Copertina
Autore Paul Virilio
Titolo Città panico
EdizioneCortina, Milano, 2004, minima 74 , pag. 130, cop.fle., dim. 120x195x12 mm , Isbn 978-88-7078-898-3
OriginaleVille panique. Ailleurs commence ici
EdizioneGalilée, Paris, 2004
TraduttoreLaura Odello
LettoreGiorgia Pezzali, 2005
Classe sociologia , citta': Parigi
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Tabula rasa                       9

La democrazia di emozione        29

Kriegstrasse                     47

L'incidente del tempo            61

Città panico                     79

Il crepuscolo dei luoghi        103



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Tabula rasa



"Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, richiede tutta un'educazione", scrive Walter Benjamin a proposito di Berlino molto prima delle derive parigine dei situazionisti...

Quest'educazione, in un certo senso sentimentale, di un passante che si rifiuta di essere soltanto un passeggero, comincia molto presto — se non proprio durante l'infanzia, quando ancora si è accompagnati, almeno durante l'adolescenza, questo momento in cui lo slancio della maturità si accompagna all'urgenza di una libera fuga.

Parigi è stata la mia città natale, e Nantes quella della mia adolescenza. Parigi era "la pace", la pace precaria degli anni Trenta, e Nantes "la guerra", una guerra totale.

Tra le due, ho conosciuto l'esodo, il pellegrinaggio di una disfatta annunciata, il tragitto di una popolazione spaventata dalla Quinta Colonna, e che fugge sotto l'ossessione di un cielo invaso dal nemico.

"La forza di una strada di campagna cambia a seconda che la si percorra a piedi o che la si sorvoli in aeroplano. Solo chi cammina su questa strada apprende qualcosa della sua potenza", scrive ancora Walter Benjamin.

Questa potenza geodetica è quella del TRAGITTO, delle traiettorie successive di un corpo che si muove nell'orientamento della sua potenza locomotrice, dal momento che non c'è vita che nelle pieghe, le pieghe del terreno che protegge o il ripiegarsi di un catasto che sorprende le nostre aspettative. In effetti, lo spazio della capitale non è mai stato intero, ma frammentario e fragile: di qui le sue sommosse a ripetizione, dal Medioevo fino al maggio '68, passando per la Comune o per la Rivoluzione.

Quando, per esempio, osservo una vista aerea dell'Île-de-France, mi sembra di contemplare un'agglomerazione sconosciuta sulla quale non ho mai posato gli occhi né messo piede, e anche se la pianta di Parigi non corrisponde al territorio urbano, questa cartografia mi risulta infinitamente più preziosa della sua visione atmosferica, dal momento che mi indica le rotture, le spaccature della simmetria; in breve, la frattalizzazione di un tessuto che non lascia mai indovinare la fotografia.

Malgrado Haussmann, Parigi non è all'aperto. Il barone ha soltanto tracciato qualche asse visibile a volo d'uccello, ma non ha potuto bucare stabilmente la massa anonima dei quartieri di questo involucro di zinco che generazioni di operai hanno saputo gettare su Parigi, come uno scudo che si oppone alle frecce dello sguardo di Medusa.

Qui e adesso, all'altezza dell'asfalto e di qualche pavé dimenticato, ci sono non soltanto quartieri, isolati, ma zone d'ombra, "riserve di urbanità": di qui l'originalità di questi passaggi coperti così ben analizzati da Benjamin, nella sua fuga disperata, o da Hugo, il ribelle delle fogne...

Anche qui NANTES completa PARIGI, poiché il passaggio Pommeraye ricorda, secondo me, quello dei Panoramas, sui Grands Boulevards. Dopo LIONE, la capitale gallo-romana e i suoi vicoli [traboules], Parigi ha inventato la metropolitana, una circolazione abitabile per mezzo di vagoni interposti, in cui le stazioni sono altrettanti luoghi pubblici semicilindrici, al riparo dagli sguardi come dalle intemperie. Se l' insula romana, l'isolato, era ancora soltanto un oggetto immobiliare, il tunnel della metropolitana è un tragitto per la dimensione mobile [mobilier] urbana che questa rete sotterranea costituisce, rete che fa della capitale una stazione di smistamento nascosta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 29

La democrazia di emozione



"Gli eventi passano sugli eventi, i fiumi passano sui fiumi, il fatto galleggia sempre tutto intero, senza discontinuità, senza rottura", scriveva Victor Hugo nel 1842, a proposito dell'incidente che era costato la vita al duca d'Orléans.

