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| << | < | > | >> |Pagina 9Oggi il tema del giorno è l'allarme gamberi. È su tutti i giornali, e non soltanto nelle pagine della cronaca di Roma, anche in quelle nazionali. I gamberi-killer della Louisiana. Ne parlano tutti con preoccupazione perché si tratta di una specie particolare, importata una quindicina d'anni fa dalla Louisiana da un allevatore del lago di Bracciano e sparsasi per tutto il Lazio, dicono, a causa della sua straripante capacità di proliferazione. Di fosso in fosso, di canale di scolo in canale di scolo, sono risaliti fino alla discarica di Malagrotta e da lì, sempre stando a quello che dicono i giornali, l'altra notte hanno dato l'assalto a Roma, attraversando l'Aurelia all'altezza del tredicesimo chilometro e generando notevoli problemi. Un maxitamponamento, dicono, tra macchine che non riuscivano più a frenare sull'asfalto ricoperto da quei mostri rossi. Secondo i giornali, la Provincia sta predisponendo imponenti recinzioni, la polizia stradale sta compiendo sopralluoghi e gli ambientalisti lanciano il grido d'allarme per l'equilibrio dell'ecosistema, mentre si temono altri assalti nei prossimi giorni. Questo, sui giornali. Ora, si dà il caso che io mi trovi proprio al tredicesimo chilometro dell'Aurelia seduto fuori dal mio ufficio. È una mattina luminosa e croccante, le rondini strepitano nel cielo e un vento tiepido mi accarezza i peli delle braccia mentre guardo due operai con la tuta arancione che stanno effettivamente tirando su una recinzione – nient'affatto imponente, per la verità – lungo la strada a un centinaio di metri da me. Ma soprattutto, ero qui anche ieri mattina alle cinque e mezza – ero passato per recuperare le chiavi di casa, dopo una notte turbolenta – e ho visto con questi occhi un furgone targato straniero – forse rumeno, forse polacco – sbandare e strisciare con la fiancata contro il guardrail, il portello posteriore aprirsi di colpo e una valanga di gamberi rovesciarsi sull'asfalto. Gamberi, per l'appunto, anzi gamberoni – una miriade: niente cassette di polistirolo, niente contenitori d'altro tipo, quel furgone era, Dio solo sa perché, pieno zeppo di gamberi sfusi e ghiaccio triturato, e ha praticamente svuotato tutto il carico per strada, qui davanti, proseguendo la corsa senza nemmeno rallentare. Dunque è vero che ieri mattina all'alba, qui al tredicesimo chilometro, l'Aurelia si è sì improvvisamente coperta di un incongruo manto di gamberoni, presto ridotti a poltiglia dalle macchine transitate subito dopo il furgone; ed è vero che quando ormai non se ne poteva più sapere né indovinare la provenienza, quel pastone si è reso responsabile di un incidente tra due macchine che arrivavano un po' troppo veloci – una Clio grigia molto vecchia e una Punto verde –, le quali, frenando, si sono girate in testa-coda e si sono incastrate l'una nell'altra con una certa grazia per andare a finire la loro corsa insieme contro il guardrail in quello che la branca della fisica chiamata cinematica definisce "urto perfettamente anelastico" – lo so perché mia figlia è stata appena rimandata in fisica, e lo sta ripassando proprio in questi giorni. Questo è vero, perché l'ho visto succedere. Ma il resto no, non è vero. Non c'è stata nessuna invasione. Insomma, ieri mattina all'alba io avevo i miei bei pensieri, e anche una certa fretta, ma ho aspettato, giuro, prima di andarmene a casa, di capire se la mia assistenza e/o testimonianza potessero essere considerate necessarie o importanti. Vedendo però che i conducenti delle due auto erano scesi, incolumi, per capacitarsi dell'accaduto, e che le altre macchine riuscivano a fermarsi o a rallentare senza falciarli e senza aggravare l'entità dell'incidente, e considerando che non avevo annotato la targa del furgone, e non immaginando minimamente di essere il solo a sapere cos'era successo, ed essendo veramente molto, credetemi, molto stanco, e bisognoso di una doccia e di un minimo di riposo e soprattutto di vedere mia figlia, a casa, e scambiarci due parole facendo colazione prima di ritornare in questo stesso ufficio per cominciare la mia giornata lavorativa, ho stabilito che potevo andarmene senza immischiarmi. Non era successo a me, ho pensato, se capite cosa intendo – se credete anche voi alla cruciale differenza che c'è tra davanti a me e a me. Così me ne sono andato. Quando sono tornato, quattro ore più tardi, c'era ancora qualche gamberone spiaccicato sull'asfalto, e c'era ancora una macchina della polizia nel controviale, ma gli agenti erano inoperosi e non parevano in cerca di informazioni, mentre la strada era bagnata e pulita e nessuno sembrava pensare più a quello strano incidente. Così, anche lo scrupolo residuo che la mia testimonianza, senza targa annotata, potesse aiutare a rintracciare il furgone, nel caso si dovessero addebitare a qualcuno i danni dell'incidente, o anche solo per chieder conto di quell'insolito modo di trasportare crostacei, sciolti e senza alcuna precauzione igienica, è scomparso, e a quella faccenda non ho pensato più. Dopodiché, stamattina, apro il "Corriere della Sera" e leggo la storia dei gamberi della Louisiana. Un trafiletto in cronaca, abbastanza stringato. Allora vado a comprare "Il Messaggero", che sulla cronaca di Roma è imbattibile, e