|
|
| << | < | > | >> |IndicePresentazione di Mahmoud Hussein 7 I. Il Cairo brulica di voci. Lo sbarco francese e la presa di Alessandria 13 II. Gli egiziani si preparano a resistere. I francesi avanzano verso il Cairo 21 III. I francesi si installano al Cairo. La disfatta navale di Aboukir 51 IV. Si instaura una nuova anuninistrazione 63 V. La rivolta del Cairo 79 VI. Dopo la tempesta, la calma torna al Cairo 89 VII. La guerra si estende all'Alto Egitto 103 VIII. Gli egiziani scoprono le nuove tecniche europee 115 IX. La vita quotidiana al Cairo 123 X. I francesi scoprono l'Egitto eterno 137 XI. Bonaparte intraprende la campagna di Siria-Palestina 159 XIII. L'armata francese si addentra sempre più a Sud 165 XIV. Il Cairo tra due guerre. I combattimenti proseguono nell'Alto Egitto e in Siria-Palestina 179 XV. Il ritorno di Bonaparte al Cairo 217 XVI. Aboukir, l'ultima battaglia di Bonaparte 227 XVI. La partenza di Bonaparte 235 Dopo Bonaparte di Mahmoud Hussein 239 Glossario 252 |
| << | < | > | >> |Pagina 7L'Armata francese sbarca in Egitto, vicino ad Alessandria, il due luglio 1798, dopo una straordinaria partita a nascondino di un mese e mezzo con la flotta inglese nel Mediterraneo. Fino al giorno in cui lascia definitivamente il paese, tre anni più tardi, vi combatterà senza tregua. Essa dovrà affrontare l'ostilità del popolo minuto del Cairo, aizzato dai notabili e dai capi religiosi; l'accanitnento dei bey mamelucchi rifugiati nell'Alto Egitto; gli assalti ripetuti delle truppe della Sublime porta; e il blocco imposto dagli inglesi, dopo aver distrutto la flotta francese al largo di Aboukir il primo di agosto. Isolata dalla Francia, l'arrnata di Bonaparte è intrappolata nella sua conquista. Essa riporta sul terreno brillanti vittorie, che non saranno però mai decisive. La sua superiorità tecnica e tattica è schiacciante, ma è strategicamente costretta sulla difensiva. Bonaparte non può più mantenere la formidabile scommessa della partenza: quella di fare dell'Egitto la prima tappa di un Impero mondiale dei Lumi. Tre mesi dopo il suo arrivo, decide di rientrare in Francia, dove la crisi del Direttorio gli apre nuovi orizzonti. Lascia il paese di notte, nel più gran segreto, sperando di eludere la sorveglianza dell'ammiraglio Nelson. La sua leggendaria stella lo guiderà senza intoppi sino a Frejus. Comincia infine l'epopea imperiale, ma l'Egitto non vi avrà più posto. Perché Bonaparte ha intrapreso questa folle avventura? Gli storici divergono sull'interpretazione dei suoi motivi personali, quanto d'altronde sull'importanza degli interessi, dei calcoli, dei malintesi, il cui improvviso intrecciarsi ha spinto il Direttorio ad affidare questa missione all'impaziente generale. Ma il nostro proposito, qui, non è quello di situare la spedizione francese nella carriera di Bonaparte. È quello di valutare la portata di questa spedizione negli spiriti e nell'immaginario di coloro che l'hanno vissuta, così come negli insegnamenti rispettivi che ne hanno ricavato per il futuro gli egiziani e i francesi. Ben al di là delle intenzioni personali di coloro che hanno condotto la spedizione, ha avuto luogo un evento di enorme portata, dal quale l'Egitto e la Francia escono per sempre diversi perché il rispettivo sguardo sul mondo ne esce trasformato. L'Egitto vedrà ormai diversamente l'avvenire. E la Francia, diversamente il passato. Il primo ha avvertito il soffio dell'uragano del 1789, portatore delle idee di libertà individuale, di uguaglianza dei diritti, di onnipotenza della ragione. La seconda, scoprendo l'Egitto dei faraoni, ha infine trovato le sorgenti di una Storia dell'umanità che non è più cristiana o europea, ma universale. Da questo incrocio di due prospettive contrarie, da questo incontro inedito in uno stesso spazio di due