Centosessant'anni più tardi, nell'era del conformismo mediatico, la standardizzazione dell'opinione è al culmine, e l'esemplarità succede alla celebrità, al punto che l'espressione "creare l'evento" non corrisponde più alla realtà, una realtà falsificata da una moltitudine di supporti, audiovisivi e di altro tipo.

Essere esemplare significa ormai creare senza creazione, spesso addirittura per semplice sottrazione dell'opera. Di qui il successo strepitoso, nel corso del ventesimo secolo, dello scandalo artistico come dell'attentato politico. Di qui, anche, il discreto discredito della celebrità del produttore (l'artigiano, l'operaio...), a partire dal diciannovesimo secolo, come del creatore (l'artista, il poeta...) nel successivo. E ciò, a beneficio di questo "angelo del banale" che ha raddoppiato quello del bizzarro, celebrato da Edgar Allan Poe, con il noto successo (mediatico), da LOFT STORY alla STAR ACADEMY.

Oggi, momento in cui tutti gli esempi vengono seguiti in tempo reale attraverso l'iperpotenza dei mass media, l'evento è unicamente la rottura della continuità, l'incidente intempestivo, che viene a rompere la monotonia di una società in cui la sincronizzazione dell'opinione completa abilmente la standardizzazione della produzione.


"Essere noti è disumano", dichiarava recentemente l'attore John Malkovich. Una tale negazione della celebrità contemporanea all'era della mondializzazione va di pari passo con la minaccia che pesa ormai sui diritti d'autore, sulla pura e semplice autenticità di una firma.

Ormai si può essere spossessati, per contratto, del proprio nome, divenuto "immagine di marca", come Ines de La Fressange o, ancora, Yves Saint Laurent. Ora contano soltanto il logotipo e la logomachia promozionale.

Questa logica della MODELLIZZAZIONE contemporanea, si noti, della MONDIALIZZAZIONE — che, alla fine, si rivela suicida per ogni vera e propria creazione –, comporta persino il rilancio dell' incidente per l'incidente, questa forma postmoderna dell' "arte per l'arte" che porta dall' incidente locale – del genere di quello della navetta Challenger o del supersonico Concorde – fino all' incidente globale ed ecologico - del genere Cernobyl -, in attesa della fatale confusione tra "attentato" e "incidente" – come nell'esplosione della fabbrica di Tolosa –, divenendo l'incertezza, questa volta, una figura dell' incidente della conoscenza, e non più solo della sostanza incriminata.


Creare l'incidente e non più tanto l'evento... rompere la concatenazione di causalità che caratterizza così bene la normalità quotidiana – questo tipo di espressionismo è oggi universalmente ricercato, tanto dai "terroristi" quanto dagli "artisti" e da tutti gli attivisti contemporanei dell'epoca della globalizzazione planetaria.

A contrario, notiamo anche il numero considerevole di personalità letterarie o scientifiche che giocano con la dissimulazione, addirittura con l'anonimato più completo, come Henri Michaux ieri o Thomas Pynchon oggi, che non concedono alcuna intervista alla stampa e che rifiutano sistematicamente di essere fotografati... Oppure, ancora, questi "terroristi", silenziosamente infiltratisi nella banalità della vita quotidiana, che non rivendicano nemmeno più la paternità dei loro atti, in compenso provocando emuli, un gran numero di epigoni, di cui riparleremo più tardi.

In fin dei conti, c'è della piromania in questa sete di esemplarità senza vera e propria celebrità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 44

Nel 1947, dopo Hiroshima, Daniel Halévy ci poneva deliberatamente nella prospettiva di un' accelerazione della storia. Circa sessant'anni dopo, ci troviamo, questa volta, nella prospettiva dromologica, quella cioè di un'improvvisa accelerazione della realtà, in cui le nostre scoperte tecnologiche si rivoltano contro di noi e in cui certe menti deliranti tentano di provocare a ogni costo l' incidente del reale, questo urto [télescopage] che renderebbe indiscernibili verità e realtà fallaci - in altre parole, mettendo in opera l'arsenale completo della DEREALIZZAZIONE.

Servizio segreto e agente di influenza, direttore della comunicazione militare o spin doctor, tante denominazioni che sono pronte a moltiplicarsi.

