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| << | < | > | >> |IndicePremessa 7 L'undici settembre e dopo (ott.2001) 9 Il significato di Timothy McVeigh (set.2001) 33 Il massacro dei Dieci Emendamenti (nov.1998) 77 I nuovi teocrati (lug.1997) 107 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Alcuni lettori, considerando l'immagine di copertina - la Libertà imbavagliata - penseranno che, se i miei scritti sono stati così ampiamente pubblicati negli Stati Uniti, sebbene in maniera discontinua, allora non può esserci censura. I miei scritti che vertono su argomenti delicati vengono però pubblicati con riluttanza, e solo perché, in cinquant'anni, mi sono guadagnato una schiera di lettori fedeli. Tuttavia, ora che l'America ci dà dentro più del solito, con la sua guerra perpetua per la pace perpetua, si è impedita la pubblicazione del primo saggio che appare in questo volume.
Dopo gli eventi dello scorso 11 settembre, Arno J.
Mayer, professore emerito di Storia a Princeton, uno
dei nostri più illustri intellettuali, ha scritto
Untimely Reflections
('Riflessioni inattuali'), in cui spiega perché è successo
quel che è successo. Nessuno ha accettato di pubblicarlo,
neanche «The Nation», con cui io stesso collaboro. Alla
fine, è uscito su «Le Monde». Ecco alcuni passaggi che agli
americani - a meno che non conoscano il francese o, adesso,
l'italiano - non è concesso leggere.
In epoca moderna, fino a oggi, gli atti di terrore
individuale sono stati l'arma dei deboli e dei poveri,
mentre gli atti di terrore economico e di Stato sono
stati l'arma dei forti. In entrambe le forme occorre
naturalmente distinguere tra obiettivi e vittime.
Questa distinzione è quanto mai chiara al riguardo
del fatale attacco al World Trade Center: l'obiettivo
è uno dei maggiori simboli e fulcri del potere economico e
finanziario globale; la vittima è la forza-lavoro,
sventurata e (parzialmente) subalterna. La distinzione non
si applica all'attacco al Pentagono, il comando militare
supremo - l'
ultima ratio regum -
della globalizzazione capitalista, anche se ha provocato,
per utilizzare il linguaggio del Pentagono, danni
"collaterali" in termini di vite umane.
A conti fatti, dal 1947 gli Stati Uniti sono stati
l'avanguardia e il principale esecutore del terrore
"preventivo" di Stato, agendo però esclusivamente nel Terzo
Mondo e dunque in maniera notevolmente dissimulata. Oltre
ai consueti colpi di Stato durante la guerra fredda, operati
in competizione con l'Unione Sovietica, Washington ha fatto
ricorso all'assassinio politico, a squadroni della morte e a
riprovevoli paladini della libertà (fra i quali Bin Laden).
Ha orchestrato l'uccisione di Lumumba e di Allende; ha
provato a fare lo stesso con Castro, Gheddafi e Saddam
Hussein; ha posto il proprio veto contro qualunque sforzo di
mettere un freno non solo alle violazioni di accordi
internazionali e risoluzioni ONU da parte di Israele, ma
anche al terrore preventivo che questo Stato ha esercitato.