ci trovo un pezzo in cronaca nazionale e addirittura una pagina in quella locale: tutta la storia che ho raccontato dei gamberi-killer della Louisiana, della loro importazione e proliferazione e della loro conquista del territorio fino all'attraversamento dell'Aurelia, più l'intervista all'allevatore di Bracciano, più una a un ambientalista e una al portavoce della polizia stradale, e perfino un ammiccante riquadro dedicato a Forrest Gump, accompagnato da una foto di Tom Hanks che però non sembra provenire dal film perché porta gli occhiali. Così, adesso l'idea di essere l'unico al mondo a sapere come sono veramente andate le cose qui davanti ieri mattina all'alba mi insinua nella mente il sospetto che questa faccenda allora mi riguardi; che, diversamente da quanto credevo, sia successa a me. E ora sono qui a cercare di resistere a questa tentazione, perché il non sentirmi riguardato dalle cose che non mi riguardano è proprio ciò che credevo di avere guadagnato andando in là con gli anni. Una per una, devo sbarazzarmi di tutte le domande che ormai mi si sono formate nella mente, ed è un esercizio piuttosto faticoso. Chi ha tirato fuori la storia dell'invasione dei gamberi della Louisiana? Non ha importanza. Perché? Non ha importanza. È una leggenda metropolitana? Probabilmente. Possibile che tutti i giornali (ho controllato anche sulla "Repubblica" e "Il Tempo") se la siano bevuta senza verificare? Sì. E anche ammesso che i gamberi rovesciati sull'Aurelia fossero davvero di quella specie, com'è possibile che nessuno si sia accorto che erano già morti? O erano vivi? Non ha importanza. E perché nessuno fa il minimo accenno al ghiaccio che è uscito dal furgone insieme ai gamberi e che dovrebbe indirizzare, a logica, verso l'ipotesi di un carico perduto da un camion piuttosto che di un'invasione di crostacei famelici? Si è sciolto così in fretta, all'alba, quando la temperatura non supera i diciotto gradi? E anche se così fosse, come mai nessuno ha trovato strano che in una mattinata serena e luminosa quel tratto di carreggiata fosse bagnato prima che arrivassero i pompieri a ripulirla? Non ha importanza. Sì. Superficialità. Non dovrei farmi avanti e dire quello che ho visto, per ristabilire un minimo di verità? No. E ha senso scomodare la parola "verità" in una storia come questa? No. E verrei mai creduto, poi, se decidessi di parlare, visto che anche quell'allevatore, in un certo senso ritenuto il primo responsabile dell'abnorme proliferazione di cui parlano i giornali, convalida l'ipotesi che i gamberi si siano spinti fin qui da Bracciano con le loro dannate zampette? Probabilmente no. E in ogni caso, dove cazzo andava, a quell'ora, un furgone pieno di gamberi sfusi? Suona il campanello, qualcuno è entrato nel piazzale. | << | < | > | >> |Pagina 119Un uomo che scavalca i guardrail di una strada a scorrimento veloce è un uomo in difficoltà... Sto attraversando l'Aurelia a piedi, cosa che fino a oggi non ho mai nemmeno lontanamente pensato di fare, ma ora sono obbligato: non ho più la patente, e andare a piedi fino al cavalcavia, un chilometro più in là, per poi tornare proprio qui davanti camminando per un altro chilometro è qualcosa che al momento non sono in grado nemmeno di concepire. Fino a poco fa avevamo una bicicletta elettrica nel piazzale, ritiro anomalo in una ditta di consegne a domicilio che non pagava più le rate di tutti i veicoli di servizio: ora tornerebbe utile, ma l'ho appena venduta a un giovane avvocato cui avevano per l'appunto ritirato la patente. Anzi, mi sa che dovrò chiamarlo per informarmi su cosa si deve fare per riaverla – pare si debbano seguire dei corsi. Già, ma come faccio? Il suo numero è nel cellulare che ho lasciato a casa di quella serpe, e l'atto di vendita sarà stato sequestrato dalla Finanza come tutti gli altri. Che casino... Oltre il guardrail devo anche oltrepassare le – ridicole, posso dirlo? – recinzioni tirate su ieri per arginare l'invasione dei gamberi. Guarda qua: se fossi un gambero della Louisiana non mi fermerebbe certo questo accrocco – se esistesse il pericolo dei gamberi della Louisiana: ma non esiste, i gamberi erano già morti, sono fuoriusciti da un furgone rumeno, anche se pare che lo sappia solo io. Devo stare attento però: per esempio, c'è mancato poco che questo Doblò mi tirasse sotto. È pericolosissimo attraversare l'Aurelia qui, siamo in curva, le macchine vanno forte e gli automobilisti guidano ancora in modalità autostradale: l'eventualità di trovarsi davanti un pedone non è nemmeno presa in considerazione. Devo concentrarmi, calmarmi. Per oggi ho già combinato abbastanza guai. Ecco, ora sembra che non passi nessuno, posso rischiare. Di corsa, però: via! – e anche correre mi fa male al polso. Eccomi sul muretto di mezzeria. Ora è più semplice, la visibilità nell'altro senso di marcia è migliore. Dopo questo taxi, dopo questo furgone, dopo questa Panda per il trasporto del sangue – ora. Quattro balzi e sono dall'altra parte. Ultimo guardrail da scavalcare. Da questa parte le recinzioni anti-gambero non le hanno messe. Una donna anziana mi guarda mentre scavalco: cammina lentamente, con due sacchetti del supermercato che sembrano pesantissimi. Continua a guardarmi, anche dopo che è passata, voltando indietro la testa: le sono spuntato davanti