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| << | < | > | >> |IndiceAl lettore 9 Parte prima: Un decennio di affari di guerra 15 1. Il giro del mondo in 80 guerre 17 2. Il pantano iracheno 51 3. Di ogni erba un fascio? 71 Parte seconda: Il mercato della guerra 97 1. La «new economy» militare 99 2. I padroni della nuova sicurezza 135 3. La rete: biglietto da visita delle compagnie militari private 147 4. «Azienda sicurezza Italia», breve analisi del comparto di casa nostra 159 Parte terza: La privatizzazione della guerra 169 1. L'equilibrio precario fra pubblico e privato 171 2. Il grande orizzonte delle nuove forme di guerra 199 3. All'origine del fenomeno delle compagnie militari private 217 Il tempo di aprire gli occhi 243 Bibliografia 247 Indice dei nomi 259 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Dal kebab ai servizi militari Diretta in Iraq per cercare una soluzione positiva alla vicenda dei quattro ostaggi italiani, nell'aprile 2004, la delegazione di Emergency ha fatto tappa ad Amman. Ultimo luogo di contatti e di preparazione prima del trasferimento nell'infuocato Iraq era l'Hotel Sheraton, già utilizzato come tappa in precedenti spedizioni umanitarie mediorientali. Forse per il desiderio di ritrovare un momento di calma alla vigilia di un'avventura difficile, il gruppo decide di cenare in un buon ristorante arabo con kebab, all'interno della stessa struttura alberghiera. La sorpresa è stata spiazzante, e non solo per il palato: il ristorante era stato smantellato per fare spazio a una nuova e fiammante sede di DynCorp, uno dei colossi mondiali della fornitura di servizi militari privati. Un'azienda pesantemente coinvolta nello scenario mediorientale, in particolare in quello iracheno dove, come vedremo, è responsabile dell'organizzazione e dell'addestramento del nuovo corpo di Polizia. L'aneddoto mi è stato raccontato da Gino Strada e Maso Notarianni, anime della spedizione di Emergency rimasta per alcuni giorni in una Baghdad e in una Falluja alle prese con uno stato di guerra vero e proprio, anche se non dichiarato. E mi è parso l'introduzione più immediata al tema di questo libro.
Al caratteristico e gustoso modo di mangiare locale
si era sostituita una presenza di importazione, appartenente a tutt'altro campo:
una modalità privata di gestione e circolazione dei servizi di natura bellica.
Un cambio repentino e inaspettato, non solo negli spazi commerciali dell'hotel
giordano, ma anche in molti delicati snodi della vita politica e sociale del
nostro mondo, come buona parte dell'opinione pubblica internazionale ha avuto
modo di constatare in questi ultimi mesi. Nonché tema del viaggio che compiremo
insieme.
Una parola vecchia per un significato nuovo Alla fine di questo libro, io spero che il lettore si chiederà quale sia la relazione tra il titolo e le pagine che ha letto. Attenzione! Non dico che tra le mani avete un testo dedicato all'arte dell'ikebana o alla geologia dell'Oceano Pacifico. Il mio obiettivo è portare a conoscenza dell'opinione pubblica uno degli aspetti meno noti dell'attuale sistema bellico mondiale: la presenza attiva e diffusa di attori economici e commerciali privati nei meccanismi della guerra e della sicurezza.
Il fenomeno non è una novità assoluta nella storia
dell'uomo, ma alcuni elementi dello scenario attuale ne
rendono la portata molto più ampia e significativa. La
tesi di fondo di questa analisi consiste in una netta differenziazione fra la
figura classica di mercenario e l'attuale profilo degli operatori che traggono
il proprio sostentamento da compiti legati all'ambito militare e alla
sicurezza. Per questo, sarà legittimo domandarsi la pertinenza della parola
«mercenari». La spiegazione è semplice: pur trattandosi di un fenomeno oggi del
tutto rinnovato, quella è la sua origine storica, e «mercenari» è la
parola che la nostra lingua ci mette a disposizione, fino
a quando verrà coniato un nuovo termine più aderente
al significato moderno.
