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| << | < | > | >> |Pagina 9Mercede Vitali, dell'omonima merceria sita a Bellano in via Balbiani numero 27, era una smortina tuttaossa. Nubile. Vergine. Vegetariana. Aveva quarant'anni. Da venti non si perdeva la prima messa del mattino. Pregava, poi andava a vendere mutande. La ragazza l'aspettava davanti alla porta ancora chiusa del suo negozio. Era la mattina del 12 febbraio 1931. La luce era incerta, l'aria fredda, la contrada invasa dall'odore di pane fresco che usciva dal forno del Barberi. La Vitali aveva l'abitudine di parlare tra sé. Faceva discorsi, più spesso conti. Recitava, come fosse un rosario, l'elenco dei debitori. A volte inventava lettere da scrivere al Duce che poi non spediva mai. Quella mattina non aveva niente da raccontarsi. Zitta era uscita di chiesa e filata verso la bottega. Imboccata la contrada aveva visto quella figura indistinta nella luce fioca del primo mattino. Fatti due altri passi l'aveva riconosciuta. Era Renata Meccia, l'unica figlia del podestà Agostino Meccia. Aveva ventiquattro anni, un carattere esuberante, come quello del nonno, cavalier Renato. Cosa voleva da lei? «Buongiorno Mercede» salutò la ragazza. «Buongiorno.» Prima ancora che la Vitali riuscisse ad aprire la porta, Renata Meccia le aveva detto perché fosse lì. Mercede comprese anche il perché dell'insolito orario. Era un'implicita richiesta a incassare la commissione e a non farne parola con nessuno. Un bel problema. Fu un giorno di magri affari. A sera nel cassetto non ballavano che pochi centesimi. Mercede considerò quella miseria con un'alzata di spalle. Non aveva ancora risolto il problema della mattina. Forse il prevosto un consiglio glielo poteva dare. Chiuse bottega alle sei. Nella contrada fischiava un montivo gelido, nell'aria c'era un vociare maschile, le osterie erano piene, nella sola via Manzoni se ne contavano sette. Donne uscivano dalla messa della sera e andavano disperdendosi verso casa. Mercede fendette quella folla mormorante. Una di loro, vedendola, si fermò. «Stavo venendo da voi» disse. «Mi serviva un metro di nastro caneté.» Mercede la guardò. Un metro pensò. Che sforzo. «Ho chiuso» rispose. «Come mai così presto?» Il tono indagatore non piacque a Mercede. «Devo rendere conto a voi?» chiese. L'altra restò senza parole. Mercede la lasciò lì e riprese la strada. «Devo rendere conto a lei!» mormorò, trovando infine qualcosa da raccontarsi. Non doveva rendere conto a nessuno di quello che faceva. Figurarsi. Men che meno a quella. Un metro di nastro! Si svenava. Magari, secondo quella, avrebbe dovuto tornare indietro a riaprire, per quattro centesimi di nastro... Si fermò davanti al ventre del signor prevosto che stava uscendo da una porticina laterale della chiesa dopo aver chiuso il portone. Il sacerdote aveva fretta. Lo disse subito. Conosceva la Vitali. Attaccava bottoni infiniti, anche in confessione. L'esordio della donna, «Ho bisogno di parlarvi», gli fece pensare di non essersi spiegato bene. «Ho fretta» ripeté. «Ma è cosa di estrema importanza» dichiarò Mercede. «Che non può aspettare sino a domani mattina?» «Io non vorrei mancare di rispetto a nessuno...» «Cosa c'entra il rispetto?» «Il rispetto che si deve all'autorità.» «Che autorità?» «Il podestà. È o non è un'autorità?» Silenzio. Il prevosto era buon amico del podestà. Di casa. Cenava spesso da lui. «Cosa c'entra il podestà?» chiese. «Sono qui per spiegarvelo» rispose Mercede. «Dite» si rassegnò il sacerdote. Mercede parlò a testa china. Davanti a lei l'imponente sacerdote ascoltò, il capo eretto, le mani strette dietro la schiena. Due ombre appena più chiare della notte che ormai era calata. | << | < | > | >> |Pagina 61Il podestà Meccia aveva bevuto il caffè al bar dell'Imbarcadero. Per il suo stomaco era stato come buttare benzina sul fuoco. Era entrato negli uffici con il volto tiratissimo e aveva subito rimproverato l'anziana impiegata Alata Bianchi: vedendola, infatti, gli era venuto in mente che in una delibera di giunta — la Bianchi aveva il compito di ricopiarle in bella grafia per i faldoni d'archivio — aveva rinvenuto, a proposito del ricovero in luogo di cura della bambina deficiente Rosa Pomponi, la parola «deficiente» scritta