all'improvviso da dietro il guardrail, sono una minaccia. Se sapesse invece come mi sento: non sono mai stato più inoffensivo di così. In realtà è già un bel risultato che mi trovi qui, con una destinazione precisa e una cosa da fare, perché non è stato facile. Ho dovuto compiere un certo sforzo per non lasciarmi sciogliere dal caldo nel mio ufficio svuotato dalla Finanza – per alzarmi, uscire, agire. L'ingorgo di emergenze che si sono incastrate l'una nell'altra mi paralizzava: i pensieri, le preoccupazioni, le domande, la paura. Claudia è scappata di casa e non vuole parlarmi. Perché? È venuta la Finanza in ufficio e ha sequestrato tutto. Perché? Lello mi ha lasciato un pizzino nascosto nel mobiletto, mi ha dato un indirizzo di posta elettronica. Perché? E poi il ritiro mancato della Q3, la patente sequestrata, la multa pazzesca, í ventilatori rotti, la stanchezza – c'è mancato veramente un pelo che mi addormentassi col viso sulla scrivania, per poi svegliarmi nel cuore della notte – lo so come vanno queste cose – sudato, schifato della vita e attanagliato dall'angoscia. Sicché mi sono alzato di colpo e ho deciso – d'istinto, senza star lì a pensarci – che nel groviglio di urgenze che mi assillano quella più urgente di tutte fosse il pizzino di Lello. Ecco perché si è posto il problema di attraversare l'Aurelia: perché è da questa parte della strada che si trova la borgata vera e propria, detta il Tredicesimo, dove c'è l'Internet point al quale sono diretto. Del quale Internet point, a proposito di incastri, ho sempre beatamente ignorato l'esistenza fino a due notti fa, quando l'ho notato mentre ero in compagnia di Patrick, l'ex marito di D., dopo avere respinto un suo ennesimo assalto a quella che nella sua percezione è ancora casa sua - malgrado appartenga interamente a D. e loro due siano separati da più di cinque anni –, e avere trascorso varie ore ad ammansirlo, calmarlo, rassicurarlo, poiché pare che nel mondo io solo sia in grado di farlo. È assurdo ma è così: ho preso il suo posto nella sua famiglia, a occuparmi dei suoi bambini e soprattutto al fianco della donna della quale si dichiara ancora ferocemente innamorato – e con tutto ciò, che dovrebbe fare di me il bersaglio ideale per scatenare tutta la sua rabbia, questo coatto instabile, pregiudicato, tossico, fallito e senza futuro, pende letteralmente dalle mie labbra. Non si capisce il perché, ma sono l'unico che riesce a calmarlo. Così, due notti fa, come molte altre volte, D. mi ha chiamato verso mezzanotte dicendomi che era di nuovo entrato in giardino, completamente fatto, che aveva rotto un vetro a sassate e che urlava di voler dare la buonanotte ai suoi figli, e allora io mi sono alzato dal mio letto, sono uscito dalla mia casa lasciando Claudia da sola e sono corso fin là, e l'ho placato, e l'ho trascinato via dalle sceneggiate e dai reati che intendeva continuare a compiere sotto gli occhi assonnati dei suoi figli. Sono rimasto tre ore a parlare con lui nella sua Golf puzzolente finché, quando è finito l'effetto della cocaina, cioè verso le quattro, mi ha portato a mangiare i cornetti caldi in un laboratorio che c'è in fondo alla strada che sto imboccando adesso – via Giuseppe Vanni –, chiamato Il Cornetto della Notte. È di queste parti, Patrick, non proprio del Tredicesimo ma della borgata vicina, un chilometro più in là, all'altezza del cavalcavia, detta borgata Ildebrando in onore della via Ildebrando della Giovanna che ne costituisce la spina dorsale; e così, dopo avere dato in escandescenze, minacciato D., traumatizzato per l'ennesima volta i suoi figli e poi essersi pentito e avere chiesto scusa, dopo avere girato a vuoto per la campagna di Castel di Guido e avermi confessato di avere ricominciato a spacciare e dopo essersi fermato due volte sul ciglio della strada, una per piangere calde lacrime d'impotenza sulla mia spalla e un'altra per scendere a fare "du' gocce", come dice lui – gli è venuta fame. Si è ricordato del cornettificio dove andava da adolescente dopo essersi fatto le canne e mi ci ha portato – così, come se niente fosse. Ed è stato proprio uscendo dal Cornetto della Notte che ho notato l'Internet point, due porte più in là. L'ho notato non perché pensassi mai di dovermene servire: ero un altro uomo, due giorni fa, avevo tutte le connessioni che desideravo, a casa, in ufficio, sullo smartphone – avevo un ufficio, avevo uno smartphone –, ma perché era aperto, alle quattro e mezza del mattino, cosa che mi ha fatto tornare in mente i tempi in cui io e D. ci eravamo appena messi insieme, quando fra l'altro Patrick era in galera, e ci frequentavamo più o meno di nascosto, e una volta al mese lei lasciava i bambini da sua madre mentre io lasciavo Claudia da una sua amica, e riuscivamo a passare insieme l'intero weekend, praticamente scopando tutto il tempo, entrambi per rimetterci in pari dopo una lunga astinenza, io sopraffatto dalla sua bellezza così pura e coatta, lei dal fatto che per la prima volta nella sua vita aveva a che fare con un uomo gentile, pacifico e addirittura laureato – le faceva molto effetto, la mia laurea –, e non un drogato ignorante che la maltrattava e si addormentava mentre lei gli faceva un pompino. L'unico argomento di cui parlavamo in quelle giornate, che sembrava interessarci più di ogni altra cosa al