Come in Europa sappiamo, «Le Monde» è un giornale intellettualmente alto e di tendenza moderata, che da sempre sostiene Israele. E il professar Mayer, da parte sua, la "laurea" se l'è presa nei campi di concentramento. | << | < | > | >> |Pagina 9Secondo il Corano, fu di martedi che Allah creò le tenebre. Lo scorso 11 settembre, quando un gruppo di piloti suicidi ha fatto schiantare tre aerei di linea contro altrettanti edifici americani pieni di gente, non ho avuto bisogno di guardare il calendario per sapere che giorno fosse: il Martedì delle Tenebre stava allungando la sua lunga ombra su Manhattan e sul fiume Potomac. E non mi ha sorpreso nemmeno il fatto che, malgrado i circa settemila miliardi di dollari spesi dal 1950 a oggi per quella che viene eufemisticamente chiamata "difesa", non ci sia stato nessun preallarme da parte dell'FBI o della CIA o della Defense Intelligence Agency. Mentre i bushiti si preparavano entusiasticamente alla terz(ultima) guerra (missili provenienti dalla Corea del Nord, chiaramente identificabili grazie alle apposite bandierine, pioverebbero su Pordand, nell'Oregon, se non fosse per il nostro bel palloncino, lo scudo spaziale), il volpone Osama bin Laden sapeva che per la sua guerra santa contro l'infedele non c'era bisogno che di un manipolo di aviatori pronti a morire insieme a quei passeggeri che casualmente si fossero trovati sugli aerei dirottati. Come molti di quelli che sono nati ricchi, Osama non è uno che butta via i soldi. A quanto pare, i biglietti aerei dei diciannove dirottatori identificati sono stati pagati con carta di credito. Sospetto che la United e l'American Airlines non verranno mai rimborsate dall'American Express, i cui uffici di New York sono stati - inconsapevolmente? - distrutti da Osama. Dall'aereo che si è schiantato in Pennsylvania, un passeggero ha telefonato per dire che lui e più o meno una decina di altri uomini, tra cui diversi atleti, avrebbero attaccato i dirottatori. «Muoviamoci!», ha urlato. Si è sentito il rumore di una colluttazione. Quindi un urlo. Poi silenzio. L'aereo, che presumibilmente mirava alla Casa Bianca, è precipitato in un campo nei pressi di Pittsburgh. Abbiamo sempre avuto dei civili saggi e coraggiosi. Sono i militari e i politici e i media che ci preoccupano. In fondo, non avevamo più a che fare con attentatori suicidi dai tempi dei kamikaze, come li chiamavamo nel Pacifico. E lì che ho pigramente fatto il soldato durante la seconda guerra mondiale. A quei tempi il nemico era il Giappone. Ora, Bin Laden... i musulmani... i pakistani... Uno dopo l'altro. Squilla il telefono. Una voce sconvolta dagli Stati Uniti. «Berry Berenson è morta... Era sull'aereo». Il mondo stava diventando surreale. Arabi. Coltelli di plastica. La bella Berry. Che cosa mai avevano questi singoli elementi in comune gli uni con gli altri se non un appuntamento inaspettato in Samaria con quel viaggiatore instancabile che è la Morte? Il telefono continua a squillare. D'estate vivo in Italia, a sud di Napoli. I giornali italiani, la TV, la radio, vogliono commenti. E anch'io. Recentemente ho scritto di Pearl Harbor. Da allora mi fanno sempre la stessa domanda: «Non è proprio come quella domenica mattina del 7 dicembre 1941?». No, non lo è, dico io. Per quanto ne sappiamo ora, non avevamo ricevuto nessun preavviso dell'attacco di martedì 11. Naturalmente, il nostro governo ha molti, molti segreti di cui i nostri nemici a quanto pare vengono a conoscenza sempre con grande anticipo, mentre il nostro popolo ne viene informato - se mai ne viene informato - solo molti anni dopo. Il presidente Roosevelt provocò i giapponesi perché ci attaccassero a Pearl Harbor. Ho descritto le varie mosse di Roosevelt in un libro, L'età dell'oro. Oggi sappiamo che cosa aveva in mente: venire in aiuto dell'Inghilterra contro l'alleato del Giappone, Hitler. Un piano virtuoso che è finito in un trionfo per la razza umana. Ma che cosa aveva e che cosa