tempi che non si toccano, ci sono pervenute due testimonianze giorno per giorno, due cronache che è sufficiente mettere a confronto per vedere apparire la trama di una avventura unica. Vivant Denon e Abdel Rahman el-Gabarti si trovarono nella posizione ideale per restituirne l'ambivalente verità. Non avendo dovuto portare le armi, restarono ciascuno nel seno del proprio campo, più vicino possibile al campo avverso. È per questo che oggi, leggendoli insieme, sembra di sentirli dialogare, all'insaputa dei rispettivi compatrioti, su un avvenimento che li oppone e li unisce allo stesso tempo. Un avvenimento del quale, molto più nettamente della maggior parte dei loro contemporanei, avvertirono le conseguenze a venire. | << | < | > | >> |Pagina 45Vivant DenonAvevamo, in verità, cacciato i mamelucchi; ma, al nostro arrivo, provando ogni sorta di bisogni, cacciandoli, non li avevamo sostituiti? E questi arabi beduini, male armati, senza resistenza, non avendo per baluardo che sabbie mobili, per linea che lo spazio, per ritirata l'immensità, chi potrà vincerli o contenerli? Cercheremo di sedurli offrendo loro terre da coltivare? Ma i contadini d'Europa che diventano cacciatori smettono per sempre di lavorare la terra; e il beduino è un cacciatore primitivo; la pigrizia e l'indipendenza sono i fondamenti del suo carattere; e per soddisfare e difendere l'una e l'altra, si muove senza sosta, e si lascia assillare e tiranneggiare dal bisogno. Non possiamo dunque offrire niente ai beduini che possa equivalere al vantaggio di derubarci; e questo calcolo è sempre la base dei loro trattati. L'invidia, flagello da cui non va esente la dimora stessa del bisogno, incombe ancora sulle sabbie brucianti del deserto. I beduini guerreggiavano con tutti i popoli dell'universo, non odiavano e non invidiavano che altri beduini che non erano della loro stessa orda; essi s'impegnano in tutte le guerre, e si mettono in movimento nel momento in cui una disputa interna o un nemico straniero vengono a turbare la quiete dell'Egitto, e, senza legarsi all'uno o all'altro dei partiti, approfittano delle loro liti per saccheggiarli entrambi. Quando scendemmo in Africa, essi si mescolarono a noi, e avrebbero saccheggiato gli alessandrini, se fossero venuti a farsi battere fuori dalle loro mura. Là dov'è il bottino, là è il nemico dei beduini; sempre pronti a trattare, poiché gli accordi sono legati a dei doni, non conoscono altro impegno che la necessità. La loro crudeltà non ha tuttavia nulla di atroce; quelli che sono stati loro prigionieri, descrivendo i mali che avevano sofferto durante la prigionia, li consideravano piuttosto una conseguenza del modo di vivere di questa nazione che un risultato della loro barbarie. Alcuni, che erano stati loro prigionieri, mi hanno detto che il lavoro che avevano dovuto fare non aveva niente d'eccessivo o di crudele; essi obbedivano alle donne, caricavano e conducevano gli asini e i cammelli; bisognava per la verità accamparsi o svignarsela da un momento all'altro; la tenda veniva piegata, e si era sulla strada in un quarto d'ora al massimo. Del resto, le suppellettili consistevano in un macinagrano e in un macinacaffé, una piastra per cuocere le focacce, una caffettiera grande e una piccola, e qualche otre, alcuni sacchi di grano, e la tela della tenda che serviva ad avvolgere tutto ciò. Un pugno di grano arrostito e dodici datteri erano la razione comune dei giorni di marcia, e un po' d'acqua, che, vista la sua rarità, era già servita a tutto prima di essere bevuta; ma questi ufficiali, non avendo avuto l'anima segnata da un qualche cattivo trattamento, non conservavano alcun ricordo amaro della condizione disgraziata che avevano dovuto condividere. Senza pregiudizi di religione, senza culto esteriore, i beduini sono