Autore Enrique Vila-Matas
Titolo Kassel non invita alla logica
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2015, I Narratori , pag. 254, cop.fle., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-07-03148-9
OriginaleKassel no invita a la lógica [2014]
TraduttoreElena Liverani
LettoreCristina Lupo, 2015
Classe narrativa spagnola , narrativa catalana , arte , critica d'arte












 

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Pagina 7

1.



Quanto più d'avanguardia è un autore, tanto meno può permettersi di essere qualificato come tale. Ma a chi può importare una cosa del genere? In effetti, questa frase è solo un mcguffin e non ha molto a che vedere con ciò che mi ripropongo di raccontare, anche se potrebbe darsi che, alla lunga, tutto ciò che racconterò a proposito dell'invito a Kassel e del conseguente viaggio in quella città finisca per sfociare precisamente in questa frase.

Come alcuni sanno, per spiegare che cos'è un mcguffin, la cosa migliore è servirsi di una scenetta da treno: "Potrebbe dirmi che cos'è quel pacchetto nella cappelliera giusto sopra la sua testa?" domanda un passeggero. E l'altro risponde: "Ah, quello è un mcguffin". Il primo allora vuol sapere che cosa sia un mcguffin e l'altro gli spiega: "Un mcguffin è un apparecchio per cacciare leoni in Germania". "Ma in Germania non ci sono leoni," dice il primo. "Allora quello lì non è un mcguffin," risponde l'altro.

Il mcguffin per eccellenza è il Falcone maltese, íl film più impostore di tutta la storia del cinema. La pellicola di John Houston narra della ricerca di una statuetta che fu il tributo a un re spagnolo pagato dai cavalieri di Malta per un'isola. Nel film si parla moltissimo, ininterrottamente, e alla fine l'agognato falcone, per il quale più d'uno ha addirittura commesso degli omicidi, si rivela essere solamente l'elemento della suspense che ha permesso alla storia di procedere.

Come già avrete intuito, esistono molti mcguffin. Il più famoso lo si ritrova nelle prime scene di Psycho, di Hitchcock. Chi non ricorda il furto compiuto da Janet Leigh nei primi minuti? Sembra molto importante mentre finisce col risultare irrilevante per la trama. Tuttavia, ottiene l'effetto di tenerci incollati allo schermo per il resto del film.

E ci sono mcguffin, per esempio, in tutti gli episodi dei Simpson, in cui invariabilmente il preludio che dà l'avvio ha ben poco se non nulla a che fare con il successivo sviluppo della puntata.

Il mio primo mcguffin lo trovai in Un maledetto imbroglio, di Pietro Germi, adattamento cinematografico di un romanzo di Carlo Emilio Gadda. Nel film, il commissario Ingravallo, sovraccarico di caffè e perduto nel labirinto della sua intricata indagine, di tanto in tanto parlava per telefono con la sua signora che non si vedeva mai. Ingravallo era forse sposato con una McGuffin?

Ci sono talmente tanti mcguffin in giro che giusto un anno fa se n'è infiltrato uno nella mia vita quando una mattina mi telefonò a casa una ragazza che disse di chiamarsi María Boston e di essere la segretaria dei McGuffin, una coppia di irlandesi interessati a invitarmi a cena, certi che anch'io sarei stato felicissimo di incontrarli e conoscerli, dato che pensavano di farmi una proposta irresistibile.

Erano miliardari i McGuffin? Volevano, per qualche oscuro motivo, comprarmi? Questa fu la domanda che formulai come reazione ironica a quella telefonata strana, provocatoria, certamente uno scherzo di qualcuno.

Di solito, a telefonate del genere, riaggancio immediatamente, ma la voce di María Boston era molto calda e molto bella e inoltre, in quel momento, ero animato da buon umore mattutino e quindi giocai un po' prima di riagganciare e questa fu la mia rovina perché diedi tempo alla giovane Boston di citare alcuni nomi di amici comuni, i nomi dei miei migliori amici.

"Ciò che pensano di proporti i McGuffin," disse all'improvviso, "è di farti conoscere, una volta per tutte, la soluzione al mistero dell'universo. Loro la sanno già e te la vogliono trasmettere."

Decisi di assecondarla. I McGuffin erano informati del fatto che io non uscivo mai a cena? Sapevano che, da sette anni, di mattina generalmente mi sentivo felice e di pomeriggio, invece, venivo colto puntualmente da una forte angoscia che mi portava a figurarmi panorami neri e orribili e che rendeva assolutamente sconsigliabile che uscissi di sera?

I McGuffin sapevano tutto, disse Boston, erano informati del fatto che ero molto restio a uscire di sera. Ciononostante non potevano neanche lontanamente pensare che preferissi rimanere a casa piuttosto che conoscere la soluzione del mistero dell'universo. Scegliere il focolare era da codardi.