Un lungo silenzio Il percorso prenderà avvio da una descrizione della provenienza, della struttura e delle attività attuali delle compagnie militari e di sicurezza private, e proseguirà quindi con un'analisi complessiva del fenomeno, volta sì a denunciare fatti e misfatti, ma anche ad approfondirne la lettura. Intendo superare il primo livello di raccolta di dati (che saranno peraltro molti, e tristemente interessanti) per arrivare a legare il tema particolare dei servizi militari privati ad alcune trasformazioni della nostra società nel suo complesso. Senza questo allargamento di prospettiva, non sarebbe possibile comprendere appieno la questione, e scorgere in essa i semi di una rivoluzione che potrebbe stravolgere il modo di intendere le relazioni tra gli Stati e anche i rapporti di forza fra differenti fasce della popolazione mondiale. Fino a pochi anni fa, il tema della privatizzazione della sfera militare era ancora scarsamente presente nei ragionamenti politici e sociali: in rapporto alla sua delicatezza e criticità, pochi erano i casi di confronto e di indagine profonda. Sebbene episodi e vicende non mancassero certo nella cronaca o negli studi al riguardo. L'esplosione della situazione irachena ha invece portato una crescita di interesse e un estendersi di consapevolezza della rilevanza presente e futura del problema. Interesse e consapevolezza che si annunciano salutari per impostare una riflessione seria che, a mio parere, è urgente e necessaria.
Mentre in Italia siamo ancora ai primi passi, sia nelle esperienze sia per
quanto riguarda l'analisi, in altre parti del mondo il dibattito ha avuto
maggiori opportunità di svilupparsi, pur rimanendo quasi sempre circoscritto
all'ambito accademico. Rari sono stati i casi di coinvolgimento del grande
pubblico, mentre circolava la diffusa convinzione che il tema fosse di esclusiva
competenza di politici e pensatori sociali. Tutto ciò sebbene alcuni governi
abbiano considerato necessario iniziare a inquadrare il problema tramite studi,
indagini, pareri richiesti a strutture statali di consiglio e in qualche caso
addirittura con la promulgazione di leggi.
I Lanzichenecchi e le compagnie coloniali Oggi, non è più possibile accontentarsi di analisi sporadiche. Il tema delle compagnie militari private acquista importanza anche al di là del proprio specifico tecnico, e diventa un indicatore essenziale su come si sta evolvendo il concetto di guerra. Occorre approfondire la conoscenza delle società che chiamerò «neo-mercenarie». E occorre inquadrarne le attività in rapporto ai grandi temi della contemporaneità, come la guerra, la globalizzazione, la lotta alla povertà, il nuovo ordine mondiale. La presenza di un mercato mercenario della guerra è stata, continua a essere e purtroppo sarà in futuro, un aspetto fondamentale e imprescindibile delle strutture militari, sia difensive sia offensive. Un mercato che ha sempre mantenuto uno stretto legame con i modelli decisionali, le opportunità politiche e i meccanismi economici e sociali. Nell'immaginario collettivo è diffusa un'idea precisa e molto «classica» di mercenario, poco adatta alla situazione attuale, anche perché il concetto stesso non è mai stato statico ma si è evoluto parallelamente alla società. I nostri strumenti, siano essi giuridici o di studio, sono spesso obsoleti e possono arrivare a favorire una disinformazione diffusa che giova, in fondo, allo stesso mondo mercenario. L'elemento che può determinare un salto qualitativo nell'analisi è quello economico. Non parlo solo degli enormi guadagni più o meno oscuri che le compagnie militari private sono in grado di raccogliere. L'economia deve fornirci invece gli strumenti adatti a comprendere appieno le dinamiche di base di quello che ormai è diventato un vero e proprio comparto industriale, con regole e percorsi molto più simili di quanto si creda alle caratteristiche dell'economia civile. Il percorso di analisi non può dunque che correre su due binari, l'uno politico e l'altro economico. E questa è la novità dell'approccio che l'attualità esige. Molti, in passato, hanno paventato il risorgere del tempo degli imprenditori privati di guerra, in maniera analoga a quanto successo nei secoli XVI e XVII. La cosa è puntualmente avvenuta. Sembra davvero