ha in mente Bin Laden? Per diversi decenni il mondo islamico è stato inesorabilmente demonizzato dai media americani. Visto che sono un leale cittadino americano, non dovrei dirvi perché è accaduto tutto ciò: del resto non è nostra abitudine indagare sul perché qualcosa - qualsiasi cosa - accada. Preferiamo accusare gli altri di malvagità immotivata. «Noi siamo il bene», ha dichiarato un profondo pensatore alla Tv americana, «loro sono il male»: e il pacchetto è pronto. A metterci, per così dire, il fiocco è stato poi Bush in persona con il suo discorso davanti alle Camere riunite, occasione in cui il presidente ha elargito ai parlamentari - e in qualche modo a tutti noi della cerchia - la sua profonda conoscenza delle astuzie e delle usanze dell'Islam: «Odiano ciò che vedono qui in quest'aula». Un milione di americani hanno annuito davanti al televisore. «I loro leader si sono autonominati. Odiano le nostre libertà, la nostra libertà di culto, la nostra libertà di parola, la nostra libertà di votare e di riunirci in assemblea e di dissentire gli uni dagli altri». In quel momento toccante, c'è stato un cittadino americano che non abbia levato le fauci come un alligatore della Florida alla vista dell'esca? | << | < | > | >> |Pagina 20Il «New York Times» è il principale dispensatore delle opinioni che arrivano dall'America delle corporation. In genere il giornale prende una posizione ferma, o almeno ci prova. Tuttavia, nell'edizione del 13 settembre, gli editoriali del NYT erano tutti un po' dimessi.Sotto il titolo Demands of Leadership ('Esigenze della leadership'), il NYT sembrava quasi contento. Andrà tutto bene se lavori duro e tieni d'occhio la palla, Mr President. A quanto pare Bush «deve affrontare molteplici sfide, ma il suo compito più importante è una semplice questione di leadership». Grazie a Dio. Non solo non serve altro, ma è anche semplice! Per un momento... Poi il NYT ci fa vedere le cose come stanno, invece che come dovrebbero stare. «L'amministrazione ha trascorso gran parte della giornata di ieri cercando di superare l'impressione che Bush abbia dato prova di debolezza, non rientrando a Washington dopo l'attacco dei terroristi». Da quel che ho visto, la cosa non interessava a nessuno, anzi, alcuni di noi si sentivano leggermente più al sicuro, con lo sventatello nazionale intrappolato nel suo bunker in Nebraska. Pazientemente, comunque, il NYT spiega a Bush, e a noi tutti: «Nei prossimi giorni, Bush potrà chiedere alla nazione di sostenere azioni militari che molti cittadini, e in modo particolare coloro che hanno parenti nelle forze armate, troveranno preoccupanti. Deve dimostrare che sa quello che fa». Centro! Se solo FDR avesse ricevuto lettere del genere da Arthur Krock del vecchio NYT! Infine, Anthony Lewis ritiene che sia saggio astenersi dall'unilateralismo bushita a favore della cooperazione con altre nazioni. Per contenere le tenebre del Martedì occorre comprenderne le origini e smettere di provocare le culture che si oppongono a noi e ai nostri progetti. Lewis, cosa strana per un giornalista del «New York Times», oggi è a favore della pace. E io con lui. Ma è anche vero che noi siamo vecchi, siamo stati in guerra e conosciamo il valore delle nostre libertà (oggi in caduta verticale), a differenza dei fanatici nazionalisti che adesso battono sui loro tamtam in Times Square a favore di una guerra incondizionata che saranno altri americani a combattere. Come al solito, il giornalista politico più sensato di tutti è stato William Pfaff dell'«International Herald Tribune» (17 settembre 2001). A differenza dei provinciali adotatori della guerra che scrivono sul «New York Times», Pfaff inorridisce allo spettacolo di un presidente americano che ha evitato di servire il suo paese in Vietnam e che ora invoca la guerra non contro una nazione, e neanche contro una religione, ma contro un solo uomo e i suoi complici, una categoria suscettibile di indefiniti ampliamenti.