In vita mia ho ricevuto telefonate strane, ma questa le batteva tutte. E, come se non bastasse, la voce di Boston si faceva sempre più gradevole, aveva un timbro davvero speciale che mi evocava ricordi di qualcosa che non sapevo molto bene cosa fosse, ma che mi faceva sentire ancora più colmo d'energia e di gioia di quanto già non fossi abitualmente nelle mie mattine, di per sé, negli ultimi tempi, già molto cariche di forza e ottimismo. Le domandai se ci sarebbe stata anche lei alla cena in cui mi sarebbe stato rivelato il segreto. Sì, disse, penso proprio che ci sarò, dopotutto sono la loro segretaria e ho degli obblighi.

Qualche minuto dopo, avendo tratto buon profitto dal mio stato d'animo ottimista, era già riuscita a convincermi del tutto. Non mi sarei pentito, disse, il mistero dell'universo valeva certo uno sforzo. Il mio compleanno è stato il mese scorso, replicai, te lo dico nel caso in cui qualcuno si sia sbagliato di data e abbia pensato di prepararmi una festa a sorpresa. No, disse Boston, la sorpresa è ciò che ti riveleranno i McGuffin, non ci crederesti mai.

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Pagina 20

5.



Durante il mio lento cammino verso casa, in preda a un instabile stato d'animo, continuavano ad apparirmi e a sparire alcune parole che Kafka aveva scritto in una lettera a Felice Bauer: "Marienbad è inconcepibilmente bella. Penso che se fossi cinese e ritornassi subito a casa (ma in fondo sono cinese e torno a casa) dovrei ottenere per forza di ritornare qua presto".

Questo è l'unico frammento in tutta l'opera di Kafka in cui dice di se stesso che "in fondo è cinese", particolare che sembra indicarci che molto probabilmente, quando Borges pensò di riconoscere la voce o tracce di Kafka in testi di diverse letterature e di diverse epoche precedenti a lui, ebbe una grande intuizione nel cogliere un'affinità tra Kafka e Han Yu, prosatore del IX secolo, autore che Borges aveva appena scoperto nella mirabile Antologia ragionata della letteratura cinese pubblicata in Francia nel 1948.

Dal tenore di ciò che Kafka scriveva a Felice Bauer, risulta evidente che lo scrittore di Praga aveva presagito la sua enigmatica relazione con la Cina, chissà, forse persino con il suo precursore Han Yu.

Quella sera, durante il mio lento ritorno, presi a immaginare – per una qualche ragione, e di motivi ne avevo – di essere il protagonista della frase kafkiana, vale a dire, che ero cinese e ritornavo a casa. A tratti mi capitò anche di sentirmi a mio agio interpretando quel ruolo. Finché non si produsse una virata totale e gli effetti della pastiglia, benefici in alcune occasioni, iniziarono a non esserlo assolutamente e all'improvviso tutto in me si rabbuiò e caddi in pieno in quello stato di angoscia e malinconia che avevo cercato di eludere; non potevo far nulla per sfuggire a quel tracollo del mio stato d'animo e maledissi mille volte l'essermi affidato alle cure del dottor Collado. Mi ricordai di alcune passeggiate notturne dominate dalla stessa angosciante percezione che il mondo fosse pieno di messaggi in qualche codice segreto. E in mezzo a queste percezioni negative, mentre lottavo inutilmente per recuperare il buon umore e mi dicevo che era piuttosto curioso che un cinese come me fosse stato invitato in un'enclave asiatica della lontana Germania, mentre pensavo a tutto ciò in un modo abbastanza confuso, ovviamente, e camminavo verso casa riflettendo su questioni dello stesso tenore, altrettanto confuse, mi ricordai del sogno molto intenso e per me assolutamente cruciale che avevo fatto tre anni prima a Sarzana, nel Nord Italia, quando mi ero recato in quella città per un incontro internazionale di scrittori ed ero alloggiato in una pensione chiamata la Locanda dell'Angelo, in piena campagna, vale a dire a otto chilometri dal centro urbano, e lì, mentre entravo nella camera di quell'albergo lontano, la prima cosa che realizzavo era di aver dimenticato a Barcellona i sonniferi come pure il libro che pensavo di leggere prima di dormire. Ciononostante, pur non potendo far conto sui miei sedativi abituali, riuscii ad addormentarmi, crollai letteralmente morto di sonno semplicemente ricordando un saggio di Walter Benjamin nel quale suggeriva che una parola non è un segno, un sostituto di un'altra cosa, ma semplicemente il nome di un'Idea. In Proust, in Kafka, nei surrealisti, diceva Benjamin, la parola si allontana dal significato in senso "borghese" e riprende il suo potere elementare e gestuale. In tale prospettiva, ai tempi di Adamo, la parola e il gesto di nominare erano la stessa cosa. Da allora il linguaggio aveva sperimentato un grande declino, del quale Babele, secondo Benjamin, era stata solo una tappa. Compito della teologia consisteva nel recuperare la parola, in tutto il suo potere mimetico originario, dai testi sacri nei quali era conservata.