mondo, era cosa ci facciano tutte quelle bancarelle di pakistani che vendono fiori, aperte tutta la notte, in tutti i quartieri di Roma. Perché è così: in ogni quartiere, anche il più periferico, nella desolazione della notte più profonda, qualunque giorno dell'anno e con qualsiasi clima, prima o poi ci s'imbatte in una di quelle bancarelle tutte uguali, verdi, lucide e illuminate a festa, con uno o due pakistani pronti a servirci. È evidente che si tratta di una copertura, poiché di gente che abbia bisogno di un mazzo di fiori alle quattro del mattino a Boccea o alla Garbatella dev'essercene davvero poca; ma che cosa coprissero, che cosa coprano, è un mistero, e questo mistero era praticamente l'unico dato di realtà sul quale io e D. ci soffermassimo in quei giorni nei pochi momenti in cui non facevamo sesso. Eravamo entrambi malconci. Come due deficienti, in quelle rare occasioni di dialogo non tenevamo in considerazione il miliardo di problemi che avevamo dovuto affrontare solo per riuscire a passare una notte insieme, e costruivamo la nostra stramba intimità parlando del mistero dei fiorai pakistani come se fosse un sutra, il surrogato di tutte le speranze per il futuro che in quel momento non avevamo nemmeno il coraggio di formulare. Almeno per me era così. Ecco perché non ricordo i numeri di telefono delle persone più care ma se mi fate vedere un locale che sia aperto in ore nelle quali dovrebbe essere chiuso io non lo dimenticherò mai. Ecco perché ho notato quell'Internet point che adesso, combinazione, mi serve come il pane. [...] Ed eccomi pronto. Il display è già sulla schermata iniziale di Google. Clicco su Gmail e compare la pagina d'ingresso: a sorpresa, i campi per lo username e la password sono già pieni: nadiastefanescu909 è il nome, più la sfilza di pallini neri per la parola chiave. Questo perché, mi accorgo, la voce "resta collegato" è spuntata. Ciò significa che se io cliccassi su "accedi" potrei entrare nella posta di questa donna o ragazza rumena che evidentemente mi ha preceduto nella postazione – e la cosa assurda è che provo la violenta tentazione di farlo: sul serio, devo sforzarmi, sì, per rinunciare a intrufolarmi nella sua intimità, e data la mia attuale situazione di difficoltà e afflizione e concomitanza di, come si suol dire, cazzi per il culo, si tratta di una tentazione talmente assurda da contenere addirittura qualcosa di vitale. Comunque cancello tutto, e già che ci sono cancello anche la spuntatura a "rimani collegato", per evitare che il prossimo cliente sí trovi alle prese con la stessa tentazione nei miei confronti. Tiro fuori il bigliettino di Lello e copio con cura la parola che va scritta nel campo dello username: scansamose. Poi faccio lo stesso con la password: lomamelda. Entro. L'account carica la posta per un paio di secondi, dopodiché compare il messaggio "Benvenuto Olindo Stupazzoni", e mi trovo dentro. Olindo Stupazzoni. È il nome che Lello usa sempre per indicare l'uomo qualunque: se gli altri dicono Tizio, Caio, Sempronio, Pinco Pallino o il signor Rossi, lui dice Olindo Stupazzoni – e malgrado la stranezza di questa sua abitudine, e la curiosità che essa suscita di conoscerne la provenienza, non gli ho mai chiesto spiegazioni: essendo chiaro che il senso è quello, mi è sempre bastato capirlo. È così, del resto, che va con lui: convinto come sono – com'ero – di conoscerlo bene per essere stato suo amico da ragazzo, non ho mai preteso di sapere di lui nulla di più di quello che sapevo trent'anni fa. E ora, data la situazione, potrebbe essere giunto il momento di pentirsene... Nella casella di posta ci sono quattro messaggi letti e uno non letto. Due inviati da "Il team di Google+" e tre da "Il team di Google". I quattro messaggi letti sono tutti datati 31 maggio, mentre quello non letto è di oggi. L'anteprima di quest'ultimo dice: "Ciao Olindo! Ecco i 3 post da non perdere questa settimana su Go..." Devo andare nelle bozze, lo so, ma stavolta non riesco nemmeno ad accennare una resistenza e apro il messaggio. "Ciao, Olindo! Ecco i 3 post da non perdere questa settimana su Google+." Più sotto, in rosso: "I contenuti più caldi di Google+", e un campo pure rosso con la scritta "Visualizza i temi caldi". Di nuovo, anziché cliccare a sinistra sulla scritta "Bozze (1)", entro nei temi caldi. Il computer carica una pagina dal titolo "Esplora i temi caldi consigliati", e mi trovo davanti la foto del muso di un gattino con un occhio giallo e un occhio azzurro. Scorro verso il basso e trovo la foto di un orso che abbraccia una donna anziana, quella del retro della cattedrale di Notre-Dame al crepuscolo, di un'eclissi di luna su un paesaggio lagunare... Comincio a sentirmi male, come mi succede sempre quando navigo su Internet: l'idea della dispersione immane (del mio tempo, della mia attenzione, della mia stessa capacità di controllare i miei gesti) che un minuto fa mi ha spinto a entrare in questo ginepraio, ora mi toglie il respiro. Torno indietro. "Ciao, Olindo! Ecco i 3 post da non perdere questa settimana su Google+." Le bozze sono ancora lì, a sinistra, con quel numero 1 tra parentesi che è l'unica ragione per cui io mi trovi su questo account, in questo Internet point in questo momento di questa disastrosa giornata sfuggita a ogni profezia – ma di nuovo ho già