Scrive Pfaff:
La replica di una nazione civilizzata, che crede nel bene, in una società umana, e si oppone al male, deve essere strettamente mirata e, soprattutto, intelligente. I missili sono armi ottuse. Questi terroristi sono abbastanza svegli da far sì che siano altri a pagare il prezzo per ciò che loro hanno fatto e poi sfruttarne i risultati. Una reazione impazzita da parte degli Stati Uniti, che faccia altre vittime, è ciò che essi vogliono: getterà benzina sul fuoco dell'odio che già infiamma la loro ipocrita certezza di essere nel giusto riguardo i loro atti criminali contro persone innocenti.
Ciò che serve agli Stati Uniti è una fredda riflessione
su come siamo arrivati a questo punto. E ancora di più è
necessario prevedere i disastri che potrebbero nascere in
futuro.
La guerra è la scelta che non fa vincere nessuno e fa perdere tutti. È giunta l'ora di servirsi del buon Kofi Annan. Per quanto una vendetta totale possa apparire gloriosa agli occhi dei nostri adoratori della guerra, un armistizio tra il Saladino e i crociato-sionisti è nell'interesse dell'intera razza umana. Molto prima che i temibili monoteisti torcessero il collo alla storia, era stato il dio Apollo in persona a insegnarci a gestire le faide. Ce ne dà una testimonianza Eschilo nelle Eumenidi (un cortese termine greco per le Furie che quotidianamente ci intrattengono sulla CNN). Oreste, per il suo peccato di matricidio, non può liberarsi delle Furie che gli danno la caccia ovunque vada. Si appella allora al dio Apollo, che gli dice di recarsi alle Nazioni Unite, alias l'assemblea dei cittadini di Atene. Oreste obbedisce e viene assolto, con la motivazione che è necessario porre fine alle faide di sangue, altrimenti queste coveranno sotto la cenere per sempre, generazione dopo generazione, e alte torri finiranno in fiamme e ci inceneriranno tutti: «La polvere delle nostre strade si abbevererà di nero sangue di cittadini per strappare alle case, in collere vendicatrici di morti, altri morti. E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai nostri mali». Che Annan medi tra l'Oriente e l'Occidente, prima che non rimanga più nulla, per nessuna delle due parti, da portare in salvo. Lo spaventoso danno fisico che Osama e compagnia ci hanno provocato, durante il Martedi delle Tenebre, non è nulla in confronto al doppio colpo da KO inflitto alle nostre libertà in via d'estinzione: l'Anti-Terrorism Act del 1991 e la recente richiesta al Congresso di poteri speciali supplementari. Per esempio, quello di eseguire intercettazioni telefoniche senza mandato giudiziario, oppure quello di deportare residenti legittimi e permanenti, turisti e immigrati privi di permesso di soggiorno senza rispettare le procedure di legge e così via. Persino quel fedele giornaletto cittadino corporativo che è il «Washington Post» si è allarmato: «Il dipartimento della Giustizia sta facendo un uso straordinario dei suoi poteri di arresto e detenzione dei singoli, e, a un ritmo davvero inusuale, sta incarcerando centinaia di persone per reati minori [...]. Sia i giuristi che i cittadini dicono di non ricordare un altro periodo in cui tante persone siano state arrestate e imprigionate senza vincolo d'accusa, particolarmente per reati minori, in assenza di connessioni con il caso di cui ci si sta occupando». E da un ritaglio pre-Osama: «Restrizioni della libertà personale, del diritto della libera espressione delle proprie opinioni, compresa la libertà di stampa, e dei diritti di associazione e di riunirsi in assemblea; violazioni della privacy delle comunicazioni postali, telegrafiche e telefoniche; permessi di perquisizione, ordini di confisca e restrizioni sulla proprietà sono ritenuti leciti al di là dei limiti legali altrimenti prescritti». Il tono è