Mi domandai, lì a Sarzana, se le lingue cadute, nella totalità delle loro intenzioni, potevano ancora avvicinarci a certe verità legate alla sconosciuta origine del linguaggio. Capendo all'improvviso che, in fondo, per tutta la mia vita, senza che ne fossi stato del tutto cosciente, avevo cercato di ricostruire un discorso disarticolato (il discorso originale, perduto nella notte dei tempi), mi addormentai ed entrai in un sogno molto intenso nel quale avanzavano, a passi molto rapidi, due amici, Sergio Pitol e Raúl Escari. Camminavano in modo quasi meccanico per i vicoli di un vecchio nucleo urbano, probabilmente europeo. La pioggia, invece, mi sembrò cadere con la strana lentezza e con il medesimo aspetto tossico con cui cade sulla capitale del Messico. Entrarono in un'aula di studio e Sergio iniziò a scrivere segni che io non avevo mai visto, li scriveva a grande velocità su una lavagna di un colore verde straordinariamente potente. La lavagna si trasformò in una porta incassata in un arco ogivale arabo, una porta di un verde ancora più potente sulla quale Pitol scriveva, rallentando il ritmo della mano, la poesia di un'algebra sconosciuta: formule e misteriosi messaggi dall'aria cabalistica, ebrea, anche se forse l'aria era solo musulmana, musulmana della Cina, o era semplicemente in italiano, dei tempi di Petrarca; poesia di un'algebra strana, senza patria, che mi rimandava al centro del mistero dell'universo, di un universo che sembrava affollato di messaggi in qualche codice segreto.

Quando la mattina dopo mi svegliai, lo feci con la sensazione di essere stato molto vicino al messaggio essenziale del quale sospettai che solamente Pitol conoscesse l'estensione più profonda. A volte, quando ritorno come oggi su quel sogno, mi rendo conto che il giorno in cui Boston mi telefonò per annunciarmi che i McGuffin volevano rivelarmi il mistero dell'universo, in parte acconsentii a recarmi all'appuntamento perché il mio inconscio si trovava ancora sotto l'influsso del sogno di Sarzana. Peraltro, non va certo scartata l'ipotesi che, quando alcuni giorni dopo accettai di andare a Kassel, in fondo lo feci, anche se probabilmente solo molto in fondo, con la speranza di trovare lì il segreto dell'arte contemporanea, o forse l'iniziazione alla poesia di un'algebra sconosciuta, o magari una porta incassata in un arco ogivale arabo; una porta di un remoto passato cinese, dietro alla quale il linguaggio puro conduceva a una vita occulta.

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Scritta per me? E perché no? Mi ricordai di quella domanda, così semplice e candida, che era stata posta a Kafka in una certa occasione: "Sarà vero che si può legare una ragazza con la scrittura?". Poche volte è stata formulata con tanta ingenuità, tanta precisione e tanta profondità l'essenza della letteratura. Nonché il compito stesso che Kafka avrebbe assegnato alla scrittura in generale e alla sua scrittura in particolare. Perché, contrariamente a ciò che molti credono, non si scrive per intrattenere, per quanto la letteratura sia tra le cose più piacevoli che ci siano, né si scrive per quella cosa chiamata "raccontare delle storie", per quanto la letteratura sia piena di racconti geniali. No. Si scrive per legare il lettore, per impadronirsi di lui, per sedurlo, per soggiogarlo, per entrare nello spirito di un'altra persona e restare lì, per commuoverlo, per conquistarlo...

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Poi, una volta usciti dal Fridericianum, tornai a pensare alla boccetta di Eva Braun e finii con l'addentrarmi nel tema della colpa. Tale questione tornò a me come le mosche tornano nelle zone già infettate per infettare tutto ancora di più. Nella mia terra, paese famoso nel mondo soprattutto per la sua macabra Guerra civile, la colpa a malapena esisteva, quella sciocchezza di cattivo gusto la si lasciava agli ingenui tedeschi. Nessuno perdeva tempo con il rimorso di essere stato nazista, franchista, o catalano collaborazionista con il dittatore di Madrid, complice degli omicidi del Terzo Reich. Nella mia terra, da sempre, il dramma del declino dell'Europa non era mai stato preso in considerazione, probabilmente perché, non avendo partecipato direttamente a nessuna delle due guerre mondiali, lo si considerava un problema di altri e forse anche perché in fondo praticamente avevamo sempre vissuto nel nostro declino, vi eravamo talmente sprofondati che non eravamo in grado di coglierlo.