tolleranti. Alcuni costumi molto rispettati servono da legge; i loro principi somigliano a virtù sufficienti alle loro imperfette associazioni, e al loro governo patriarcale. | << | < | > | >> |Pagina 58Vivant Denon[...] Trascorrevo il mio tempo alla torre d'Abou-Mandour; contai venticinque bastimenti, di cui la metà non erano più che dei cadaveri mutilati, e i rimanenti si trovavano nell'impossibilità di manovrare per soccorrerli: tre giorni restammo in questa crudele incertezza. Il cannocchiale in mano, avevo disegnato i disastri, per rendermi conto se l'indomani non avrebbe potuto portare un qualche cambiamento. Respingevamo l'evidenza con la mano dell'illusione. Ma lo stretto chiuso, e la comunicazione da Alessandria intercettata, ci rivelarono che la nostra esistenza era cambiata; che, separati della metropoli, eravamo diventati dei coloni, obbligati fino alla pace a sostentarci con i nostri mezzi. Apprendemmo ancora che la flotta inglese aveva aggirato le nostre linee, che non erano appoggiate abbastanza solidamente all'isola che doveva difenderle; che i nemici avevano preso con una doppia linea i nostri vascelli uno dopo l'altro, e questa manovra, che invalidava l'insieme delle nostre forze, ne aveva reso la metà spettatrice della distruzione dell'altra; apprendemmo che era l' Orient che era saltato alle dieci; che era l' Ercule che era saltato l'indomani; che coloro che comandavano i vascelli Guillaume Tell e il Généreux, e le fregate Diane e Justice, vedendo le altre navi in potere del nemico, avevano approfittato di un suo momento di stanchezza per sfuggire ai suoi colpi concentrati. Apprendemmo infine che il quattordici fruttidoro aveva spezzato il bell'insieme delle nostre forze e della nostra gloria; che la nostra flotta distrutta aveva restituito al nostri nemici l'impero del Mediterraneo, impero che gli avevano strappato le imprese incredibili delle nostre armate di terra, ma che solo l'esistenza dei nostri vascelli ci avrebbe conservato. La nostra posizione era completamente cambiata: di fronte al rischio di essere attaccati, fummo obbligati a dei preparativi di difesa; si fortificò l'entrata del Nilo, si piazzò una batteria su una delle isole, si ispezionarono tutti i punti. | << | < | > | >> |Pagina 63Vivant Denon Ero al Cairo già da quasi un mese, e andavo ancora cercando questa città superba, questa città santa, grande tra le grandi, questa delizia del pensiero, dove il fasto e l'opulenza fanno sorridere il profeta; poiché è così che ne parlano gli Orientali. Vedevo effettivamente un'innumerevole popolazione, ampi spazi da attraversare, ma non una bella strada, non, un bel monumento: una sola vasta piazza, ma che ha l'aria d'un campo, era Lelbequier, quella dove abitava il generale Bonaparte, che, al momento dell'inondazione, era piacevole per la frescura e le passeggiate che vi si facevano la notte in battello; palazzi cinti da mura, che rattristavano le strade più di quanto non le abbellissero; l'abitazione del povero, più trascurata che altrove, aggiunge a ciò che la miseria ha di più affliggente ovunque quel che qui il clima permette di incuria e di negligenza. Si era sempre tentati di domandare quali fossero, dunque, le case dove abitavano i ventiquattro sovrani. Tuttavia, quando si è penetrati in queste specie di fortezze, vi si trova qualche comodità, qualche ricerca di lusso e di piacere, graziosi bagni in marmo, bagni turchi voluttuosi, saloni con mosaici, al centro dei quali sono delle vasche e dei getti d'acqua; grandi divani, composti da tappeti felpati, larghe pedane imbottite, coperte di stoffe ricche e circondate di magnifici cuscini; questi divani occupano normalmente i tre lati del fondo della camera. Le finestre, quando ve ne sono, non si aprono mai, la luce che arriva è schermata da vetri colorati