familiare. Viene da un discorso di Hitler del 1933, che invocava una legge-delega per la «protezione del popolo e dello Stato», dopo il catastrofico incendio del Reichstag che i nazisti avevano segretamente appiccato. Un solo membro del Congresso, Barbara Lee della California, ha votato contro la concessione di poteri supplementari al presidente. Nel frattempo, un sondaggio del NYT e della CBS segnala che ormai solo il 6 per cento si oppone a una risposta militare, mentre una maggioranza sostanziale è a favore della guerra, «anche se molte migliaia di civili innocenti dovessero essere uccisi». Chiaramente, questa maggioranza è per lo più troppo giovane per ricordarsi della seconda guerra mondiale, della Corea o anche del Vietnam. Intanto, il tasso di gradimento di Bush è balzato dal 50 al 91 per cento. Tradizionalmente, in tempo di guerra, il presidente diventa un totem come la bandiera. Avendo ottenuto il suo più alto tasso di gradimento proprio dopo la débacle della Baia dei Porci, Kennedy fece un'osservazione tipica del suo stile: «In questo lavoro, a quanto pare, più fai cazzate più diventi popolare». I Bush, padre e figlio, forse ce la possono ancora fare a salire sul monte Rushmore, anche se forse sarebbe più economico dare una ritoccatina a quello splendido sosia di Barbara Bush che è George Washington, aggiungendo intorno al suo collo di calcare due fili di perle finte, in memoriam, per così dire. In conclusione, il danno fisico che Osama e i suoi amici possono infliggerci - per terribile che sia stato fino a oggi - è niente in confronto a ciò che stanno facendo alle nostre libertà. Una volta alienato, un "diritto inalienabile" può essere perso per sempre, nel qual caso non saremmo più, nemmeno lontanamente, l'ultima e migliore speranza della terra ma solo uno squallido stato imperiale i cui cittadini vengono tenuti a bada dalle squadre SWAT e il cui stile di morte, e non di vita, viene imitato da tutti. | << | < | > | >> |Pagina 33Intorno alla fine del penultimo secolo, Richard Wagner visitò la cittadina di Ravello, nel sud d'Italia, e fu portato a visitare i giardini della millenaria Villa Rufolo. «Maestro», gli domandò il capo giardiniere, «questi meravigliosi giardini, sotto il cielo azzurro che laggiù, in modo così armonioso, così perfetto, si fonde al lontano azzurro del mare, non vi ricordano quei favolosi giardini di Klingsor in cui avete ambientato tanta parte della vostra ultima interminabile opera, il Parsifal? Non è questa visione di bellezza la vostra ispirazione per Klingsor?». Wagner biascicò qualcosa in tedesco. «Ha detto», spiegò un traduttore lì vicino: «Che ve ne pare?». Già, che ve ne pare?, ho pensato, mentre mi facevo strada fino al punto in cui, proprio in quei favolosi giardini, Good Morning America della ABC e l' Early Show della CBS avevano piazzato le telecamere per farmi apparire in diretta davanti ai telespettatori del mio paese, il paese di Dio. Questo succedeva il maggio scorso. Una settimana più tardi, l'"Oklahoma City Bomber", eroe con tanto di medaglie della guerra del Golfo, ex membro dei Nature's Eagle Scouts, al secolo Timothy McVeigh, sarebbe stato giustiziato con un'iniezione letale a Terre Haute nell'Indiana per essere stato, come egli stesso sottolineava, il solo artificiere e detonatore della bomba che aveva fatto saltare in aria un edificio federale in cui avevano trovato la morte centosessantotto fra uomini, donne e bambini. Era stato il più grande massacro di americani per mano di americani degli ultimi due anni, da quando cioè il governo federale aveva deciso di prendere d'assalto la sede di una setta di avventisti del settimo giorno nei pressi di Waco, in Texas. I Branch Davidians, così si chiamavano i membri della setta, erano un pacifico gruppo