Sei in Germania, sembrava volermi ripetere in modo ossessivo una voce interiore che in qualche modo ricordava la voce che percorreva Europa, il film di Lars von Trier che ci parlava, con tono potentemente ossessivo, della rovina brutale del vecchio continente.

"Sei in Europa", si sentiva in modo insistente. E ciò che le cineprese mostravano era un continente trasformato in un infinito e gigantesco ospedale.

All'improvviso, uscendo dal Fridericianum, la voce che mi diceva che mi trovavo in Germania si fece insistente e sentii che probabilmente ormai ero davvero atterrato. Se le cose stavano così, mi trovavo in un paese famoso per mescolare intelligenza e barbarie al contempo, in un paese che conosceva a fondo il rimorso e che da anni versava nel dubbio se provare una grande afflizione per le proprie colpe, oppure se cercare di provare meno pentimento; in definitiva, un paese i cui cittadini cercavano di trovare un equilibrio ragionevole tra eccedere nella penitenza o eccedere poco, probabilmente consapevoli, da una parte, del fatto che senza memoria correvano il rischio di tornare a essere mostruosi, ma anche che, con troppa memoria, il rischio per loro era di rimanere fieramente imprigionati nell'orrore del passato.

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Entrai nell'Hessenland e andai direttamente alla 027, la mia camera al secondo piano, uscii sul balcone, e mi venne subito in mente ciò che Boston mi aveva anticipato quando qualche ora prima mi aveva detto che da lì avrei visto l'entrata dell'edificio in cui si trovava la stanza buia di Sehgal.

Stava succedendo quello che lei aveva predetto. E d'altra parte ebbi la conferma del fatto che, davvero, la solitudine era impossibile perché era popolata da fantasmi. Mi ero congedato da Boston, ma lei in qualche modo continuava a essere lì, ora nella mia memoria. Rimasi sul balcone giusto il tempo necessario per stabilire una connessione mentale con la dépendance dell'hotel, con il tenebroso edificio contiguo che ospitava la sala di Sehgal, una stanza che trasformai in una sorta di possibile faro nella notte, in una direzione verso la quale potevo guardare, previa uscita sul balcone, nel caso stessi affogando in così tanta solitudine (con fantasmi) nella mia capanna.

Era meglio di niente avere quel faro invisibile, anche se, a dire il vero, la capanna era ancora da fabbricare. O forse no, visto che probabilmente il modo migliore di fabbricarla era immaginare che in quella camera d'albergo avrei potuto perfettamente condurre, ormai senza ulteriori preamboli, una vita di pensieri.

Il mio modello per la capanna era Skjolden, il luogo in cui Wittgenstein era riuscito a isolarsi, a sentire la propria voce e a confermare che si poteva pensare meglio da lì che non dalla cattedra. Di fatto, aveva iniziato a rivolgersi dalla capanna a coloro che volevano iniziarsi a un nuovo modo di vedere le cose e non alla comunità scientifica, né alla cittadinanza. Per lui pensare poteva arrivare a essere un'impresa artistica. Il suo ideale filosofico era stato la ricerca di lucidità liberatrice, di apertura della coscienza e del mondo; non voleva offrire verità, ma veridicità, esempi e non ragionamenti, motivi e non cause, frammenti e non sistemi.

[...]

Poi telefonai a mia moglie e le dissi che sembrava che la mia vita quel giorno non fosse trascorsa proprio come un film d'azione, e tuttavia non avevano cessato un momento di succedermi delle cose. Ma quando mi domandò quali, fui solo in grado di dirle che stavo scherzando. Non volevo, per esempio, raccontarle che, sin da quando ero arrivato, gli abitanti di Kassel sembrava che fossero lì ad aspettarmi e che questo equivoco mi aveva fatto pensare al giorno in cui ero arrivato in macchina ad Anversa con mio nipote Paolo e, nei pressi della bella stazione, avevo iniziato a essere vittima di un'ondata di presentimenti circa il fatto che la città avrebbe patito una sorta di castigo. Da quale passato remoto di un antenato sorgevano in me quelle visioni che vedevo ancorate con naturalezza nella realtà? Era così privo di senso sospettare che io avessi avuto esistenze precedenti in città d'Europa e che vedessi arrivare le catastrofi e avessi la sensazione di tornare su strade che in altri tempi avevo già esaustivamente battuto? Non era da scartare in un luogo come Kassel che, aprendo le sue porte a idee d'avanguardia, stava implicitamente rifiutando qualsiasi invito alla logica.

