De André uscita da poco - da poco rispetto alla lite, non alla promessa, che era di molto precedente, anche se era esattamente la stessa: "Non ci lasceremo mai, mai, e poi mai." Del resto, anche quella canzone che parlava di loro li separava, come tutto, e come tutto, separando loro due sembrava smembrare tutta la famiglia, poiché: Letizia e Marco l'ascoltavano (ma separatamente, con dischi e su giradischi separati, e senza nemmeno sapere l'uno dell'altra); Giacomo e Irene no (uno perché era troppo piccolo, l'altra perché la trovava stucchevole); e Probo ne ignorava bellamente l'esistenza. Ma niente: loro due restavano insieme, la famiglia non si smembrava, e il nodo sempre più lento non si scioglieva. Il brano s'intitolava Canzone dell'amore perduto, ma il loro amore non si perdeva mai; finiva con le parole "per un amore nuovo", ma un amore nuovo per loro non ci fu mai.

Di sicuro, quell'intervento di Irene durante la lite tra i suoi genitori li rimise insieme. Di sicuro, come si è detto, determinò il loro futuro e quello di Marco. Perché da lì in poi prevalse definitivamente la prudenza, prevalse la pietà, prevalse lo sforzo di negare il bene a se stessi per il cosiddetto, e supposto, bene dei figli. Non che potesse funzionare, Letizia e Probo non mancavano dell'intelligenza per capirlo: l'infelicità rimane tale anche se diventa una scelta, e se da un certo giorno in poi essa è l'unico vero prodotto di un matrimonio, è quella che ai figli si trasmette. Però, proprio l'intelligenza li protesse dall'illusione che l'infelicità fosse un accidente che capitava loro tra capo e collo, poiché a guardare nel proprio passato con un minimo di onestà entrambi erano costretti a riconoscere che di felicità non c'era mai stata nemmeno l'ombra: erano sempre stati infelici, anche prima di conoscersi, l'infelicità loro due l'avevano sempre prodotta, autonomamente, come certi organismi fanno col colesterolo, e l'unico breve intervallo di felicità che avessero conosciuto nella propria vita l'avevano vissuto insieme, all'inizio della loro unione, quando si erano innamorati e sposati e avevano fatto figli. Smisero di colpo di litigare, quella sera, e rimasero insieme a non sopportarsi, a ferirsi e a litigare sottovoce per il resto dei loro giorni.

Riguardo a Marco, si sforzarono di venirsi incontro. Letizia lavorò duramente per rinunciare a quello che la sua analista chiamava il mito del colibrì (il figlio maschio che rimaneva piccolo, la sua grazia e la sua bellezza che rimanevano inaccessibili a qualunque donna che non fosse lei ecc.), e accettare il punto di vista di Probo, secondo il quale bisognava fare tutto ciò che fosse scientificamente possibile per aiutarlo a crescere - sacrificando su quell'altare le lucenti convinzioni in materia di crescita e forma maturate con la lettura (integrale, checché dicesse Probo) di D'Arcy Wentworth Thompson. Probo procurò di incassare questa cedola non già come un'affermazione personale, che l'avrebbe reso ancora più solo, bensì come un'insperata occasione di condividere di nuovo qualcosa d'importante con sua moglie, che malgrado tutto lui amava ancora. Perciò condusse con sé Letizia a Milano dal dottor Vavassori, affinché lo conoscesse e si facesse un'idea della sua serietà, le diede mandato di verificare autonomamente la solidità del percorso terapeutico che egli prospettava e si impegnò a tenere conto del suo giudizio nel maturare la decisione definitiva. Letizia ripeté da sola tutta la ricerca che Probo - anche lui da solo - aveva effettuato nei mesi precedenti, e si rese conto che il protocollo proposto dallo specialista di Milano era effettivamente l'unica possibilità seria che la comunità scientifica del loro tempo fosse in grado di offrire per aiutare Marco a crescere. Non fu come averla fatta insieme, ma perlomeno, per una volta dopo tanto tempo, si ritrovarono a fare la stessa strada.

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Che si trattasse di uno scherzo o no, il proposito di Probo fu spazzato via dalla diagnosi che giunse tre settimane dopo, in un piovoso venerdì di novembre, a seguito della biopsia sui tessuti prelevati durante la colonscopia eseguita dopo la scoperta di sangue occulto nelle feci in un esame di routine. Adenocarcinoma. Addio Londra. Addio Marylebone. Era una fine del mondo, sì, ma diversa da come la intendeva Joanna Southcott. Cominciò invece la nota Via Crucis, vanto della medicina contemporanea, che libera il malato dall'arcaico meccanismo verdetto-esecuzione e lo impegna in un languido, talvolta lungo, talvolta molto lungo cammino verso la fine - una Via Crucis, per l'appunto, scandita dalle sue brave stazioni, spesso ben più di quattordici. Scoperta del male. Biopsia. Risultato della biopsia. Consulto di specialisti. Indecisione tra operazione e trattamento. Scelta dell'operazione o del trattamento. Esito incoraggiante dell'operazione o dei primi cicli del trattamento. Scoperta che anche se si è scelta l'operazione, a un certo punto è necessario il trattamento. Effetti collaterali del trattamento. Cambio del protocollo di trattamento. Scoperta che anche se si è scelto il trattamento, a un certo punto è necessaria l'operazione. E via e via e via... Tutti l'hanno conosciuto, questo cammino, direttamente o indirettamente, e chi non l'ha conosciuto lo conoscerà, e chi non l'ha conosciuto né lo conoscerà o è un eletto o è tra tutti il più sventurato.