Nel 1980, Giovanni Paolo II aveva pensato di dover denunciare, davanti a un areopago di studiosi, la militarizzazione della scienza – in altri termini, la militarizzazione delle conoscenze... Dall'11 settembre 2001 siamo entrati nel tunnel di una militarizzazione dell'informazione, dal momento che l'INFOWAR spinge fino all'assurdo questa "logistica della percezione" che favoriva ieri, con la conquista di obiettivi militari, la vittoria sul nemico.

Oggi, l'ambizione è smisurata, giacché si tratta di rompere lo specchio del reale per far perdere a ciascuno (alleati o avversari) la percezione del vero e del falso, del giusto e dell' ingiusto, del reale e del virtuale – confusione fatale del linguaggio, come delle immagini, che porta all'innalzamento di quest'ultima TORRE DI BABELE, che si suppone possa realizzare la rivincita americana sul crollo del World Trade Center.

A guisa di conferma di questo delirio iconoclasta, indichiamo che l'INFOWAR, di cui siamo state le vittime, ha condotto l'esercito americano a lasciare che si compisse, sotto i nostri occhi e senza difesa, la distruzione del museo archeologico e della biblioteca di Baghdad, un disastro che ricorda il sacco del Palazzo d'estate perpetrato in Cina dagli europei e contro il quale Victor Hugo stesso aveva protestato.

Così, dopo la distruzione della memoria mesopotamica e il saccheggio dei tesori dei Sumeri, questa "guerra dell'informazione" si è affermata per ciò che essa è: un conflitto contro la Storia, un tentativo di distruzione delle origini.

Guerra preventiva, non tanto contro questo o quel tiranno, quanto contro questa memoria "immemorabile" che non passa, non abbastanza velocemente secondo il parere di coloro che pretendono governare non il futuro – come una volta con "l'avvenire radioso del totalitarismo" – ma il presente, questo eterno presente dell'ubiquità e dell'istantaneità del tempo reale delle telecomunicazioni.

"La nebbia lascia il tempo che trova", dice il proverbio... La nebbia della guerra, invece, non ci lascia nemmeno più il tempo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 79

Città panico



"Quando mi prende la paura, invento un'immagine", scriveva Goethe. Oggi, non c'è alcun bisogno di inventare una tale iconografia mentale, l'immagine strumentale ci è istantaneamente fornita dalla televisione. Nel riferire dell'esplosione in volo della navetta Columbia, un giornalista constatava: "Come se solo la ripetizione rimediasse all'inesplicabile, l'immagine diffusa ininterrottamente diventa la firma dei disastri contemporanei". Così, alla ronda incessante dei satelliti dell'immensa periferica della Città-Mondo si aggiunge ormai la diffusione ininterrotta delle immagini terrorizzanti: "Stato di assedio" dello spirito del telespettatore il cui risultato più evidente è l'ascesa di questa psicosi OSSIDIONALE che colpisce le popolazioni dell'era della globalizzazione.

In mancanza di una scrittura del disastro facilmente comprensibile da ciascuno, i mezzi di telecomunicazione di massa ci impongono la loro firma per identificare il terrore.

"Tutte le nostre emozioni e le nostre paure sono state prese in ostaggio a partire dall'11 settembre 2001", segnalava con pertinenza Susan Sarandon, e non è un caso se, una volta di più, sono le attrici e gli attori americani a indovinare per primi l'incombere dei pericoli, sull'esempio di quelli di ieri, come Chaplin o, più tardi, John Garfield, vittime del maccartismo.

Senza alcun distacco critico davanti all'onda dilagante, lo spettatore è così sottomesso non più alla riproduzione delle immagini stereotipate di cui ci parlava Walter Benjamin, ma all'allucinazione collettiva di un' immagine unica, teatro ottico di un panorama terroristico girevole. Ciò che propongo di chiamare iconoclastia della PRESENTAZIONE in tempo reale, che supera, ormai, la vecchia iconoclastia della RAPPRESENTAZIONE nello spazio reale, delle immagini dipinte o scolpite, di cui la distruzione dei Buddha di Bamian, in Afghanistan, o il saccheggio del museo di archeologia di Baghdad sono tra gli ultimi esempi.