di essere ritornati ai tempi dei condottieri di ventura o anche di Wallenstein e dei suoi Lanzichenecchi... O forse l'evoluzione si è già spostata un poco oltre, e stiamo già passando a una fase successiva all'imprenditorialità mercenaria. Come quella delle compagnie coloniali commerciali (inglesi, olandesi, francesi), che riuscirono a farsi cedere dagli Stati addirittura delle ampie porzioni di sovranità, diventando così attori politici di un livello superiore alle aspettative iniziali. Ho timore che il pericolo alle porte sia proprio di questa stessa natura. La fine della guerra fredda, con il conseguente vuoto prodotto nell'ambito della sicurezza, le trasformazioni nella natura stessa della guerra, la crescita normativa e retorica della privatizzazione a tutti i costi. Un miscuglio di elementi dirompenti sta agendo come mai in passato a favore di un cambiamento radicale di scenario, utile e favorevole soprattutto a chi vuole trarre profitto dalle guerre; questa consapevolezza ci costringe a essere vigili e attenti, per non trovarci domani assolutamente impotenti e senza diritto di parola di fronte a una gestione completamente arbitraria della violenza su scala mondiale. | << | < | > | >> |Pagina 159Il resoconto completo delle pagine internet di Presidium, in chiusura al precedente capitolo, ci spinge a un'analisi del gruppo di aziende italiane che possono essere considerate delle PMF in senso lato. Comparto che, nel nostro Paese, è ancora assolutamente allo stato embrionale, in stretta analogia con il ritardo sul tema evidente anche sul piano politico (si veda più avanti alle pagine 189-192).
È ovviamente importante capire quale sia l'impatto dell'industria militare
privata nel Paese in cui viviamo, tantopiù dopo il grande interesse suscitato in
tutti gli strati della popolazione dalla vicenda dei quattro nostri
connazionali tenuti in ostaggio per alcune settimane in
Iraq, dove si erano recati come operatori di sicurezza. I
fatti sono abbastanza noti, vista la copertura mediatica
dell'episodio, ma è tuttavia opportuno ricostruire almeno in parte gli
avvenimenti. Cercando di non cedere troppo al fascino dell'intrigo e della
congettura in una situazione che, oggettivamente, possiede ancora lati
oscuri e si rivela molto più complessa di quanto appaia in superficie.
13 aprile 2004: il rapimento Già turbata, un paio di giorni prima, da una mai chiarita notizia di rapimento di due «mercenari» italiani in Iraq, l'opinione pubblica italiana viene sconvolta, il 13 aprile 2004, dall'annuncio che quattro connazionali, sul posto per un non meglio precisato incarico, sono stati sequestrati mentre cercavano di raggiungere Amman via terra. I nomi dei quattro italiani sono Fabrizio Quattrocchi, Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino. Il turbine di particolari che viene diffuso non aiuta in alcun modo la comprensione del caso, la cui verità è fin dall'inizio sepolta da errori e informazioni parziali. Le stesse autorità italiane mostrano una totale impreparazione e una scarsissima conoscenza delle attività condotte in Iraq da questo gruppo di persone, sbagliando addirittura a determinarne l'appartenenza aziendale. Qualsiasi tentativo di approfondire viene poi stravolto dall'assassinio di uno dei quattro, il genovese Fabrizio Quattrocchi, che fra tutti poteva vantare la maggiore esperienza nel Paese mediorientale, e forse proprio per questo è stato scelto come vittima di un'esecuzione dimostrativa. Non è ancora chiaro l'incarico preciso di Quattrocchi (operatore di sicurezza per ONG, insieme ai suoi colleghi, in un hotel di Baghdad? o assistente al seguito di compagnie inglesi e americane?), in Iraq dalla fine del 2003 e divenuto con il tempo «braccio destro» di Paolo Simeone, responsabile e amministratore della DTS LLC, che appare come il personaggio cardine dell'intera vicenda. È stato Simeone a invitare Quattrocchi in Iraq — probabilmente via e-mail, come in seguito proporrà anche ad altri possibili collaboratori — e a inserirlo nella rete di contratti raccolti dalla sua società; società creata in fretta e furia, una volta resosi conto «sul campo» che le lucrose possibilità aperte dal dopoguerra iracheno potevano rendere meglio del lavoro di sminatore (che Simeone svolgeva per conto di