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Gli sguardi sono corpo (2013)



    A: enricogras.rigano@gmail.com
    Inviata - Gmail -12 febbraio 2013 22:11
    Oggetto: Testo per Convegno
    Da: Marco Carrera



Ciao, Enrico,

di seguito ti allego il testo dell'intervento che proporrò al convegno. Dopo tanti anni, tornare a partecipare a un convegno mi emoziona. Ti ringrazio per avermene dato l'occasione, e ti prego di essere sincero nel giudizio, se ti sembrasse che il testo non sia all'altezza.

Un abbraccio

Marco


    Convegno: LA PERCEZIONE VISIVA TRA OCCHIO E CERVELLO
    Prato, 14 marzo 2013, Auditorium del Museo Pecci
    Titolo dell'intervento: GLI SGUARDI SONO CORPO
    Durata: 8-9 minuti
    Relatore: dott. Marco Carrera, AOU Careggi, Firenze

"Nonno-nonno-nonno-nonno..." Sono sdraiato sul letto con la mia nipotina Miraijin, di ventisei mesi. L'intento è quello di addormentarla. La tengo stretta a me e con la mano le accarezzo i capelli ricci. Nell'altra mano ho il cellulare, sul quale sto leggendo un sms, e a Miraijin questo non garba. "Nonno-nonno-nonno-nonno..." protesta, a ciclo continuo. Interrompo la lettura dell'sms, la guardo: lei mi sorride e smette all'istante di chiamarmi. Mi rimetto a leggere il messaggio continuando a stringerla e ad accarezzarla, e lei riparte immediatamente: "Nonno-nonno-nonno-nonno..." Torno a guardarla. Smette. Torno all'sms. Ricomincia. Non le basta il mio corpo, il mio abbraccio, il mio calore, non le bastano le mie carezze. Vuole il mio sguardo - altrimenti non ci sei, mi sta dicendo, e se non ci sei scordati che io mi addormenti.

Sono alla stazione di servizio, ho appena fatto il pieno di gasolio. Sto pagando con la carta di credito. Digitato l'importo, la macchinetta elettronica (ho imparato di recente che si chiama POS, acronimo di Point Of Sale) richiede l'immissione del PIN (che invece so da tempo essere l'acronimo di Personal Identification Number). Il benzinaio ruota il POS verso di me e poi si volta di scatto dall'altra parte, verso la campagna pettinata dal vento. Lo fa in maniera così ostentata che questo suo gesto risulta enorme, in un contesto di gesti invece tutti piccoli, normali, privi di peso specifico. Per nessun'altra ragione al mondo farebbe un gesto così madornale se non per dirmi che non mi sta guardando mentre digito il mio PIN - e perciò che non dovrò prendermela con lui, il giorno in cui mi cloneranno la carta.

Nel Canto XIII del Purgatorio, Dante si trova nella seconda cornice, al cospetto delle anime degli invidiosi. Esse sono strette l'una all'altra, vestite di panno grezzo color della roccia alla quale sono addossate, e stanno invocando l'intercessione dei santi e della Madonna. Virgilio invita Dante a guardarle da vicino, e Dante vede che hanno tutte gli occhi cuciti col fil di ferro, con le lacrime che colano fuori dalle cuciture. A questo punto il poeta compie un gesto meraviglioso, pieno di pietà e di modernità: "A me pareva, andando, fare oltraggio / Veggendo altrui, non essendo veduto / Perch'io mi volsi al mio consiglio saggio." Cioè, distoglie lo sguardo, lo rivolge a Virgilio, e non perché la vista di quel supplizio lo inorridisca, ma per non oltraggiare, guardandole, quelle anime che non possono ricambiare il suo sguardo. È come se dicesse che non si spara su gente disarmata, che non si colpiscono persone impossibilitate a difendersi.

Secondo quanto dichiarato da un membro del suo staff al periodico di moda "Notorious", Prince non permetteva ai suoi impiegati di guardarlo. "L'ho letteralmente visto licenziare un tipo," dice l'impiegato, rimasto anonimo, "per via del fatto che lo aveva guardato. Perché mi guarda, questo qui? Ditegli di andarsene."

In America hanno anche coniato una definizione per questa provocazione: "eye contact". A quel disgraziato è costata il lavoro, ma provate ad alzare lo sguardo su chi vi sta accanto in un qualsiasi locale malfamato del Bronx. "Che avevi fatto per esser ridotto così?" "Eye contact".