davanti a inferriate molto strette; la luce principale arriva da una cupola al centro del tetto. I musulmani, estranei a tutti gli usi che facciamo della luce, hanno molto poca cura di procurarsela. Sembra in generale che tutti i loro costumi invitino al riposo; i divani, dove si sta più coricati che seduti, dove si sta assai comodi, e dove alzarsi è un problema; i vestiti, dei quali i principali sono delle gonne in cui le gambe sono strette; le grandi maniche che coprono otto pollici oltre la fine delle dita; un turbante che non consente di abbassare la testa; l'abitudine di tenere in una mano una pipa del cui fumo si inebriano, e nell'altra un rosario del quale lasciano scorrere i grani tra le dita; tutto ciò distrugge ogni attività, ogni immaginazione. Essi sognano senza oggetto, fanno senza gusto ogni giorno la stessa cosa, e finiscono per aver vissuto senza aver nemmeno tentato di variare la monotonia della loro esistenza. Gli individui che hanno bisogno di impegnarsi in qualche lavoro non sono diversi dai grandi di cui ho appena finito di parlare; questi hanno abituato quelli a non attendere niente dal loro operare che non sia la routine di tutti i giorni. Così non escono mai dal consueto, non inventano alcun modo per fare meglio, non cercano neppure quelli che già sono stati inventati, e rigettano tutti quelli che li obbligano a stare in piedi, cosa per la quale nutrono il massimo dell'avversione; i falegnami, i fabbri, i carpentieri, il maniscalco, lavorano seduti; il muratore stesso tira su un minareto senza mai stare in piedi. Come i selvaggi, non hanno molti utensili; si resta stupiti dall'uso che ne sanno fare e si sarebbe tentati di attribuirgli un'abilità se, ritornando continuamente al loro costume, non vi inducessero presto a pensare che, simili all'insetto di cui si ammira il lavoro, non si tratta che di un istinto da cui non è loro possibile discostarsi. Il dispotismo che comanda sempre e non ricompensa mai, non è la fonte e la causa permanente di questa stagnazione dell'industria? Ho visto in seguito, nell'Alto Egitto, gli arabi artigiani, allontanati dal loro padrone, venire a cercare i nostri soldati operai, lavorare con loro, offrirci i loro servigi, e, per un salario proporzionato, sforzarsi di soddisfarci, e ricominciare il lavoro per riuscirci; guardare con entusiasmo l'effetto del mulino a vento e l'azione di un battipalo con lo stupore dell'ammirazione. Forse è un segreto sentimento di pigrizia che ispira loro questa ammirazione per le due macchine che suppliscono a tutto ciò che necessita il loro più gravoso lavoro: sollevare le acque e fare delle dighe per contenerle. Costruiscono meno che possono; non riparano mai nulla: un muro minaccia di rovinare, lo abbattono; se crolla, sono alcune camere di meno nella casa; si sistemano accanto alle macerie. L'edificio infine cade, ne abbandonano il suolo, o, se sono obbligati a sgomberare il posto, portano i calcinacci il meno lontano possibile; è questo modo di fare che innalza intorno a quasi tutte le città d'Egitto, e particolarmente del Cairo, non già monticelli, ma montagne di macerie, da cui l'occhio del viaggiatore è sorpreso, e delle quali non può a tutta prima farsi una ragione. | << | < | > | >> |PaginaAbdel Rahman el-Gabarti Quando la calma fu ristabilita, i cristiani siriani e greci della via Djouania ne approfittarono per vendicarsi dei musulmani. Andarono in gruppo dal generale per lamentarsi dei saccheggi dei quali erano stati vittime durante la sommossa. Gli dissero che erano stati maltrattati e rapinati solo perché erano cristiani come i francesi. Ma avevano dimenticato che i musulmani che abitavano vicino al loro quartiere avevano subito la stessa sorte. In effetti, il grande deposito di stoffe situato all'entrata della via greca era stato