Sintomo panico di una vera e propria chiusura dell'immaginario, la febbre OSSIDIONALE che colpisce oggi le mentalità è il primo segno caratteristico di una PRECLUSIONE temporale — e, speriamo, temporanea — di questa esperienza, di questo TEST a grandezza naturale della mondializzazione. Questa "grande reclusione" di un'informazione "metageofisica" divenuta planetaria, addirittura di ciò che certi guru chiamano il cervello globale, visione cibernetica che appartiene a questo fantastico politico che ha dato il cambio al fantastico sociale degli anni Trenta, anni di sinistra memoria.

Infatti, se la paura è l'ingrediente di base del fantastico, l'amministrazione della paura pubblica, che ha esordito una quarantina d'anni fa con "l'equilibrio del terrore", riprende servizio effettivo dall'autunno 2001, fino all'operazione "Shock and awe" in Iraq, dove abbiamo assistito a veri e propri "giochi di prestigio" multimediatici, quando gli assassini suicidi e la coalizione si davano alla pazza gioia soggiogando le folle con un'orgia di mezzi pirotecnici che, più che delle famose "armi di distruzione di massa", fanno uso e abuso di queste "armi di comunicazione" ugualmente di massa, il cui arsenale non cessa di svilupparsi grazie alle antenne paraboliche e alle prodezze di queste "operazioni psicologiche" (PSY OPS) il cui scopo è quello di propagare il panico con il pretesto di scongiurarlo.


"L'illusione dell'iperpotenza è nata con la scomparsa dell'Unione Sovietica", dichiarava Emmanuel Todd. Quest'illusione ottica è continuata, a quanto pare, grazie all'assenza di un nemico dichiarato e, d'altra parte, grazie alla sparizione non solo di Bin Laden e di Saddam Hussein, ma anche, e soprattutto, al fatto che queste "armi di distruzione di massa", servite da pretesto per scatenare la guerra preventiva americana, fossero introvabili.

Decisamente, tutto questo assomiglia molto a una serie di giochi di prestigio...

Gli Stati Uniti valgono quanto valgono i loro avversari, prosegue Emmanuel Todd, che conclude: "Gli americani sono condannati a fare del militarismo teatrale nei confronti di paesi deboli come l'Iraq o dei paesi arabi in generale".

Infatti, come non constatare la correttezza di questi discorsi, con il "teatro di operazioni" del Vicino e Medio Oriente, e con il bluff di questa escursione selvaggia nel deserto biblico?

Per esempio, nel nord dell'Iraq è stata bombardata Mossul, non lontano dai bastioni di Ninive. Al sud, si è combattuto intorno a Kerbala, non lontano da Babilonia e dalle rovine della "Torre delle torri", quella di Babele... Tutto ciò per vendicarsi del crollo delle Twin Towers. Infine, dopo aver fatto sparire sotto gli occhi di tutti la famosa "guardia repubblicana" di Saddam Hussein, l'assalto contro Baghdad si è concluso con la demolizione della sua statua sulla piazza Ferdaous – trasmessa in diretta e riproposta in continuazione – davanti agli occhi del mondo intero, mentre più discretamente (fuori campo) si effettuava il saccheggio delle meraviglie sumere.

A proposito della "operazione di decapitazione" dell'effigie di Saddam Hussein, ascoltiamo il racconto dei corrispondenti presenti nella capitale irachena. "Sono gli americani che l'hanno rovesciata per primi. Alle 14 c'erano solo una ventina di iracheni sul posto. Due ore più tardi ce n'erano un centinaio, aizzati da altoparlanti, giusto quanto bastava per le immagini televisive."

Questo, per quanto riguarda l'allestimento dello scenario. Comunque, per confermare le prodezze di questo "fantastico politico" a uso delle folle, ascoltiamo il seguito. "L'hotel Palestine era divenuto una sorta di teatro. Dal balcone, vedevamo fabbricare delle scene espressamente per noi", spiega Caroline Linz, di France 3, che conclude: "Del resto, non avete visto immagini della battaglia di Baghdad".

In mancanza di queste immagini di guerra, come di quelle relative agli effetti collaterali di circa 30.000 bombe sganciate dalle forze di coalizione, e in assenza di un MUSEO DEI DISASTRI in grado di allertarci sulle devastazioni dell'incongruenza politica, la "guerra dell'informazione" si è conclusa, in Iraq, nel caos di una capitale consegnata ai vandali, con, in più, lo spettacolo funesto del DISASTRO DEI MUSEI...