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Pagina 84

Mi hanno sempre immensamente divertito le teorie, e quindi potevo essere contento. Da tempo non sapevo in che condizioni versava l'arte contemporanea, ma lì a Kassel c'era abbondanza di stimoli per fare ricerche sul suo stato. Da giovane, mi annoiava stare a guardare un Rembrandt; davanti a un quadro di quello straordinario pittore non sapevo cosa dire. Invece, se vedevo un ready-made di un semplice imitatore di Duchamp, scattava in me ogni sorta di riflessione e mi veniva voglia di sentirmi, una volta per tutte, un artista. E la stessa cosa, ricordo, mi succedeva con Manet, così influenzato da Mallarmé, il cui più importante discepolo può darsi che sia stato – mi azzardo a dirlo – Marcel Duchamp. Mallarmé disse a Manet: "Non dipingere l'oggetto in sé, ma l'effetto che produce". Con questa frase si annunciava l'abbandono dell'opera piana e l'ascensione del concetto a luogo privilegiato.

Già durante i giorni in cui Rembrandt mi lasciava in silenzio, già allora, mi affascinavano le sublimi teorie (non ne capivo nessuna, ma questo forse è un altro problema) e soprattutto, mi affascinavano le interviste nelle quali il tema centrale era la Teoria, in questo caso con la T maiuscola. Mi avevano affascinato, all'inizio degli anni settanta, alcune domande che erano state poste a Alain Robbe-Grillet, a cui lui aveva risposto difendendosi come un gatto che soffiava furiosamente dalle teorie: "Diciamo che sono antiquato. Per me, l'unica cosa che conta sono le opere".

Le opere! Oggi una tale ingenuità avrebbe fatto ridere.

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Mi ricordai di Stanislaw Lem e della sua teoria sulla letteratura bitica, quella creata dalle macchine, con i suoi cinque volumi pubblicati a Parigi. In essa, Stanislaw Lem, nella sua finzione sul futuro (in questo caso ormai sul nostro passato) diceva che alla fine degli anni ottanta del XX secolo, a partire dalla quindicesima binastia di computer parlanti, era stato dimostrato che era una necessità tecnica dare alle macchine periodi di riposo durante i quali queste, libere da "istruzioni programmatrici", potessero cadere in un "balbettio" e in un "mescolare alla cieca" e, proprio grazie a questa attività erratica, aiutare la capacità delle macchine a rigenerarsi.

Se, come sembrava, la previsione di Lem si era avverata, era del tutto evidente che negli anni ottanta gli artisti erano stati liberati da qualsiasi tipo di "istruzioni programmatrici" e si era entrati in un tempo di pausa, in un tempo morto. In effetti, avevo sentito dire da alcuni studiosi della "letteratura bitica" che per le macchine parlanti rilassarsi era indispensabile tanto quanto la consapevolezza del pericolo di perdere la parola lo era per la letteratura del futuro.

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Pagina 94

Secondo Chus, ai suoi compatrioti mancava la capacità di essere più sciolti: "Eravamo convinti di essere pazzi, ma non lo eravamo neanche un po'. Manca per l'appunto demenza e senso dell'umorismo. L'umorismo, come tassello fondamentale della modernità, va riconosciuto di diritto a Cervantes. Un senso della vita un po' più rilassato, aperto, flessibile... L'umorismo del Don Chisciotte è mai stato spagnolo?".

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Pagina 104

Poi mi tuffai in Consigli per quando sarò vecchio, testo alla Jonathan Swift. Deviai minimamente dall'originale: "Non sposare una donna giovane. Non essere scontroso, o imbronciato, o diffidente. Non essere troppo libero nei consigli e non angustiare nessuno, salvo quelli che lo desiderino davvero. Non essere troppo severo con i giovani, ma tollerare le loro sciocchezze e debolezze. Non essere categorico né testardo. Non ostinarmi a voler rispettare tutte queste regole, che poi magari non ne osservo nessuna".

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Pagina 159

42.



Un'ora dopo mi ritrovavo perplesso in un teatro dell'Orangerie a vedere come il cantante finlandese M.A. Numminen offriva la sua versione del Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein devastandolo a colpi di jazz, punk, rock e pop.

Quasi non potevo credere ai miei occhi. Distruzione del Tractatus con brevità ed efficacia. Quando capii che Numminen aveva demolito quel libro, venni colto da una ridarella nervosa, quasi ridicola, e Boston dovette addirittura calmarmi. Ho dormito poco, le ricordai, come se le mie parole potessero fungere da scusa per qualcosa. Guarda, disse, che stasera ceni con Chus. Non era scontato che sarei arrivato vivo a quell'appuntamento, dato che la stanchezza stava minando le mie forze e che in questo caso, per uscire di sera, non avrei avuto il supporto, come un anno prima, della pastiglia di Collado.