saccheggiato, benché tutte le merci che vi si trovavano appartenessero a musulmani. Tuttavia, nessuno di questi ultimi reclamò e rimisero la propria sorte nelle mani di Dio. D'altronde, i musulmani sapevano molto bene che nessuno avrebbe ascoltato i loro lamenti. Barthelémy fu incaricato di impedire che si portassero armi. Condusse i suoi uomini in giro per tutta la città. Questi arrestavano chi pareva loro opportuno oppure chiunque gli fosse denunciato dai cristiani. Barthelémy faceva ciò che voleva di quella gente; imponeva loro delle forti ammende a suo profitto, li faceva garrotare o li gettava in prigione. Là, li torturava per strappare loro confessioni e indicazioni sugli oggetti saccheggiati e le armi nascoste. Molti di questi infelici denunciavano altri infelici che ci si affrettava ad arrestare per far loro subire gli stessi trattamenti. In una parola, questo Barthelémy commise gli stessi orrori dell'aga maledetto. Molte persono furono sgozzate, e i loro cadaveri furono gettati nel Nilo. Dio solo sa quante persone morirono in quei giorni. In questo modo, i cristiani poterono vendicarsi a loro agio dei musulmani. | << | < | > | >> |Pagina 123Abdel Rahman el-Gabarti Lunedì, sedici del mese (24 dicembre 1798), il generale in capo Bonaparte partì per Suez. Era accompagnato da said Ahmed el-Mahrouki, da Ibrahim effendi, segretario del babar, da parecchi dei suoi ufficiali, da ingegneri e da pittori. Dierdjas el-Djohari, Antoun Abou Takia e altri erano pure con lui. Egli portò anche molti soldati, cavalieri e fantaccini. Fece prendere cannoni, carri e una grande quantità di munizioni trasportate a dorso di cammello. Quel giorno, si cominciò su nuove basi la riorganizzazione del divano. I francesi designarono sessanta persone, di cui ventiquattro dovevano comporre quel che si chiamava il divano permanente, gli altri dovevano riunirsi di tanto in tanto secondo le esigenze del servizio. Si aggiunsero a questi membri dei commissari francesi e dei drogman.
Quanto al divano generale, era composto nella maggior
parte dai capi delle corporazioni industriali. Si redasse
per l'istituzione di questo divano un regolamento che si
distribuì a tutti i notabili del paese, se ne affissero come
d'abitudine un gran numero di copie in tutte le strade. Si
inviarono a tutti i membri lettere di convocazione. Si
allegò a queste lettere una copia dell'introduzione del
regolamento, redatta sotto forma di circolare emanata dal
generale in capo Bonaparte. Questa introduzione non aveva
certo altro scopo che quello d'impressionare vivamente gli
spiriti; essa è lunga e piena di pretese, ispirata da una
immaginazione distorta, come ci si può rendere conto a prima
vista. Eccone il testo:
Nel nome del Dio clemente e misericordioso! Da parte del capo dell'armata francese a tutti gli abitanti dell'Egitto. Vi facciamo sapere che alcuni individui privi di spirito di scienza, non prevedendo le conseguenze delle cose, hanno causato turbamenti e disordini tra la popolazione del Cairo; così Dio li ha fatti sparire a causa delle loro azioni e delle loro malvagie intenzioni. Il Creatore, Altissimo, mi ha ordinato la compassione e la clemenza verso le Sue creature; ho eseguito i Suoi ordini, e sono stato clemente verso di voi: vi ho perdonato. Ho provato un vivo dolore per questi disordini, così ho soppresso il divano da me istituito per amministrare il paese e regolare i vostri affari. Due mesi sono già trascorsi da questa soppressione. Ora la nostra benevolenza per voi ci induce a ristabilire questo divano tal quale era all'inizio, perché la vostra buona condotta e i buoni sentimenti che avete manifestato in questi ultimi tempi ci hanno fatto dimenticare i vostri errori precedenti e la rivolta che aveva turbato tutti gli spiriti. Ulemas, sceriffi notabili, dite