di uomini, donne e bambini che vivevano e pregavano insieme in attesa della fine del mondo, che per loro arrivò il 28 febbraio del 1993. Il Federal Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms (ATF), esercitando il suo mandato che impone la "regolamentazione" delle armi da fuoco, rifiutò ogni invito da parte del leader della setta, David Koresh, a esaminare le sue armi registrate. L'ATF preferì spassarsela un poco. Più di cento agenti dell'ATF, senza regolare mandato, attaccarono il complesso della chiesa, mentre dall'alto almeno un elicottero dell'ATF apriva il fuoco sul tetto dell'edificio principale. Quel giorno sei davidiani morirono. Quattro agenti dell'ATF furono colpiti a morte, presumibilmente da fuoco amico. Ci fu una tregua, seguita da cinquantuno giornate d'assedio durante le quali al di fuori della chiesa fu trasmessa ininterrottamente musica ad alto volume. Quindi il governo staccò l'elettricità e si rifiutò di far passare il cibo per sfamare i bambini. Nel frattempo, i media venivano regolarmente informati sulle malefatte di David Koresh. Si diceva che Koresh producesse e spacciasse metanfetamina. E poi - che altro attendersi in questi tempi di perversione? - non era un uomo di Dio ma un pedofilo. Alla fine, il nuovo procuratore generale Janet Reno decise di giocare duro. Il 19 aprile diede l'ordine all'FBI di finire ciò che l'ATF aveva cominciato. Violando il Posse Comitatus Act (un baluardo essenziale delle nostre fragili libertà democratiche, che vieta l'uso dell'esercito contro i civili), i carri armati della Texas National Guard e la Joint Task Force Six dell'esercito attaccarono il complesso con un gas, mortale per i bambini e non troppo salutare neanche per gli adulti, e sfondarono le pareti dell'edificio. Alcuni davidiani riuscirono a scappare. Altri vennero fatti fuori dai cecchini dell'FBI. In un'indagine di sei anni dopo, l'FBI negò tutto tranne di aver sparato qualche lacrimogeno pirotecnico. Alla fine di un assalto durato sei ore, l'edificio venne messo a fuoco e poi raso al suolo da mezzi corazzati Bradley. Per il volere di Dio nessun agente dell'FBI rimase ferito, mentre ottanta membri della setta furono uccisi, e tra questi ventisette bambini. Fu una grande vittoria per lo zio Sam, così come lo concepisce l'FBI, che aveva dato all'operazione il nome in codice di "Show Time". Soltanto il 14 maggio del 1995 Janet Reno, a 60 Minutes, confessò qualche ripensamento. «Ho visto quello che è successo, e sapendo quello che è successo non lo rifarei». Niente più che un'esperienza educativa per la figlia di una campionessa di lotta agli alligatori della Florida. Lo show del 19 aprile 1993 a Waco fu il più grande massacro di cittadini americani da parte del governo dopo il 1890, quando un buon numero di nativi americani fu trucidato a Wounded Knee, nel South Dakota. Così la posta continua ad aumentare.
Anche se McVeigh spiegò subito di avere agito in
segno di rappresaglia per quanto era successo a Waco
(aveva anche scelto il secondo anniversario della strage, il
19 aprile, per il suo castigo), la polizia segreta del
nostro governo, con la complicità dei media, mise la
sua mano pesante sul piatto della bilancia. Bisognava
raccontare una sola versione della storia: un uomo
di incredibile e innata malvagità volle distruggere delle
vite innocenti per il puro, immotivato piacere di fare
del male. Sin dall'inizio, era stato deciso che McVeigh
non avesse nessuna motivazione coerente per quello
che aveva fatto tranne una shakespeariana, intrinseca
malvagità. Iago è tornato e ha con sé una bomba, non
un fazzoletto. Tanto più che sia McVeigh sia l'accusa
concordavano sul fatto che l'imputato non aveva avuto nessun
vero complice.
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