Intersos). Il centro operativo di DTS LLC è insediato all'Hotel Babel di Baghdad da cui Simeone e Valeria Castellani — in precedenza volontaria non stipendiata per alcune associazioni umanitarie, e divenuta poi amministratrice e prestanome della società — cercano di far decollare la piccola azienda, sopperendo alla carenza di fondi e di struttura con la dinamicità e la presenza sul campo. Non si tratta però di un'impresa completamente allo sbaraglio: senza un minimo di contatti in Iraq, non si potrebbe proprio lavorare nel settore, tanto è, vero che a partire dal gennaio 2004 le cose sembrano prendere una piega positiva per Simeone e il suo gruppo. Qualche piccolo lavoro «qualificato» (come la protezione per un giorno del diplomatico italiano Marco Osio, addetto culturale nella CPA), una serie di buone prospettive aperte con canali statunitensi e inglesi grazie soprattutto alla creazione di una sede-civetta dell'azienda negli Stati Uniti (Stato del Nevada), possibili contatti con la macchina diplomatica del Governo Provvisorio iracheno. Le difficoltà nascono invece soprattutto sul versante logistico: mancanza di strumenti, carenza di strutture di base (anche solo per il vitto e l'alloggio), un equipaggiamento non all'altezza. Si cerca comunque di superare ogni difficoltà in attesa di un primo «vero» contratto, che pare vicino con l'inglese Edinburgh Risk, e con il miraggio di grossi guadagni per il futuro. Questa aspettativa induce a continuare nella rischiosa scommessa, soprattutto sul versante del reclutamento di personale, il vero e grande anello debole di tutta la costruzione. Con la prospettiva di una grossa necessità di rinforzi, vengono chiamati in Iraq tutti coloro che si rendono disponibili, quale che sia la loro preparazione di base, e allo scopo si attivano le reti di conoscenza costruite in Italia in anni di frequentazioni nel mondo della sicurezza. Il crocevia privilegiato di questa attività di reclutamento è la città di Genova, se non altro per ragioni anagrafiche dei protagonisti, e in particolare la IBSA di Roberto Gobbi: una società specializzata in investigazione e servizi di sicurezza, attorno alla quale gravitano molti di coloro che poi scenderanno nel pantano iracheno: Domenico Giordano, Giampiero Spinelli, Luigi Valle, Alessandro Favetti.
Il profilo degli ostaggi, dal punto di vista della formazione tecnica, si
rivela dello stesso stampo per ciascun caso: qualche esperienza nell'Esercito,
passione per arti marziali e armi, qualche lavoretto come
body-guard
di personaggi famosi o come «buttafuori» in discoteca, e raramente qualche
incarico come responsabile per la sicurezza di aziende o di impianti
produttivi. Un quadro tipico confermato anche dai casi di chi dall'Iraq è
riuscito a tornare senza incorrere in particolari problemi, cioè gli altri
personaggi legati alla IBSA e alla livornese EPTS (gestita da Giorgio Mosca), o
con percorsi di reclutamento differenti.
Un discorso a parte merita Salvatore Stefio, fondatore di Presidium International Corporation, se non altro perché è l'unico ad aver conosciuto una gestione più aziendale e meno personale del lavoro di operatore di sicurezza. In realtà, a dispetto della pomposità del nome e di un tentativo minimamente strutturato di comunicazione (lo abbiamo visto prima analizzandone il sito internet), questa azienda si è sempre collocata ad anni luce di distanza dalle PMF strutturate, e non è riuscita nemmeno ad approfittare in maniera stabile della «manna irachena» o a inserirsi nella scia di compagnie più grandi. In sostanza è un'impresa in un certo senso artigianale e molto incentrata sulla figura di Stefio.
Molti indizi e persone informate sui fatti indicano
nell'ex paracadutista siciliano il vero tramite tra Simeone e il gruppo dei
nuovi reclutati, giunti in Iraq senza avere la sicurezza di un contratto. È
probabile che la notorietà di Stefio nell'ambiente abbia convinto i dirigenti
di DTS LLC a dare un'opportunità lavorativa anche ad Agliana e Cupertino, salvo
poi verificarne la scarsa preparazione dopo nemmeno una settimana di permanenza
a Baghdad. Una serie di informazioni, trapelate durante il sequestro e dopo la
liberazione degli ostaggi (avvenuta l'8 giugno 2004), sembra confermare il ruolo
chiave di Stefio nell'intera vicenda.