alla vostra gente che colui che si solleverà contro di me e mi attaccherà non farà che dimostrare la sua follia, e che non troverà né appoggio né asilo che possa difenderlo da me in questo mondo, che Dio Stesso farà cadere i rivoltosi nelle mie mani. Che si sappia che noi non facciamo niente che non sia stato previsto da Dio, nella Sua alta saggezza e nelle Sue sentenze irrevocabili. Colui che manifesterà su questo il minimo dubbio dimostrerà quanto è cieco e sprofondato nelle tenebre profonde dell'ignoranza. Fate sapere anche alla popolazione che Dio si serve del mio braccio per prendere i nemici dell'islam e per spezzare tutte le croci. Egli ha mostrato questa potenza facendomi venire dall'Occidente verso la terra d'Egitto, al fine di distruggere coloro che avevano stabilito l'oppressione e la tirannia; Egli Stesso ha dettato le sentenze della Sua giustizia e il mio braccio le ha eseguite. | << | < | > | >> |Pagina 152Arrivammo a Tintyra. Il primo edificio che vidi fu un piccolo tempio a sinistra del cammino, di un così brutto stile e di così cattive proporzioni, che lo giudicai da lontano non essere che le rovine di una moschea. Voltandomi a destra, trovai seppellita dalle più desolate rovine una porta costruita con massi enormi coperti di geroglifici; attraverso questa porta vidi il tempio.Vorrei riversare nell'anima dei miei lettori la sensazione che provai. Ero troppo sorpreso per giudicare; tutto ciò che avevo visto sino ad allora di architettura non poteva servire a orientare qui la mia ammirazione. Questo monumento mi parve mostrare un carattere primitivo e avere per eccellenza quello di un tempio. Pieno com'era, il sentimento di rispetto silenzioso che m'impose, me ne parve una prova; e, senza parzialità a favore dell'antico, questo fu il sentimento che impose a tutta l'armata. Niente di più semplice e di meglio calcolato che le poche linee che componevano questa architettura. Gli egiziani, non avendo preso in prestito nessuno ornamento dagli altri, non hanno aggiunto alcun ornamento straniero, alcun orpello a ciò che era dettato dalla necessità. Ordine e semplicità sono stati i loro principi fìno al sublime. Pervenuti a questo sommo risultato, hanno dato una tale importanza a non alterarlo che, sebbene abbiano sovraccaricato gli edifici di bassorilievi, di iscrizioni, di tavole storiche e scientifiche, nessuna di queste ricchezze taglia una sola linea; sono rispettate; sembrano sacre. Tutto ciò che è ornamento, ricchezza, sontuosità osservato da vicino, spariva da lontano per non lasciar vedere che il principio, che è sempre grande e sempre dettato da una ragione potente. Non piove mai in questo clima; non servono dunque che delle piattebande per coprire e per dare ombra; dunque, né tetti, né frontoni. La scarpa è il principio della solidità; essi l'hanno adottato per tutto ciò che è portante, stimando senza dubbio che la fiducia è il primo sentimento che deve ispirare l'architettura, ed è una delle qualità che ne determina la bellezza. Presso di loro l'idea dell'immortalità di Dio è presentata dalll'eternità del suo tempio; i loro ornamenti, sempre ragionate, sempre coerenti, sempre significativi, dimostrano anche principi sicuri, un gusto fondato sul vero, una consequenzialità di ragionamenti e, quand'anche non avessimo acquisito la convinzione del grado al quale erano pervenuti nelle scienze astratte, la loro sola architettura, nello stato in cui l'avevamo trovata, ci avrebbe dato l'idea dell'antichità di questo popolo, della sua cultura, del suo carattere, della sua gravità. Non avevo un'espressione adeguata, come ho già detto, per rendere tutto ciò che provavo quando fui sotto il portico di Tintyra; credetti d'essere realmente nel santuario delle arti e delle scienze. Quante epoche si presentarono alla mia