Tornai a pensare al finlandese Numminen e mi resi conto che in effetti né gli anglosassoni, né noi latini riuscivamo a cogliere la sua vena giocosa; per noi era un comico oltre la nostra portata, incomprensibile. Ma certamente un ottimo comico. Non sapevo perché, ma certamente lo era. E perché, perché lo sapevo con tanta sicurezza? Non sapevo come uscire da un simile dubbio.

Quando abbandonò il palcoscenico, fu Boston a ridere, anche se in modo meno incontrollato del mio; nel suo caso, rideva perché aveva appena letto il curriculum di Numminen allegato al programma. Si trattava di una biografia la cui traduzione in spagnolo proveniva direttamente dall'anarchico traduttore di Google: M.A. Numminen fu nato nel 1940 a Somero, Finlandia, e ha studiato filosofia, la sociologia e la linguistica all'università di Helsinki [...] Ha composto intimati filosofici, film scritti, poesie, esperienza in genialità e tango.

Intimati filosofici? Film scritti? Era curioso notare come ogni giorno sembrava che venissero inventati nuovi generi di scrittura. Quanto all'incontro tra genialità e tango, mi parve un'attraente combinazione, per quanto né io né Boston riuscissimo a vederci un nesso. Ma certamente poteva essere molto invidiabile, per esempio, avere esperienza in genialità e ballarla sotto forma di tango. Ecco cosa commentammo con allegria nel bar dell'Orangerie una volta concluso lo spettacolo finlandese e dopo aver constatato che finalmente il temporale si era allontanato.

Allora Boston mi dimostrò di conoscere più cose di quelle che io credevo parlandomi di un libro dell'argentino Juan Rodolfo Wilcock, La sinagoga degli iconoclasti; in uno dei racconti del libro un regista catalano di nome Llorenç Riber, grande amante dei conigli (li metteva in tutte le sue opere) veniva chiamato a Oxford per dirigere la versione teatrale del Tractatus Logico-Philosophicus ed erano in molti a pensare in un primo momento che si sarebbe trattato di un'impresa quasi disperata.

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47.



Ada Ara si congedò, doveva tornare in ufficio. Boston disse che si sarebbe fermata ancora un po' e ci sedemmo nel Die Büste Bar, vicino a Kochstraße.

C'erano bambini che correvano e si inseguivano tra i tavoli sotto gli sguardi compiacenti di genitori e nonni. Il bancone era affollato di adulti che si accalcavano per poi quasi azzuffarsi per qualcosa da bere. Non era il posto migliore per una conversazione. Ma parlammo. Boston mi disse che stava aspettando di diventare vecchia per poter andare più lentamente e vestirsi da anziana. Riuscì a sorprendermi.

"Andare più lentamente?"

Le guardai i piedi. Indossava i sandali dorati che in un certo momento mi avevano così tanto affascinato. Li immaginai distrutti dal passare degli anni mentre non riuscivo a evitare la mia sorpresa constatando che nella mia fredda ricerca sullo stato dell'arte contemporanea si stavano infiltrando quelle note sentimentali, umane, direi forse addirittura "troppo umane". Che cosa ci facevano lì quelle note? Mi venne da domandarle se il suo desiderio di andare più lentamente fosse da associare al modo di affrontare il tempo lento che avevo percepito nell'opera di Kentridge. Assolutamente no, disse, che idea la tua! L'unica cosa, disse, è che si sentiva ogni giorno di più una fanatica delle camminate, tanto che sperava da vecchia di non dovervi rinunciare, sarebbero state camminate dal passo molto lento, lungo il corridoio di casa sua, le camminate in assoluto migliori, sempre con un abbigliamento strano, sognava di indossare vestiti molto leggeri e calzettini grossi e, al tramonto, di addormentarsi con la testa all'indietro e la bocca aperta...

Mi piacerebbe arrivare a essere vecchia, insistette, e avere problemi di sonno, svegliarmi di notte e rimanere sveglia fino al mattino, perdere un po' di bava e diventare senile e stupida. La sua voce aveva recuperato curiosamente tutto il fascino della prima volta che l'avevo sentita e suonava immensamente calda e così umana da sembrare perfino troppo umana. Era, inoltre, una voce che, nonostante ciò che stava dicendo, riusciva ad aumentare la forza del suo incantesimo in ogni momento. Sarei rimasto lì al Die Büste ad ascoltarla per il resto del giorno, o fino al resto dei miei giorni, fino a quando lei non avesse iniziato a diventare vecchia. E non so come accadde, ma immaginai che ci ritrovavamo quasi addosso alcuni dei nonni del bar che desideravano toccarci, il cui alito ravvivava il rosso dei vestitini dei bambini che correvano lì, allo stesso modo in cui l'ossigeno ravviva il fuoco. E penso che si possa dire che, in compagnia dell'anziana Boston, tra fiamme e vestitini rossi, vissi in pieno per qualche momento il duro inferno della vecchiaia.