senza la «i». Poi s'era rivolto al messo Sbercele che stava fumando il toscano impestando l'aria dell'ufficio e seccamente gli aveva ordinato di non fumare mai più quella roba durante l'orario di lavoro. Non contento, aveva chiesto a tutti gli impiegati di non usare il banco che li separava dal pubblico come un piano d'appoggio per documenti, registri e altro materiale d'ufficio, col rischio che qualche buontempone in vena di scherzi facesse sparire carte di qualche importanza. Quindi aveva infilato la testa nell'ufficio del segretario e, ad alta voce, s'era raccomandato a lui, che era il capo del personale per il rispetto delle norme di comportamento dei dipendenti pubblici. Finalmente aveva dichiarato che se ne andava nel suo studio e non voleva essere disturbato. Aveva da fare. Eccome. Non poteva, a mezzogiorno, ripresentarsi a casa, davanti alla moglie, senza un'idea precisa su come agire per risolvere il mistero che sembrava gravare sulla figlia. Aprì il cassetto della scrivania, prese le famose mutande che ormai avevano perduto ogni profumo. Le guardò. Sua figlia, pensò, era andata a ordinarne un paio uguali. Ma cosa cazzo s'era messa in testa? Bussarono. Velocemente ripose le mutande e chiuse il cassetto. «Cosa c'è?» gridò. Il Vitali si presentò alla soglia dello studio. «Cosa volete?» chiese il Meccia. Il Vitali stava ancora sulla soglia. «Eh?» insisté il podestà. Orcodue, pensò il Gerolamo: com'era difficile parlare. «Se posso...» bofonchiò. E fece due passi verso la scrivania del podestà. Sotto i suoi piedi scricchiolò il parquet, rumore fastidioso, grilli nella cefalea del Meccia. «Dite» ordinò, aspro, il Meccia. Il Vitali allungò il passo e fu davanti alla scrivania. Non gli venne nemmeno in mente di sedere. Ripensò alle parole de l'avocàt. Dov'erano, adesso? Non le trovò, mugugnò. Infilò la mano in tasca, prese la busta, la tese al podestà. «Cos'è?» chiese questi. Il Vitali non rispose perché il podestà ci stava già guardando dentro. | << | < | > | >> |Pagina 121Al solito orario, verso le dieci, lunedì mattina la zia Rosina si alzò e si guardò allo specchio. La pelle del viso, ancora liscia, lo sguardo limpido. I capelli bianchi, ma ben tenuti: bastavano due colpi di spazzola e tornavano a posto. Sorrise: pure una dentatura quasi perfetta. Così, pensò, non andava bene. Non dimostrava assolutamente gli ottantadue anni che aveva. Cominciò col togliersi gli orecchini, regalo di un antico fidanzato che aveva avuto e al quale s'era sottratta per tempo: a lui, come agli altri. Ci voleva cipria, rifletté poi. Per coprire quelle gote rosee dove solo qualche ragnatela di capillari cercava di interrompere l'uniformità del colorito. Poi i capelli. Le spiaceva rovinare la pettinatura. Era proprio necessario sacrificarla? No, si rispose. Bastava che utilizzasse un foulard. Non certo uno di quelli colorati, vivaci e di seta che lei amava. Ce ne voleva uno di colore nero, dozzinale. Uno di quelli che si potevamo immaginare sul capo della Befana e che appunta in Befane trasformavano le donne che li usavano. Tornò a guardarsi. Non era male. Gli occhi, però, lo sguardo, potevano tradire la mascherata. Doveva, nei limiti del possibile, tenere le palpebre un po' abbassate, per dare l'impressione che avesse sonno o fosse rimbambita. E, a quel proposito, non sarebbe stato male se avesse finto di essere un po' sorda e, di conseguenza, avesse parlato gridando un po'. Via anche la camicetta chiara, la collana di corallo, il golfino di lana pregiata. Al loro posto un informe maglione grigio, un grembiale che usava solo durante le grandi pulizie, un cappotto marrone con tre enormi bottoni e che puzzava di naftalina lontano un miglio. Infine afferrò un bastone e mimò davanti allo specchio l'andatura incerta che ci si poteva attendere in una persona della sua età. Fu soddisfatta. L'immagine che lo specchio le rimandò era proprio quella di una vecchina mezza cieca, appassita, svanita e traballante. L'immagine di una persona che non ce la faceva più a badare a sé stessa. Che, a mala pena, riusciva a star dietro alle cose di casa. Alla quale, quindi, non si poteva negare il favore di portare la spesa a domicilio: per, cristianamente, risparmiarle almeno quella fatica. Il Barberi