La filosofa francese Baldine Saint Girons ha scritto un libro, pubblicato in Italia nel 2010, che s'intitola "L'atto estetico. Un saggio in cinquanta questioni", nel quale introduce un concetto filosoficamente piuttosto spinto - quello per l'appunto di "atto" estetico. L'uso di questo vocabolo, "atto", rovescia completamente la concezione secondo la quale il guardare è sinonimo di passività, in contrapposizione con il fare. L'atto estetico, dice Baldine Saint Girons, è un "immischiarsi"; guardare è toccare a distanza; gli sguardi sono corpo. Altro che passività.

Ogni giorno veniamo colpiti da centinaia di sguardi. A nostra volta, colpiamo con lo sguardo centinaia di persone. Il più delle volte nessuno ci fa caso: noi non ci accorgiamo di essere guardati, gli altri non si accorgono che noi li guardiamo. Perciò non succede niente, e questi sguardi non producono conseguenze - ma non c'è nessuna ragione di considerarli meno pesanti di quelli che ho citato poco fa. E, anzi: siamo poi così sicuri che gli sguardi non ricambiati non producano niente? C'è gente che s'innamora guardando ogni giorno dalla finestra una certa persona che passa per strada. C'è gente che va in fissa col conduttore o con la conduttrice che vede in tv. No, non esistono sguardi più importanti e sguardi meno importanti: nel momento in cui vengono scoccati, tutti gli sguardi sono un immischiarsi, ed è solo la combinazione degli eventi, cioè il caso, a determinarne le conseguenze.

Si tratta di conseguenze quasi esclusivamente emotive. Prendiamo il benzinaio. Mettiamo che non volti la faccia in quel modo così appariscente, mettiamo che, al contrario, si metta a fissare le mie dita mentre digito il PIN; o anche solo che mi guardi in faccia anziché gettare lo sguardo tra i campi; ne sarei infastidito, questo è sicuro, e la mia reazione, repressa o no, sarebbe molto simile a quella di Prince col suo impiegato: perché mi guarda, questo qui? Pur non arrivando a credere che stia cercando di memorizzare il mio codice personale per utilizzarlo in una carta clonata, mi sentirei violato. È la dimostrazione che gli sguardi sono armi potentissime, e producono urti emotivi anche quando non sono lanciati allo scopo di produrli. A chi non è accaduto di sentirsi improvvisamente umiliato quando la persona con cui sta parlando getta un'occhiata fulminea all'orologio? Ciò che cambia, e rende gli sguardi della gente più o meno sostenibili, è la qualità dell'attenzione che trasportano. Ecco un tale, ritto sul ciglio dell'autostrada, accanto alla sua macchina ferma: noi passiamo a centotrenta all'ora e in un lampo ci accorgiamo che sta orinando. Probabilmente è una persona seria, stimata, rispettata e perfettamente sana di mente: tuttavia, alle prese con uno stimolo indifferibile, si è trovato costretto a questo atto - diciamo così - socialmente estremo. "Al diavolo," dev'essersi detto, "sempre meglio che farsela sotto" - ma per niente al mondo farebbe quel che si è risolto a fare guardando verso di noi che, passando, lo vediamo. Ci dà le spalle, azzera la sua attenzione nei nostri confronti, e così facendo annienta l'urto che i nostri sguardi produrrebbero su di lui. In realtà, di spalle o di fronte cambia poco, essendo molto improbabile che noi lo si conosca, eppure per lui cambia tutto. Questo significa che l'atto più importante che si compie lì in quel momento non è il suo orinare all'aperto, ma il nostro vederglielo fare. Se gli venisse impedito di darci le spalle, l'atto più importante sarebbe il suo vedere noi che lo vediamo. Altro che passività.

"Sono ciò che vedo," ha detto Alexandre Hollan: essendo egli un pittore è naturale che orienti questa identità nella direzione percorsa dai propri sguardi; ma, allo stesso modo, Kate Moss potrebbe pervenire alla propria identità invertendo il senso di marcia, e affermare: "Sono ciò che gli altri vedono di me." Lo strumento in cui l'essere si afferma rimane lo stesso - lo sguardo. Per contro, lo sguardo elettronico dei dispositivi automatici - innocenti per definizione - è diventato il ricettacolo ideale delle più gravi responsabilità. Il puntatore scelto dell'aviazione americana Thomas Ferebee chiese ai propri occhi di dirgli il momento giusto per sganciare la bomba atomica su Hiroshima dall'"Enola Gay"; sempre i suoi occhi videro, pochi momenti dopo, il fungo terrificante sollevato dallo scoppio. Ciò significa che si immischiò. Oggi gli americani utilizzano bombardieri senza equipaggio, detti droni, che sganciano le bombe dietro comando dell'algoritmo che li governa. Senza uno sguardo diretto non s'immischia nessuno, e la colpa non è di nessuno.

E poi c'è la contemplazione, l'atto estetico più creativo e mistificatorio. Ecco, per esempio, Miraijin s'è addormentata, e invece di leggere il mio sms mi sono messo a contemplarla: è una bambina, una normale bambina che dorme - ma il mio sguardo la trasforma nella cosa più bella del mondo.

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