La corsa all'oro e l'impreparazione italiana Sono ancora moltissimi i dubbi relativi alle modalità della liberazione degli ostaggi italiani, e anche ai collegamenti fra alcuni dei personaggi attivi a Baghdad e gli interessi internazionali o di alcuni cosiddetti poteri forti. Non andremo a scavare troppo in questi punti, oltretutto al vaglio dell'autorità giudiziaria, né tantomeno a indagare su oscuri giri di addestramento in vari Paesi «caldi» sparsi per il globo (ad esempio le Filippine).
Partiremo invece da questo episodio per mettere a
fuoco il comparto italiano dell'industria privata militare
e della sicurezza, e inserire anche questo tassello nel
quadro generale. Ancora una volta il caso iracheno può
essere considerato paradigmatico ma solo dopo un'attenta selezione degli
elementi messi a nostra disposizione dagli avvenimenti; occorre in definitiva
operare una separazione tra la cronaca e l'essenza del fenomeno. A
operare una separazione dalla cronaca, oltre a tutta una
serie di riscontri forniti dalla stampa e che in seguito verranno citati, ci
aiuta moltissimo l'intervista inedita concessa da Carlo Biffani, responsabile
unico di Start Sicurezza, società italiana impegnata sul fronte del
risk management
anche in Iraq.
Fin dall'inizio della vicenda, molti esperti e operatori del settore ribadiscono la scarsissima preparazione di base dei protagonisti e la mancanza di professionalità, sia a livello personale sia di struttura operativa. È vero che i pareri di chi è fuori dalla situazione critica possono sottovalutare chi ha commesso qualche errore, ma l'unanimità delle opinioni ci può tranquillizzare al riguardo, soprattutto perché vengono da persone che sono state in grado di cavarsela senza problemi in Iraq proprio nei giorni del sequestro. È il caso di Carlo Biffani che, forte di una struttura aziendale ben oliata e di contatti diretti e limpidi con le autorità e gli informatori locali, ha optato per l'uscita dal Paese in aereo evitando la pericolosa strada tra Baghdad e Amman. Non così si sono comportati i quattro ostaggi italiani che, anche mal consigliati da Simeone e forse dallo stesso Quattrocchi, hanno commesso una serie di errori «riconducibili alla sopravvalutazione delle proprie capacità, all'inadeguatezza dell'addestramento ricevuto, e all'errata interpretazione degli obiettivi della propria missione», come è anche confermato da tutta una serie di episodi precedenti al sequestro. Queste considerazioni valgono anche più in generale per il caso italiano: gli operatori del settore lamentano da tempo una mancanza di cultura di base e una impreparazione di fondo, sia delle aziende sia della stessa clientela («in Italia siamo peggio che indietro» afferma Biffani). Diversamente da altri Paesi, dove la gestione della sicurezza è ormai quasi una tradizione, in Italia non c'è mai stata la necessità di creare strutture private per questo scopo. Lo Stato inizia solo ora a ipotizzare di percorrere tale strada, e oltretutto le maggiori aziende italiane, potenzialmente interessate a servizi del genere, hanno sempre avuto divisioni interne a cui affidare la sicurezza dei propri impianti e investimenti in giro per il mondo. Lo stesso dato delle presenze in Iraq conferma la sensazione di un comparto profondamente arretrato: a fronte delle migliaia di effettivi provenienti dai più disparati Paesi (non solo U.S.A. e Gran Bretagna, ma anche Cile e isole Figi), gli italiani sono stati stimati in un centinaio, cifra che nella realtà deve scendere a una trentina di persone in totale. Di sicuro il numero di nostri connazionali registrati ufficialmente con questi compiti presso l'ambasciata di Baghdad non arriva alla decina. Altro indizio della generale impreparazione è l'accreditamento di Presidium addirittura presso la Confindustria, che probabilmente non ha saputo rendersi conto della non piena affidabilità di questa azienda di sicurezza, nemmeno nell'addestramento tanto pubblicizzato invece sul sito. Probabilmente la grande «corsa all'oro» irachena ha dato alla testa, e più o meno tutti, anche non avendo le