cliccato sul primo di questi tre post da non perdere, incuriosito dal titolo "È meglio correre o camminare sotto la pioggia?", e sto guardando un rudimentale cartone animato nel quale una mano stilizza a pennarello due figurette alle prese con una fitta pioggia azzurra – una delle quali sta ferma mentre l'altra corre. Una precipitosa voce americana spiega i vari passaggi della dimostrazione, che io seguo con attenzione fino in fondo, anche se alla fine non mi pare di avere ben capito le conclusioni: cioè, se si sta fermi si prende meno acqua che se ci si muove, ma se si deve andare da A a B, allora se ne prende meno correndo più veloce possibile? Possibile? Un ricordo emerge di colpo, con violenza: una commedia di Gilberto Govi, vista alla televisione della cucina, quando ero bambino e abitavamo in viale Bruno Buozzi. La mamma era di Genova e amava le commedie di Gilberto Govi. Io non ci capivo granché, ma mi piaceva vedere lei che rideva. Non credevo di avere trattenuto nulla di quelle commedie, ma ora mi accorgo che qualcosa dev'essersi depositato perché questa cosa del correre sotto la pioggia ha estratto dalla mia memoria il faccione di Gilberto Govi – non credevo di ricordare nemmeno quello –, in bianco e nero, che parla con la sua cantilena genovese, e soprattutto il viso invece minuto e dolcissimo di mia madre che scoppia in una risata ricca di nettare. È un ricordo invernale. Siamo vicini a Natale. I vetri delle finestre sono appannati. Forse ci ho scritto sopra qualcosa col dito. Forse è pomeriggio tardi. Forse sto facendo i compiti. Forse, mentre guarda la commedia, la mamma sta tirando la sfoglia, perché sul suo volto c'è della farina. Mi viene un groppo alla gola pensando a mia madre. È morta da – era il '99: quanti anni sono? Quattordici anni, ormai, e mi manca, mi manca da morire – ora, qui. Mi viene in mente il video di Nothing Compares to You di Sinéad O'Connor, dove lei piange la morte di sua madre – e siccome sono qui che navigo in rete apro un'altra pagina di Google e vado dritto su YouTube. Digito il titolo della canzone ed eccola qui. Si fa più presto a farlo che a dirlo. Parte una pubblicità. Assicurazioni. Ma è possibile bloccarla, così. Ed ecco che parte la canzone. Ecco il parco di Saint-Cloud con le statue. Ecco Sinéad O'Connor che cammina col pastrano nero. Ed ecco il primo piano mentre comincia a cantare. È ancora giovane, bellissima. Abbasso il volume per non disturbare la ragazza nera, anche se ha la cuffia. La canzone l'aveva scritta Prince per la morte di suo padre, ma lei l'ha rifatta quando è morta sua madre e la canta incazzata, piena di rabbia, e a un certo punto piange. Non ora, più avanti. Prima ci sono queste due strofe in cui è incazzata nera, per l'appunto, quando le dicono che deve distrarsi, uscire, e questa cosa lei non la regge. Poi c'è tutto il passaggio strumentale, eccolo, con lei di nuovo nel parco di Saint-Cloud, tra le statue, le gradinate, le cascate e gli alberi spogli. E poi, ecco, quando torna in primo piano non è più incazzata, è triste. Eccola. È tristissima. E fra un po' piange. Sembra che si trattenga, mi ricordo, solo che a un certo punto gli occhi le si riempiono di lacrime e subito dopo le lacrime le scendono giù sulle guance. In quel punto – ci siamo quasi – di solito piango io. Ecco, quando dice che vorrebbe un'altra possibilità. Ora. Ecco che piange, ecco le lacrime che cominciano a scendere – ed ecco che viene da piangere anche a me, è inesorabile, come sempre, ecco che piango anch'io. Piango. Cerco di trattenermi ma non c'è niente da fare, non resisto proprio. La ragazza nera qui vicino non se ne accorge, Sinéad O'Connor ha già smesso, ma io continuo a piangere fino alla fine della canzone. E anche dopo. Oddio, non smetto più, è bellissimo. Piango come piangevo da bambino – a dirotto, si dice – e ora la ragazza nera se n'è accorta, si è girata e mi ha visto, ha visto che piango e s'è subito girata di nuovo, per non incrociare il mio sguardo, cioè si vergogna, lei, di avere visto piangere me, e questa umiliazione mi dà un appiglio per smettere, per concepire di smettere. Respiro. Dentro, fuori. Dentro, fuori. Mi asciugo gli occhi. Tiro su col naso. Ancora qualche singhiozzo. Respiro di nuovo. Ecco, ho smesso. E questo è Internet, per me, questa è la rete. Parto per fare una cosa e arrivo a farne molte altre che non c'entrano niente — asininamente, compulsivamente. Mettendo tutto sullo stesso piano e alla stessa distanza, è come se rappresentasse un'occasione di cambiare la propria vita, alla faccia di quello che si deve fare. Voglio vedere Fred Astaire, vedo Fred Astaire. Voglio leggere l'articolo 33 della Costituzione, leggo l'articolo 33 della Costituzione. Voglio vedere una donna che si fa scopare da un cane, vedo una donna che si fa scopare da un cane. È l'occasione che genera il desiderio, la fine del pensiero selettivo, l'entropia. È quello che i miei amici francesi, quando lavoravo in televisione, chiamavano il n'importequoisme — e lo combattevano, perché lo consideravano osceno. Ed è osceno, come no — ma c'è un ma: questa equivalenza tra ciò che si deve fare e qualunque altra cosa è oscena, così com'è oscena l'indecisione tra la cosa importante e quelle irrilevanti; ma non lo è affatto — anzi, a volte diventa una protezione, diventa intelligenza — la scelta dell'irrilevanza al posto dell'importanza. Mettiamola così: se fossi un uomo saggio a questo punto me ne andrei — e c'è stato un tempo, neanche tanto remoto, in cui ero saggio, e me ne sarei andato. Ma non sono saggio. Non lo sono più. Bozze (1). Vai... | << | < | > | >> |Pagina 237Mamma... Quando hai conosciuto papà eri una bella ragazza dai capelli rossi appena laureata in lingua e letteratura inglese e insegnavi in un liceo di Genova, la tua città, con l'intenzione di dedicarti agli studi e alla carriera universitaria. Poi però ti sei sposata, ti sei trasferita a Roma e le tue priorità sono cambiate. Saltando direttamente alla fine della storia, sei stata sposata con papà per trentanove anni, lo hai amato, aiutato, capito, sostenuto, e da quando è nato il primo figlio, cioè io, hai smesso di lavorare e come tante donne della tua generazione ti sei completamente dedicata alla famiglia, vivendo all'ombra del tuo uomo senza mai dare l'impressione che si trattasse di un sacrificio. È anche vero che papà ti ha ricambiata: ti ha amata teneramente, ti è stato fedele, ti ha divertita, ascoltata, lusingata, e anche se lui era quello che portava i soldi a casa non ti ha mai lasciata indietro, calandosi per intero nel ruolo di marito e di padre previsto dal modello delle famiglie del boom economico italiano, il che significa che alla fine è stato addirittura lui, secondo la versione ufficiale che tu stessa hai sempre avvalorato, a sacrificare per noi una parte della sua carriera – ma poiché stiamo parlando degli anni sessanta, settanta, ottanta e novanta, significa anche che ha comunque guadagnato molti più soldi di qualsiasi avvocato che oggi sgobbi per sedici ore al giorno sacrificando tutto il resto. In ogni caso, come si vede anche adesso che sto parlando di te, sei stata una di quelle donne la cui vita non può essere raccontata senza dover necessariamente raccontare anche quella di suo marito. Questa tua scelta ha però prodotto i risultati che desideravi, e quando sei morta, prematuramente, nel 1999, a sessantasette anni, la nostra famiglia era come l'avevi voluta tu. Se anziché una famiglia fossimo stati un titolo in borsa si potrebbe dire che nel 1999 avevamo raggiunto il massimo storico della quotazione, ed è per questo che il tuo destino è stato davvero strano: te ne sei andata nel momento migliore, rimpiangendo insieme a tutti noi le soddisfazioni future che la morte ti negava, e invece ti sei solo risparmiata la rovina che senza di te si è immediatamente abbattuta su di noi. Della quale rovina ormai è simbolo questa tua tomba, davanti alla quale sono inginocchiato, concepita in origine come un simbolo del contrario – della riuscita, dell'unione, della felicità. Assai prima che ti ammalassi, infatti, tu e papà avevate deciso di farvi seppellire uno accanto all'altro in questo piccolo cimitero di paese, in Maremma, a pochi chilometri dalla casa al mare che avevate comprato alla fine degli anni sessanta. Ricordo perfettamente quando a noi due figli fu comunicata questa vostra decisione. Tu e papà avevate più o meno l'età che ho io adesso, e io quella che adesso ha Claudia. Estate dopo estate, la casa di Roccamare era diventata il simbolo del successo della vostra unione, e per questo avevate deciso di stabilire qui il vostro ultimo domicilio di sposi felici, nel piccolo cimitero di Castiglione della Pescaia. Un punto del mondo del tutto nuovo, estraneo alla tradizione di entrambi i rami della famiglia, e tra l'altro – ma era un caso – vagamente equidistante dai due cimiteri nei quali essa si era fin lì concentrata, cioè Staglieno a Genova e il Verano a Roma. Quel giorno – era l'estate dell'83 – ci portaste qui, dove non avevamo mai messo piede, ci comunicaste la decisione di esser sepolti insieme in questo cimitero e ci mostraste il pezzo di terra che avevate scelto nella parte alta e panoramica, un punto dal quale si vede il Tirreno con tutte le isole dell'arcipelago toscano poggiate sull'orizzonte – le sto guardando in questo momento: l'Elba, Montecristo, il Giglio, il promontorio dell'Argentario che sembra un'isola anch'esso per via dell'istmo invisibile che lo collega alla terraferma, e a volte, ma non oggi, anche la Corsica, là dietro, con le vette bluastre delle sue montagne selvagge. Dall'altra parte, egualmente bella, si vede la campagna bonificata del Padule piena di stagni e di frutteti, e campi di girasole e vigne e allevamenti di cavalli. Un posticino incantevole, come lo definisti tu. Avevate già pagato la concessione trentennale, e poiché godevate entrambi di ottima salute e vi auguravate di morire vecchissimi, eravate sicuri che sarebbe scaduta prima della vostra morte: ma vi raccomandaste che non tradissimo questa vostra volontà, e che rinnovassimo noi la concessione, nel caso voi non poteste farlo per una qualsiasi ragione. Ottenuta la nostra promessa, e fantasticato foscolianamente sul piacere che figli e nipoti avrebbero provato nel venire a visitare la vostra tomba in un posto così bello, tornaste a casa e smetteste per sempre di parlarne – con una sola eccezione, circa due anni dopo, quando Italo Calvino fu colto da ictus nella sua casa a duecento metri dalla nostra, morì all'ospedale di Siena e venne seppellito qui accanto, in questa tomba semplice con la lapide di marmo