immaginazione, alla vista di un tale edificio! Quanti secoli erano occorsi per portare una nazione creatrice a simili risultati, a questo grado di perfezione e di sublimità nelle arti! Quanti altri secoli per generare l'obho di queste cose, e riportare l'uomo sullo stesso suolo allo stato di natura in cui l'avevamo trovato! Mai tanto spazio nello stesso punto; mai i passi del tempo più evidenti e meglio seguiti. Quale duratura potenza, quale ricchezza, quale abbondanza, quale eccedenza di mezzi deve possedere il governo che può fare innalzare un tale edificio, e che trova nella nazione degli uomini capaci di concepirlo, di eseguirlo, di decorarlo, di arricchirlo di tutto ciò che parla agli occhi e allo spirito! Mai il lavoro degli uonúni mi aveva presentato questi mezzi in maniera così ravvicinata, così antichi e così grandi. Nelle rovine di Tintyra gli egiziani mi parvero dei giganti. | << | < | > | >> |Pagina 208Vivant DenonNoi che ci vantiamo di essere più giusti dei mamelucchi, commettiamo quotidianamente e quasi necessariamente numerose ingiustizie; la difficoltà nel distinguere i nostri nemici dal sembiante e dal colore ci fa uccidere tutti i giorni contadini innocenti; i soldati incaricati di andare in avanscoperta non mancavano mai di prendere per meccaini i poveri commercianti che arrivavano in carovana, e prima che giustizia fosse loro resa (quando c'era il tempo di rendergliela), c'erano già stati due o tre fucilati; una parte del loro carico era stato saccheggiato o rovinato, i loro cammelli scambiati con i nostri che erano feriti; e il profitto di tutto ciò andava, in ultima analisi, agli inservienti, ai copti e agli interpreti, le sanguisughe dell'armata, poiché il soldato pur nutrendo sempre il desiderio di arricchirsi, ne è distolto dal tamburo dell'adunata o dalla tromba del buttasella. La sorte degli abitanti, per la felicità dei quali eravamo venuti in Egitto, non era migliore: se, al nostro arrivo, la paura li spingeva a lasciare le case, quando vi rientravano dopo il nostro passaggio, non vi trovavano che il fango di cui sono fatte le mura; utensili, aratri, porte, tetti, tutto era servito a fare il fuoco per la minestra; le stoviglie erano state spaccate, le granaglie mangiate, le galline e i piccioni arrostiti; non restavano che i cadaveri dei cani, che avevano voluto difendere la proprietà dei loro padroni.
Se ci fermavamo nel loro villaggio, si intimava a quegli
infelici di ritornare, pena l'essere trattati come ribelli
complici dei nostri nemici e di conseguenza costretti al
doppio del tributo; e quando cedevano di fronte alle minacce
e venivano a pagare l'imposta, accadeva talvolta che si
scambiasse il loro gran numero per un'adunata nemica e i
loro bastoni per armi, e subivano sempre qualche scarica di
fucile prima d'essersi potuti spiegare. I morti venivano
sepolti e si restava amici fino a che una qualche occasione
non offriva alla vendetta una rivincita sicura. È vero che
se restavano, pagavano l'imposta, e fornivano quanto
necessario ai bisogni dell'armata, questo risparmiava loro
la pena del viaggio e del soggiorno nel deserto; vedevano
mangiare le loro provviste con ordine, e potevano mangiarne
una parte, conservavano qualche porta, vendevano le uova ai
soldati e poche donne o figlie venivano violentate: ma così
si trovavano colpevoli per l'accoglienza che ci avevano
riservato, di modo che, quando i mamelucchi ci succedevano,
non lasciavano loro un scudo, non un cavallo, non un
cammello; e spesso lo sceicco pagava con la testa la
supposta scelta di campo che gli si imputava. Era
urgentissimo che un simile stato di cose finisse, e che si
potesse organizzare un ordine diverso. Ma come pervenirvi
se i mamelucchi non volevano battersi, e le bande fanatiche
e affamate come i meccaini si univano a loro?
|