padre, poco dopo, non se lo fece chiedere due volte, cadde subito nella trappola. «Non preoccupatevi signora Rosina» la tranquillizzò; «ci penserà il Vittorio a portarvi il pane tutte le mattine.» Poi, guardandola uscire dal forno, formulò tra sé la previsione che la signora Rosina non ne aveva per molto. | << | < | > | >> |Pagina 189E tre, disse Renata.La zia Rosina le chiese cosa intendesse. Renata sbuffò. Era la seconda domenica consecutiva che le toccava rinunciare a passare qualche ora col Vittorio. È vero che continuavano a incontrarsi tutte le mattine dalla zia Rosina. Ma erano diventati incontri via via sempre più brevi, perché il padre del giovanotto aveva minacciato di andarci lui a consegnare il pane alla Rosina se per farlo, a suo figlio, necessitava quasi un'ora, e di conseguenza anche un po' nervosi. Bisognava andarci piano col Vittorio, non dimenticare che era di pelo rosso. «Comincio a perdere la pazienza» disse. «Eh, ragazza mia!» fece la zia Rosina. «Ce ne dobbiamo armare, noi donne soprattutto. Quindi mettiti seduta e dimmi cos'è successo.» Era successo che, come già sapeva, il giorno prima avevano avuto ospiti. Anzi, un ospite solo, ma che aveva contato per tre: bisognava averlo visto mangiare, infatti. Non aveva mai detto di no a niente, di ogni portata aveva sempre fatto il bis. Era un ometto che a guardarlo non gli avresti dato una lira: piccolo, pelato e con un ventre a obice che, quando s'era seduto, s'era afflosciato verso il basso, tanto da coprire... sì, da coprire la borsa, o come altrimenti si dice. Suo padre però l'aveva trattato come se fosse il Dio in terra e quello non s'era fatto pregare: aveva preso in mano il pallino e aveva rotto l'anima a tutti, tranne, s'intende, al podesta, raccontando, anche con la bocca piena, le sue avventure in guerra, parlando di Roma e citando nomi e cognomi di personaggi che a volte le era capitato di leggere sui giornali. Quando avevano finito di mangiare, ben oltre le tre del pomeriggio, lui e suo padre erano passati a parlare d'affari, ma erano rimasti lì in sala perché sembrava che l'ospite non volesse più staccarsi dalla bottiglia di amaro del monte Muggio che la mamma aveva messo in tavola. Così era toccato anche a loro sentire le cose che s'erano detti i due uomini. Lei aveva seguito il discorso, sempre con la speranza che la famosa occasione di cui la zia Rosina le aveva parlato spuntasse tra una parola e l'altra e invece aveva appreso che quel porcospino romano aveva promesso al podestà di inviare immediatamente a Bellano un pilota d'aereo. «Un pilota?» interloquì la zia Rosina. Sì, proprio un pilota. Ma non le chiedesse perché. Non aveva capito. Aveva capito però che il pilota in oggetto sarebbe arrivato a Bellano la domenica successiva e così, con quella scusa, suo padre il podestà aveva detto che l'avrebbe ricevuto con tutti gli onori e naturalmente ospitato a pranzo a casa sua. Il che significava che aveva trovato il modo per fregarla un'altra volta, la terza!, e che a lei cominciava a scappare la pazienza. Le era venuto un nervoso tale che, quando suo padre era uscito di casa insieme col tritatutto romano per fargli fare due passi in paese e poi riaccompagnarlo al battello, aveva deciso di affrontare la questione a quattr'occhi, quella stessa sera. Aveva dovuto rimandare però. Perché il genitore era rientrato protestando di non stare tanto bene. Quindi aveva preteso una comomilla e s'era infilato a letto. Aveva preso freddo. Il cibo gli si era piantato sullo stomaco. Non aveva tenuto conto che quello zoppicava e camminare, con oltretutto quel bel peso da tirarsi dietro, gli costava fatica. Erano rimasti, fermi impalati e al freddo, al molo, ad aspettare il battello. Di Bellano gli aveva solo mostrato il palazzo del municipio, da fuori, e indicato la finestra dell'ufficio del segretario Carrè, anche lui romano di origine. | << | < | > | >> |Pagina 268Non c'era niente da fare. «Niente» ribadì, con voce aspra, il dottor Frassoni dell'ospedale civile di Velletri. Le fratture costali si sarebbero saldate in quaranta giorni. Quella del setto nasale avrebbe richiesto un paio di mesi. I peli, tutti, dalle ascelle al buco del culo, sarebbero ricresciuti anche loro. «Ma per quello che avete sul cranio non