bianco immersa in un'aiuola di rosmarino profumato. Allora fu inevitabile tornarci sopra, ma da quel momento in poi l'ombra della morte venne di nuovo allontanata dalle nostre vite, e quel punto del mondo – questo punto del mondo – fu lasciato dov'era e mai più frequentato, come un gruzzolo messo da parte per i tempi grami che, malgrado il passare degli anni, continuavano a rimanere lontani. Sei morta nel 1999, come ho detto, molti anni prima che scadesse la concessione. Eri già malata da un bel po', solo che i medici non erano riusciti a capire che avevi un tumore. Una serie di ipotesi strampalate si erano susseguite per spiegare la tua febbriciattola, i tuoi dolori addominali e il tuo costante dimagrimento, fino a quella che venne concordemente ritenuta la diagnosi corretta: diverticolite. Ti fu curata per molti mesi questa malattia (antibiotici, dieta a base di fibre insolubili), ma le tue condizioni continuarono a peggiorare finché i due medici che ti avevano in cura, la dottoressa di base e l'internista specializzato, si decisero a ricorrere agli accertamenti strumentali, cioè TAC e risonanza magnetica. L'esito rivelò che nel fondo del tuo utero, là dove io e Carlo eccetera eccetera, c'era una palla tumida delle dimensioni di un melone e dell'aspetto di un sarcoma. Biopsia. Sarcoma. Solo che così grande com'era non si poteva più asportarlo insieme a tutto l'utero che lo conteneva: era inoperabile, e dunque incurabile. E però, così grande com'era, doveva trovarsi lì da almeno due anni, forse anche tre — e com'è possibile, mi scusi, professore, che nessuno se ne sia accorto, considerando che la mamma ha sempre, ogni anno, disciplinatamente effettuato il pap-test, il cui esito ha sempre escluso qualsiasi problema? Eh, ma il pap-test individua le infezioni al collo dell'utero, e purtroppo sua madre è stata colpita al corpo dell'utero. Le faccio un disegno, così capisce meglio: questo è l'utero; questo è il collo, detto anche cervice; e questo qui è il corpo. Il pap-test copre solo questa zona superiore, non si spinge fino al corpo. Ha capito? Ho capito, ma allora cosa si fa a fare, il pap-test? Che razza di prevenzione è? Vede, il fatto è che la corretta prevenzione dei tumori all'utero prevede di affiancare al pap-test un'indagine ecografica transvaginale, con la quale il sarcoma di sua madre sarebbe stato scoperto molto tempo fa, quando il problema si sarebbe potuto risolvere con l'asportazione dell'utero stesso. Le faccio un disegno, così capisce: si infila una sonda nella vagina e si esegue un'ecografia mediante l'emissione di onde sonore. E si tratta di un esame molto complesso, professore, o doloroso, o costoso? Necessita di apparecchiature molto sofisticate? No, è una banalissima ecografia: ormai la fanno tutte le donne in gravidanza, entro i primi due mesi. E allora perché mia madre non l'ha mai fatta, e non solo, non ha mai nemmeno saputo dell'esistenza di questa ecografia transvaginale? Ah, non ne ho idea, deve chiederlo al suo medico di base. Dottoressa, il pap-test che faceva mia madre non era sufficiente: perché non faceva anche l'ecografia transvaginale? Ah, non lo so, bisogna chiederlo al suo ginecologo. Signor ginecologo, perché non ha mai fatto l'ecografia transvaginale a mia madre, insieme al pap-test? Perché non c'era la prescrizione. Ma non spettava a lei, mi scusi, la prevenzione ginecologica per mia madre? Sì, ma la prescrizione degli esami diagnostici spetta al medico di base: le veniva prescritto il pap-test e io le facevo il pap-test. Se le fosse stata prescritta anche la TVS le avrei fatto anche la TVS... E via. Fatto sta che dalla scoperta del sarcoma alla tua morte sono passati solo quattro mesi — durante i quali abbiamo lottato, come no, ti abbiamo bombardata di chemio e ci siamo sorbiti una gran quantità di disegni, così capivamo: ma in realtà c'era poco da capire, eri spacciata. Tu, per la verità, sei stata docile e stoica, e hai accettato senza opporre resistenza la danza macabra che io e Carlo ti abbiamo inflitto, a Roma, poi a Milano, poi di nuovo a Roma, così come hai accettato senza chiedere spiegazioni anche il brusco cambiamento quando ci siamo rassegnati e siamo passati alle cure palliative. Il problema in quei mesi fu papà, che aveva semplicemente rifiutato tutta la faccenda fin dal principio, si era trasferito in un'altra stanza e si aggirava per la casa come un lupo in gabbia, rabbioso, inconsolabile, pieno di rancore e di frustrazione, ma soprattutto di paura – tanto che Chantal, l'infermiera svizzera ingaggiata per assisterti, passava molto più tempo con lui, a cercare di consolarlo, che con te, che a causa del trattamento antalgico dormivi quasi tutto il tempo. Fu allora, negli ultimi momenti di lucidità che ti rimanevano, quando il dolore ti dava tregua e il protocollo a base di morfina solfato poteva essere alleggerito, che si ricominciò a parlare di questa tomba. Tranquillizzata dal fatto che il posticino incantevole fosse lassù ad aspettarti, ti esercitavi su un vecchio quaderno alla ricerca delle parole da far scrivere sulla lapide, finché, aggiustando un po' un passo di Sotto il vulcano, uno dei tuoi libri preferiti (e confessandolo – per dire quanto eri leale –, anche se nessuno di noi sarebbe mai stato in grado di accorgersene), decidesti per la frase che