Altro aspetto, non secondario, di questa saga i cui danni dureranno probabilmente per diverse generazioni, riguarda il fatto che il nome di ABRAMO, il padre dei credenti, patriarca nativo di Our (a nord di Bassora), sia stato onnipresente nelle coscienze, dall'inizio alla fine di questa finta crociata.

Infatti, se il nome dei carri armati che avanzavano a tutta velocità nelle tempeste del deserto era ABRAMS, la dichiarazione di dopo-guerra del presidente George W. Bush veniva rilasciata il 1° maggio 2003, al largo di San Diego, a bordo di una portaerei. Il nome di questa nave: ABRAHAM LINCOLN. Per gli apostoli di un tele-evangelismo strategico era un segno del cielo, un segno che avrebbe tratto in inganno solo i credenti.


NEW YORK dopo il crollo del World Trade Center, BAGHDAD dopo la caduta di Saddam Hussein, GERUSALEMME e il "muro di separazione", ma anche HONG KONG o PECHINO, o gli abitanti dei cillaggi intorno che barricano i loro borghi davanti alle minacce della pneumopatia atipica... Tanti nomi su una lista di agglomerati urbani pronta ad allungarsi indefinitamente.

CITTÀ PANICO che segnalano, meglio di tutte le teorie urbane sul caos, il fatto che la più grande catastrofe del ventesimo secolo è stata la città, la metropoli contemporanea ai disastri del Progresso.

Il "museo dell'incidente" è proprio lei, questa megalopoli che si crede il centro, l' omphalos di un'umanità finalizzata; questa METACITTÀ che non ha più (realmente) luogo, poiché essa si rifiuta ormai di situarsi qui o là come faceva così bene la capitale geopolitica delle nazioni.

In effetti, la bolla "metapolitica" della globalizzazione si prepara a scoppiare a sua volta, liberando una moltitudine di spazi critici devastati dai dissensi interni di una guerra civile mondiale senza paragone con quelle, locali, di un tempo.

Bolla finanziaria, bolla immobiliare, bolla di queste nuove tecnologie dell'immagine e della comunicazione (NTIC) che avranno soprattutto comunicato la rovina e il disastro. Tanti scoppi a ripetizione che segnalano, prematuramente, quello della "bolla geopolitica europea" dovuto a un allargamento sconsiderato. Ma soprattutto, fatto ancora più grave, lo scoppio della bolla metageofisica della cosiddetta mondializzazione. Colonia virtuale di uno pseudo-"sesto continente" in condizioni di assenza di gravità, le cui virtù cibernetiche conducono l'umanità alla carcerazione delle proprie idee di verità e di libertà.

Di qui epidemia di febbre ossidionale che contamina gli spiriti della loft-society, dove la rivelazione frattale prevale sulla rivoluzione sociale e dove, con l'aiuto della privatizzazione, lo spazio critico domina lo spazio pubblico delle leggi e dei limiti del diritto.

Dopo la "rivoluzione" dallo stesso nome, in Cecoslovacchia, ora è la dislocazione di velluto, per non parlare dell'epurazione etnica e dei suoi danni a ripetizione.

Proliferazione di Stati sempre più deboli, bolla di sapone che fugge nel suo ingrandimento esterno e nel suo rimpicciolimento interno. A titolo di esempio, citiamo la grottesca dichiarazione di Silvio Berlusconi, nel momento del suo insediamento alla presidenza della Comunità europea, il l° luglio 2003: "Bisogna che le frontiere europee si allarghino per includere la Turchia, l'Ucraina, la Bielorussia e la Federazione russa".

È ridicola la DECENTRALIZZAZIONE delle istanze governamentali quando il centro non è da nessuna parte e la circonferenza è invece ovunque!

Dal momento che nulla è mai realmente INTERO, la frattalizzazione è l'avvenire di tutti i tentativi di globalizzazione. Di fatto, la frattura e la frammentazione sono le conseguenze indotte dalla pressione o, più esattamente, dalla compressione di ciò che si pretende "completo" o, meglio, compiuto... Di qui l'ESCLUSIONE che segna l'esito fatale di ogni PRECLUSIONE, totalitaria ieri, globalitaria domani.

L'implosione dell'Unione Sovietica, tuttavia, avrebbe dovuto prepararci, noi cittadini della vecchia Europa, al fatto che il crollo improvviso dei paesi satelliti avrebbe avuto qualche effetto sul destino comune degli europei!

| << |  <  |