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Pagina 210

58.



Mi sedetti su uno dei tronchi ammucchiati, vicino ai blocchi di cemento armato, in un angolo del territorio Untilled. Ero cosciente del fatto che tutto ciò avesse qualcosa di folle o, per meglio dire, di illogico. Ma mi trovavo in un crescendo del mio stato di euforia, di armonia meravigliosa con quasi tutto ciò che c'era a Kassel. Quasi tutto mi affascinava proprio nell'ora in cui mi sarei dovuto ritrovare completamente abbattuto dall'angoscia. Il contatto con l'arte contemporanea, o qualunque cosa fosse ad aver realizzato quel miracolo, mi aveva portato a uno stato straordinario, anche se ero certo che, prima o poi, mi avrebbe di nuovo raggiunto la malinconia abituale delle ore notturne; doveva essere così, perché in caso contrario, senza una tristezza che mi assalisse di tanto in tanto, non sarei stato nulla.

Imboscato, alla luce della luna, ultimo congiurato di un sogno in terra smossa, sussurrai con lentezza e premeditazione la canzone secondo la quale per uscire dal bosco saremmo dovuti uscire dall'Europa, ma per uscire dall'Europa saremmo dovuti uscire dal bosco. E mi sembrò di scoprire che a quell'ora, senza i due cani, l'ambiente di decomposizione (c'era da supporre che fosse una probabile metafora della decomposizione culturale nella quale vivevamo) perdesse forza, visto che la notte era infinitamente più potente dell'ambiente.

Cercai con lo sguardo il monticello di detriti sul quale avevo visto la ragazza bionda tedesca diffondere la notizia della morte dell'Europa. E quando mi sembrò di averlo trovato, guardai verso il tendone stellato che sentivo come l'unica cosa che davvero poteva accompagnarmi nella solitudine. E anche se in quel momento non ne ricordavo il nome (Brian Schmidt) mi venne in mente l'astronomo australiano che insieme ad altri colleghi aveva scoperto che l'universo, quattordicimila milioni di anni dopo il Big Bang, stava accelerando e non frenando come si era sempre creduto, probabilmente a causa di un'energia oscura: succedeva la stessa cosa con il mio stato d'animo, che sentivo accelerato in ogni momento, placidamente inarrestabile, come se la mia inclinazione a interessarmi di tutte le cose fosse in continua espansione e, a causa di ciò, a causa della forza che mi trasmetteva una probabile energia oscura, io non potevo chiudere occhio, confermando probabilmente a questo modo che, come diceva un mio amico, era l'essenza stessa della notte a impedirci di dormire.

Assolutamente a mio agio nonostante mi trovassi in un luogo che in altre circostanze mi sarebbe parso spaventoso, dedicai un pensiero a quell'astronomo che a sua detta stava esplorando la frontiera stessa della conoscenza, addentrandosi nel nuovo e, pertanto, osando commettere degli errori. E come se fossi io l'astronomo, giocando a fare ciò che immaginavo facesse quell'australiano quando era da solo con le stelle, cominciai a pormi un problema che ovviamente non ero il primo al mondo a essermi posto.

Una questione che non saprei come classificare. Di ordine filosofico, logico, cartesiano, forse matematico...

Consisteva nel domandarsi se si poteva verificare ciò che si enunciava.

Per esempio, si guardava la vicina statua sul piedistallo di una donna sdraiata vicino a una pozza e si enunciava a voce moderatamente alta:

"Sul viso della statua con piedistallo ci sono delle api".

Fino a qui tutto andava bene, ma il problema iniziava quando mi domandavo che modo avessi di verificare ciò che avevo affermato. Era sufficiente un'occhiata da diverse angolature o dovevo toccare con le mie mani l'alveare che occupava il viso della statua e poi il piedistallo eccetera? Qui la messa a fuoco del problema apriva due strade. Una sosteneva che, anche se me lo fossi riproposto, non sarei mai stato in grado dí verificare completamente la proposizione, perché in fondo la proposizione stessa manteneva aperta una porta sul retro, una fuga incontrollabile, e rimaneva la possibilità di essersi sbagliati. L'altra affermava: "Se tanto non posso mai verificare completamente il senso di ciò che ho enunciato, allora non ho voluto dire nulla con la proposizione. E quindi non significa assolutamente nulla".

Non sapevo quale strada imboccare e, pur sapendo che mi stavo impuntando troppo sulla questione, mi posi di nuovo il problema cambiando la proposizione e dissi:

"Sono seduto nella notte su un tronco".

E subito dopo mi domandai che modo avevo di verificarlo. Era sufficiente un'occhiata al tronco o dovevo toccarlo con le mie mani e constatare che serviva per far legna in inverno eccetera? Qui tornarono ad aprirsi due strade per mettere a fuoco il problema, le stesse che si erano aperte con la statua vicino alla pozza eccetera.