ora ho davanti agli occhi: "Torna da me come quel giorno di aprile." Volesti discuterne con me e con Carlo, volesti essere rassicurata che papà non l'avrebbe presa come una frase di malaugurio, rimanendo fino all'ultimo incrollabilmente fiduciosa che le cose sarebbero andate come era stato stabilito — mentre io e mio fratello avevamo già cominciato a percepire che qualcosa non quadrava. Quando ti seppellimmo, la lapide non era ancora pronta, e papà non la vide — e dunque non l'ha mai vista, poiché lui qui non è più venuto. Per uno di quei prodigi di cattivo gusto di cui è capace la psiche umana sotto pressione, si mise insieme a Chantal: nel giro di due mesi chiuse lo studio legale, vendette la casa di Roma e si trasferì a Lucerna insieme a lei. Mio fratello ruppe definitivamente i rapporti con lui, mentre io continuavo a vagare per ospedali e centri diagnostici perché nel frattempo si erano ammalati anche i genitori di Lara e io ero stato risucchiato di nuovo nella rumba di esami, trattamenti e disegnini che avrebbe condotto anche loro a morire di cancro, a venti giorni di distanza l'uno dall'altro, nel giro dei sei mesi successivi. Così, quando tutto fu finito, e finiva anche quell'anno maledetto, e insieme finivano anche il secolo e il millennio, la famiglia Paladini non esisteva più. Mio fratello indignato a far miliardi in giro per il mondo, io a Milano con Lara, scioccati dal triplo lutto, papà in Svizzera affidato alle cure di Chantal mentre una compassionevole forma di Alzheimer cominciava lentamente a incasinargli il cervello, e tu qui, nel tuo posticino incantevole, sotto questo patetico richiamo d'amore scolpito nella pietra. Per anni abbiamo continuato a fare le vacanze nella casa di Roccamare, io con la mia famiglia e Carlo con le sue fidanzate sempre diverse, ma quassù a trovarti ci venivamo di nascosto, da soli, senza nemmeno dircelo, tanta era la pena che ci faceva il tuo richiamo inascoltato. Per paura di litigarci sopra non abbiamo mai affrontato la situazione, non abbiamo discusso nemmeno una volta se fosse o no il caso di far rimuovere la scritta, per esempio, o magari spostare le tue spoglie a Genova, o fare qualsiasi altra cosa che somigliasse anche solo vagamente a una soluzione del problema: questo punto del mondo era diventato una vergogna e noi ce lo siamo tenuti così com'era. Ne abbiamo parlato solo l'ultima volta che ci siamo visti, proprio qui, tre anni e mezzo fa, il giorno prima che Carlo lasciasse l'Italia, quando era già tecnicamente scappato ma non ancora ricercato, e ci demmo appuntamento in questo cimitero, a due ore e mezzo da Roma, perché avremmo potuto parlare con meno rischi di essere visti o sentiti. La casa di Roccamare era già stata venduta da un pezzo e noi avevamo continuato a venire a visitare questa tomba separatamente, senza dircelo, come sempre, da Roma, senza mai fare nemmeno una volta il viaggio insieme, riscontrando ognuno il passaggio dell'altro dal cambio dei fiori nel vaso di plastica: io trovavo le sue tuberose bianche, ormai secche, e le sostituivo con un mazzo di fiori di campo, e quando ritornavo, non importa se un anno o un mese dopo, ci ritrovavo di nuovo le tuberose bianche, e di nuovo le sostituivo coi fiori di campo. Così, senza mai dirci niente.
Quel giorno invece ne parlammo — e fu la prima e unica volta,
dopo l'interramento, in cui ci ritrovammo insieme in questo
posto. Dopo che Carlo mi ebbe detto le poche cose che poteva
dirmi riguardo alla sua fuga dell'indomani (non aveva ancora un
piano definitivo, e comunque era meglio che io ne sapessi il
meno possibile), parlammo finalmente di questa tomba, affrontammo il problema, e
a renderlo inevitabile fu proprio la differenza tra i fiori che ci avevamo
portato in tutti quegli anni.
Naturalmente sapevamo benissimo cosa significava quella differenza, ma col fatto
che non ci saremmo visti per chissà quanto
tempo, quel giorno ne parlammo, ci dicemmo le cose – e le cose
stavano così: io portavo i fiori di campo perché il giorno di aprile di cui
parla la scritta è quello del primo appuntamento tra te
e papà, a Genova, nel 1959, al quale lui si era presentato per
l'appunto con un mazzo di fiori di campo. I dettagli non ce li
avete mai raccontati, né noi ve li abbiamo mai chiesti (perché
papà era a Genova, quanto tempo prima vi eravate conosciuti,
tramite chi eccetera), ma sta di fatto che ogni anno il 28 di aprile papà ti
portava un mazzo di fiori di campo e che quello, e non
la data del matrimonio, che infatti nemmeno ricordo, era il
vostro vero anniversario. Il senso dei miei fiori di campo era
dunque chiaro: tanto con papà ancora vivo, che però stava in
Svizzera con l'infermiera ed era chiaro che qui non sarebbe
venuto mai più, quanto, in seguito, con papà morto e assurdamente sepolto nel
cimitero di Lucerna, io non ti concepivo fuori
dalla storia che ti aveva legata a lui, e il simbolo di questa storia
erano per l'appunto i fiori di campo. Carlo invece portava le
tuberose bianche perché erano il tuo fiore preferito, e anche il
loro senso era chiaro: niente più papà, niente più storia che ti
aveva legata a lui, niente più simboli, per Carlo eri semplicemente una donna da
corteggiare, sedurre, amare e proteggere
meglio di come aveva fatto nostro padre.
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