basi adeguate, cercano di saltare sul carro vendendo in loco il minimo di servizi possibili. Il tutto nel tentativo di attirare l'attenzione dei potenziali clienti, costruendo la propria credibilità su elementi più di facciata che di sostanza: emblematica l'operazione da brand marketing puro effettuata da Simeone, che ha chiamato la sua società in modo tale da farle avere la stessa sigla della più nota e potente DTS Security, con sede in Virginia. | << | < | > | >> |Pagina 203Tutto è arma, tutti sono combattentiL'impossibilità di circoscrivere le attività belliche a un determinato terreno di scontro, come invece si è sempre fatto nel corso della Storia, è nulla rispetto alla rivoluzione ancora più radicale che si sta consumando sul piano logico. Il problema non sta più solo nella conduzione della guerra, ma principalmente verte su quali ne siano le motivazioni e gli obiettivi: qualsiasi rivoluzione nelle tattiche e nelle armi prelude a una rivoluzione più ampia della concezione militare complessiva. Abbiamo appena avuto un rinnovamento incredibile nel primo ambito, ed è logico attendersi ora il compimento del secondo. Per prima cosa, allo stato attuale è impossibile caratterizzare e classificare un tipo di guerra in base a un unico armamento o situazione, come invece accadeva in passato: non può più esistere un conflitto che sia semplicemente di trincea, o aereo, o di arma da fuoco, o navale. Inoltre, le nuove tecnologie e le armi di nuova concezione, unite al pensiero tattico prima illustrato, hanno di fatto cancellato l'esistenza di campi di battaglia collocati in un luogo (fisico e concettuale) che sia esterno e lontano dai centri vitali della società. Ma l'assenza di un terreno di scontro esterno implica necessariamente che ne esiste solamente uno interno. Tutto il mondo e tutti gli ambiti sociali possono così diventare teatro diretto della guerra, e tutto quanto è in essi contenuto si può trasformare in arma e in strumento di combattimento: Ciò che va detto chiaramente è che il nuovo concetto di armi sta creando dispositivi che sono strettamente legati alla vita della gente comune. [...] Il nuovo concetto di armi provocherà nella gente comune, come anche nei militari, grande stupore nel constatare che le cose ordinarie, quelle a loro vicine, possono anch'esse diventare armi con le quali ingaggiare una guerra. Siamo persuasi che alcune persone si sveglieranno di buon'ora scoprendo con stupore che diverse cose apparentemente innocue e comuni hanno iniziato ad assumere caratteristiche offensive e letali. L'11 settembre del 2001 molte persone si sono rese conto dell'esattezza di questa profezia involontaria, mentre molte altre, nei tanti angoli del mondo dove la guerra fa parte della quotidianità, se ne erano già accorte da tempo. Se tutto può essere arma, tutti possiamo essere combattenti, e quindi in futuro ciascun abitante di questo pianeta potrebbe essere coinvolto direttamente in scontri bellici. Attenzione però: non stiamo pensando esclusivamente a uno scontro bellico di stampo classico, ma a tutte quelle forme di guerra che solo il nuovo campo di battaglia globale può permettere: guerre finanziarie, guerre mediatiche, guerre di risorse, guerre commerciali, guerre normative, guerre economiche. Non c'è bisogno di mietere vittime in maniera cruenta per infliggere una perdita o una ferita al proprio nemico, e per capirlo basta chiedersi quanti sono i morti quotidianamente causati dalle crisi economiche o dal peggioramento delle condizioni di vita, situazioni che ai giorni nostri si possono facilmente provocare in maniera artificiale. Sempre più spesso saranno pirati informatici o speculatori finanziari a sferrare attacchi decisivi sulla scena internazionale. In un quadro del genere l'azienda privata si inserisce in maniera perfetta, proprio perché in grado di sfruttare, molto meglio di mille eserciti, le caratteristiche del concetto di guerra che si va costruendo. Cambiando i fattori costitutivi, deve cambiare per forza anche la motivazione finale di ogni dinamica bellica; ancora una volta la «saggezza