Trascorsi parecchio tempo di grande attività giocando a essere un astronomo che, invece di guardare le stelle, si poneva questo problema. Ed era perfetto giocare a qualcosa di così illogico in una città come Kassel, che non invitava alla logica perché con essa non aveva grosse relazioni, visto che pretendeva dagli artisti invitati che si muovessero all'interno dei parametri d'avanguardia di una pazzia superlativa.

Mi ricordai della mia ultima visita nella meravigliosa città di Torino, dove aveva richiamato la mia attenzione quanto fosse contenuto ed elegante quel luogo del Nord d'Italia, in realtà città francese a causa della lunga ombra dei Savoia; mi era rimasta impressa la serenità della sua vita quotidiana, che si intuiva quale pericolosa creatrice di imprevisti spropositi o di sconvolgenti attacchi di pazzia come quello di Friedrich Nietzsche quando, nel dicembre del 1889, uscì dall'hotel e all'incrocio tra via Cesare Battisti e via Carlo Alberto abbracciò il collo di un cavallo frustato dal suo nocchiero e pianse. Quel giorno si ruppe in Nietzsche la labile frontiera che a quanto pare da alcuni secoli separa la razionalità dalla follia. Quel giorno, lo scrittore si allontanò definitivamente dalla gente o dall'umanità, è lo stesso. Con parole ancora più semplici: impazzì, anche se, secondo Kundera, probabilmente ciò che si limitò a fare fu chiedere al cavallo perdono per Cartesio.

Un grande torinese d'adozione come Italo Calvino vide in questa città geometrica e perfetta un invito al rigore, alla linearità, allo stile. Ma aggiunse: "Invita alla logica e attraverso la logica apre la via alla follia".

A Kassel, pensai, succedeva invece una cosa diversa: la città invitava all'illogicità che apriva la strada a una logica non conosciuta.

Rimasi parecchie ore a riflettere su come verificare le diverse proposizioni che stavo formulando, e non so quante ore mi intrattenni moltissimo con questo gioco.

La questione verifiche terminò quando ne enunciai una che dimostrava che la matematica o non era fondata o non era del tutto completa.

"Io sono una verità indimostrabile," mi dissi.

E solo dicendo questa frase ebbi l'impressione di aver demolito il prestigio della matematica, quella scienza formale che, partendo da assiomi e seguendo il ragionamento logico, studia le proprietà e le relazioni tra gli enti astratti.

Se io ero una verità indimostrabile, la matematica non era ciò che credevamo, non era poi quel linguaggio superiore – il linguaggio di Dio come alcuni la chiamano – come molte persone volevano farci credere.

Passarono alcune ore da quando feci fuori la matematica e iniziai a sentire la mia mente angariata da interferenze indesiderate, intimidita – trovo molto appropriato questo aggettivo – da una strana cineseria, la tormentante storia che aveva per protagoniste due mosche tze-tze originarie di Pechino; un racconto con tratti da incubo che senz'altro aveva origine nell'impatto, di cui al momento senz'altro non ero stato consapevole, che mi aveva provocato la vista, alcune ore prima, di quei due minuscoli insetti soporiferi prigionieri in un gigantesco vetro nel Fridericianum.

Quel racconto cinese, una sorta di fantasticheria che mi induceva al sonno, probabilmente era causato proprio dalla stanchezza, a volte generatrice dei più incredibili incubi. Alla fine, cedetti alla pressione tze-tze e feci un pisolino e il tempo passò volando e quando tornai in me la prima cosa che potei vedere e che mi sembrò far parte del sogno fu il pacifico cane dalla zampa rosa al mio fianco. Totalmente confuso, attribuii la visione e il sogno alla prossimità del Dschingis Khan che in fin dei conti si trovava piuttosto vicino, proprio dietro al territorio Huyghe, ai limiti del parco, già vicino al fiume Fulda.

Mi resi conto che stava già schiarendo e che in qualche modo ero riuscito a vivere e sognare nella periferia delle periferie dell'arte, come un cospiratore segreto nella notte di Kassel. E, nonostante le due mosche tze-tze mi avessero tormentato seriamente, provai un certo orgoglio per quanto ero riuscito a fare, per essere rimasto tanto tempo in un luogo così difficile, poco pensato per la notte. Quanto al cane, alla fine vidi che era quello vero e che era realmente lì, in carne e ossa.

Lo toccai.

"Il cane è una verità indimostrabile."

E notai che il cane non si allontanava, indifferente a quanto avevo detto di lui, trasformato in un'inamovibile verità indimostrabile, immutabile: una verità che, trattandosi di un cane, si muoveva.

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