c'è niente da fare.» «Non è possibile» sussurrò Claudio Mazzagrossa, quasi piangendo. Era ricoverato ormai da una settimana: esattamente dalla sera del lunedì che avrebbe dovuto inaugurare una settimana di follie erotiche con la mogliettina del professore. Invece, anziché l'avvenente signora, appena entrato in casa s'era trovato faccia a faccia con quattro figuri che non gli avevano nemmeno dato il tempo per dire be'. «Ci manda il professore» aveva detto uno. Gli altri tre, intanto, l'avevano immobilizzato, legato per benino e, giusto per fargli intendere che era meglio se avesse collaborato, gli avevano mollato un paio di colpi al costato e uno sul naso che l'avevano spedito nel mondo di là per un quarto d'ora. Al risveglio s'era ritrovato completamente nudo, depilato in ogni parte del corpo e ormai anche quasi completamente pelato. Aveva tentato un minimo di reazione, ma un nuovo colpo alla schiena l'aveva ridotto all'immobilità. «Fermo», gli aveva detto uno, accento meridionale, «che sennò il lavoro viene male.» C'era voluta un'ora buona nel corso della quale il Mazzagrossa aveva sofferto le pene dell'inferno. Trascorso quel tempo l'avevano rimesso in piedi e, nudo com'era, l'avevano accompagnato alla porta di casa, congedandolo con un calcio nel sedere. Era notte. Acciaccato, dolorante e con la testa in fiamme, il Mazzagrossa aveva camminato come un sonnambulo in direzione di Velletri sino a quando era stato notato da una guardia notturna che aveva immediatamente avvisato i carabinieri. Costoro, dopo averlo individuato, l'avevano circondato, fermato e coperto, dopodiché, pensando di aver a che fare con un alienato, l'avevano portato immediatamente all'ospedale. Per quella notte il Mazzagrossa non era stato in grado di spiccicar parola. Solo la mattina seguente era riuscito a declinare le proprie generalità a un carabiniere che era rimasto a piantonarlo. I militari avevano immediatamente effettuato il riscontro dell'informazione, con esito stupefacente. Claudio Mazzagrossa trovavasi a Bellano, un paesino sul lago di Como, aveva dichiarato la signora Mazzagrossa interpellata in vece del marito lontano da Roma per ragioni di affari. Claudio Mazzagrossa sono io, aveva ribadito il giovanotto. Ah sì? aveva ironizzato un brigadiere dell'Arma. E questo qui fuori è il lago di Como!, aveva detto indicando il panorama collinare che si vedeva dalla stanza del ricoverato. Per un istante il Mazzagrossa aveva pensato al suo amico Ofelio che stava facendo le sue veci sul lago di Como. Chissà! Ma di ben altro doveva preoccuparsi adesso. Aveva chiesto che accompagnassero sua madre in ospedale, affinché lo riconoscesse...
Quando lo vide la madre!
Ofelio rivolse un pensiero alla sua, di madre, chiedendole di pregare per lui. Poi spinse la leva dell'acceleratore. La carlinga iniziò a vibrare, la prua dell'idro piegò a sinistra. Diede un colpo alla pedaliera di destra. Troppo forte, il muso virò a destra. «Calma» mormorò. Mollò il piede, l'idro si rimise in asse. L'indicatore di velocità all'aria segnava trenta chilometri orari. Era ora di spingere in avanti il volantino affinché il velivolo cominciasse a planare sull'acqua. Mise la mano sullo strumento. Poi diede un rapido sguardo al perfetto panorama che aveva all'intorno: un acquerello. Quindi pigiò sul volantino. Ai cinquanta chilometri orari l'idro prese a planare. Sessanta. Settanta. Ottanta chilometri orari. Il momento cruciale era giunto. «Rilasciare la pressione sul volantino e poi iniziare a tirarlo» ripeté il Mencioni. Fece così. La velocità raggiunse i novanta chilometri orari. L'ora era giunta. L'idro cominciò a staccarsi dall'acqua, poi spiattellò una, due, tre volte. Normale. Adesso, però, si doveva staccare. Lo fece. Nel corso dell'ultimo minuto Ofelio s'era dimenticato di respirare. Inalò un quintale di aria. L'idro ripiombò sull'acqua. Cazzo! S'era dimenticato di restituire un po' di volantino in avanti. Il velivolo aveva assunto un assetto troppo cabrato, era ricaduto. La velocità era attorno agli ottanta chilometri orari. Spiattellò ancora un paio di volte poi riprese a staccarsi. Saliva. Stava salendo.
«Dai bello, dai bello» gridò come un forsennato il Mencioni.
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