cinese» ci viene in aiuto evidenziando come: [...] è proprio la diversità degli strumenti impiegati che ha ampliato il concetto di guerra. E ciò, a sua volta, ha comportato l'ampliamento delle sfere di attività legate alla guerra. Se oggi ci limitiamo a una guerra in senso stretto, sul tradizionale campo di battaglia, in futuro ci risulterà molto difficile orientarci. Qualsiasi conflitto che scoppi domani o più avanti rientrerà in un concetto di guerra in senso ampio, ovvero un mix di guerra condotta con la forza degli armamenti e guerra condotta con altri mezzi. L'obiettivo di questo tipo di guerra andrà oltre il semplice «uso di mezzi che coinvolgano la forza degli armamenti per costringere il nemico ad accettare la propria volontà». Lo scopo sarà invece quello di «usare tutti i possibili mezzi che comportano la forza degli armamenti e mezzi che non la comportano, – mezzi che coinvolgono la potenza militare e mezzi che non la coinvolgono, mezzi che provocano vittime e mezzi che non ne provocano – per obbligare il nemico a servire i propri interessi». Una trasformazione logica così profonda, che agisce a un livello intimo e trasversale, è possibile solo se cambiano radicalmente anche le istituzioni, le società e la politica: proprio ciò che è avvenuto con la cosiddetta globalizzazione, che senza dubbio possiamo considerare «l'intensificarsi delle interconnessioni globali, politiche ed economiche, militari e culturali». Un allargamento di orizzonte non solo superficiale ma profondo. Siamo di fronte a un cambiamento in parte contraddittorio, perché da un lato produce integrazione e dall'altro frammentazione: è naturale come tutto questo abbia contribuito a rimodellare anche l'aspetto bellico e militare della società. L'impatto è immediatamente visibile osservando la presenza internazionale sui campi di battaglia delle nuove guerre: inviati speciali, consiglieri militari, volontari, agenzie internazionali, organizzazioni umanitarie e, ovviamente, compagnie private più o meno mercenarie. In questo si evidenzia la doppia velocità con cui il mondo si sta muovendo: Di fatto la guerra è l'emblema di una nuova linea di demarcazione tra globale e locale: da un lato i membri di una classe globale che parla inglese, ha accesso a fax, posta elettronica e televisione via satellite, dollari U.S.A., marchi tedeschi e carte di credito, ed è libera di spostarsi dove vuole; dall'altro coloro che sono esclusi dai processi globali, che vivono di quanto riescono a vendere o a barattare o di ciò che ricevono come aiuti umanitari, coloro i cui movimenti sono condizionati da blocchi stradali, visti e costi di viaggio, e che sono vittime di assedi, carestie e mine. Questa situazione, che vede nuovi attori e nuovi obiettivi mescolarsi nello stesso campo e su tutti i livelli possibili, non è più governabile con i vecchi strumenti politici, forgiati da un tipo diverso di conflittualità e abituati a gestire solo quella. La violenza organizzata è oggi sempre meno un'attività razionale, o quantomeno normata, che viene condotta da un gruppo definito (di solito una nazione o uno Stato) per determinate finalità politiche. La giustificazione legale che l'autorità statale ha fornito agli eserciti nazionali negli ultimi secoli è completamente sparita: non c'è più quell'ordine interno minimo che legittima l'utilizzo della violenza all'esterno. Il problema è anzi più grave: se tutto è campo di battaglia e tutti sono combattenti sarà difficile anche in futuro trovare un'entità in grado di ricostruirsi un'autorità del genere.
Per questi motivi una serie di personaggi, tra i quali
troviamo in bella mostra proprio le compagnie militari
private, sta lentamente ma costantemente esautorando
le istituzioni e i loro eserciti dalla gestione dell'uso della
forza. In questo caos logico e istituzionale è quindi corretto, come fa Antonino
Adamo, parafrasare la classica frase di Von Clausewitz: ormai la guerra è «la
continuazione con altri mezzi di interessi politico-economici di
gruppi particolari».
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