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| << | < | > | >> |Indice9 Agli uomini giovani senza amanti 13 Della fede e della benevolenza 21 Della guerra e della prostituzione 33 Dell'orgoglio a tredici anni 43 Delle adolescenti 55 Del coraggio e del cercar consigli 67 Del diventare un amante 75 Della promiscuità e della solitudine 81 Dell'amore vano e non corrisposto 91 Del segreto di Don Giovanni 103 Del prendersela comoda 117 Delle vergini 129 Del peccato mortale della pigrizia 133 Delle madri di bambini piccoli 149 Dell'ansia e della ribellione 165 Della felicità con una donna frigida 185 Delle donne adulte che sono ancora adolescenti 199 Quando è troppo è troppo |
| << | < | > | >> |Pagina 13Tutto ci viene dagli altri... Essere è appartenere a qualcuno. Jean-Paul Sartre Sono nato in una famiglia di cattolici devoti e ho trascorso gran parte dei miei primi dieci anni di vita in compagnia di benevoli monaci francescani. Mio padre era il preside di una scuola cattolica e un abile organista; un uomo giovane, attivo e dotato che aveva anche l'energia e l'inclinazione adatte a dirigere la Milizia Territoriale e impegnarsi in politica. Sostenitore del regime autoritario e filoclericale dell'ammiraglio Horthy, era uno di quei conservatori che si opponevano anche al fascismo e, preoccupato per l'ascesa al potere di Hitler in Germania, si servì della propria influenza e autorità per bandire le riunioni locali del Partito nazista ungherese. Nel 1935, quando avevo due anni, venne pugnalato a morte da un nazista adolescente appositamente scelto poiché, non essendo ancora diciottenne, non avrebbe potuto essere condannato a morte. Dopo i funerali, mia madre fuggì all'orrore della sua perdita nella grande città più vicina, la più antica dell'Ungheria il nome ve lo risparmio (anzi ve lo dico: si chiamava Székesfehérvár). Affittò un arioso appartamento al secondo piano in una delle principali vie cittadine - una strada stretta tra chiese barocche e negozi alla moda - a pochi minuti a piedi dal monastero francescano che cominciai a frequentare prima ancora di raggiungere l'età scolare. I servigi che mio padre aveva reso alla chiesa e la sua scomparsa prematura, oltre al fatto che in entrambi i rami della nostra famiglia c'erano parecchi preti, mi resero caro ai padri, che mi offrirono sempre una calda accoglienza. Mi insegnarono a leggere e scrivere, mi parlarono delle vite dei santi e dei grandi eroi della storia d'Ungheria, mi raccontarono delle remote città dove avevano studiato Roma, Parigi, Vienna , ma soprattutto ascoltavano tutto quello che mi veniva in mente di dire. Così, invece di avere un solo padre, crebbi con un intero ordine di padri. Ebbero sempre per me un sorriso caldo e comprensivo, e io ero solito percorrere i corridoi ampi e freddi del loro monastero come se il luogo mi appartenesse. Conservo della loro amorevole compagnia un ricordo altrettanto vivido di quello che ho di mia madre, sebbene, come ho già detto, abbia vissuto da solo con lei a partire dall'età di due anni. Era una donna tranquilla e tenera che riordinava tutto quello che lasciavo in disordine. Dato che non giocavo molto con altri bambini, non venivo mai coinvolto in litigi; e tra i monaci e mia madre, ero circondato da un amore fulgido e da un senso di assoluta libertà. Non credo che abbiano mai cercato di controllarmi o di formarmi, semplicemente mi guardavano crescere, e l'unica restrizione che avvertivo era la consapevolezza che tutti loro pregavano perché dessi il meglio di me. Ero anche ben cosciente di appartenere a una grande e splendida tribù, mi era consentito di pensare di essere l'orgoglio e la gioia di tutti i miei cari. Rammento in particolare una volta, quando gli zii erano venuti con le loro famiglie a trovare la sorella vedova in occasione del suo compleanno. C'era una grande animazione quella sera e io mi rifiutai di andare a dormire con gli altri bambini, mentre gli adulti rimanevano alzati a divertirsi. Così vennero tutti nella mia stanza a tenermi compagnia mentre mia madre mi metteva a letto. Quando mi spogliò, mi diede uno schiaffetto sul sedere e me lo baciò, promettendomi che, se poi fossi andato a letto senza altri capricci, lo avrebbero baciato tutti. Non avevo più di tre o quattro anni a quel tempo questo deve essere uno dei miei primissimi ricordi e ancora mi vedo bocconi sul letto, a guardare al di là delle mie spalle tutti quegli adulti che attendevano in fila il loro turno di baciarmi il sedere. Forse tutto questo aiuta a spiegare il fatto che io sia diventato un ragazzo dal cuore aperto e affettuoso, e un marmocchio presuntuoso. Dando per scontato che tutti mi amassero, trovavo naturale amare e ammirare tutti quelli che incontravo o di cui sentivo parlare. Questa mia felice propensione si rivolse da principio ai santi e ai martiri della Chiesa. All'età di sette o otto anni ero romanticamente determinato a diventare un missionario e, se possibile, un martire nelle risaie cinesi. Ricordo in particolare un pomeriggio soleggiato in cui, non avendo voglia di studiare, ero rimasto in piedi davanti alla finestra della mia camera a guardare le donne elegantemente vestite che passeggiavano avanti e indietro lungo la nostra via. Mi chiedevo se, diventando prete e votandomi al celibato, avrei trovato difficile affrontare il cammino della vita senza la compagnia di quelle dame vaporose che passavano davanti a casa nostra dirette dalla modista o dal parrucchiere per acquistare un aspetto ancora più angelico. La mia determinazione a divenire prete, quindi, si scontrò con il problema della rinuncia alle donne prima ancora che avessi potuto desiderarle. Dopo avere provato vergogna per questa mia preoccupazione per un certo tempo, alla fine mi risolsi a chiedere al mio padre confessore, un uomo sulla sessantina con i capelli grigi e l'aspetto semplice, quanto costasse a lui vivere senza una compagnia femminile. Mi guardò severo e limitò la sua risposta all'osservazione che non pensava sarei mai diventato prete. Fui sconcertato nel vedere così svilita la mia determinazione solo perché avevo voluto conoscere l'entità del sacrificio - e temetti di piacergli di meno. Ma lui tornò di buon umore e mi disse con un sorriso (non fu mai avaro di incoraggiamenti) che c'erano molti modi per servire Dio. Ero solito fargli da chierichetto alla messa: era mattiniero, gli piaceva dire messa alle sei, e spesso, nell'immensa cattedrale, c'eravamo solo io e lui, consci della misteriosa e onnipotente presenza di Dio. E sebbene io ora sia ateo, ricordo e conservo ancora quella sensazione di estasi, e le quattro candele nel freddo silenzio marmoreo, pieno di echi. Fu lì che imparai a percepire e amare il mistero elusivo una propensione che le donne hanno fin dalla nascita, e agli uomini è concesso acquisire, se sono fortunati. Se mi attardo su questi frammenti di ricordi, ma ancora così vivi in me, è in parte perché mi rallegra ripensarci, e in parte perché sono anche convinto che molti ragazzi rovinino i loro anni migliori e il loro carattere con l'erroneo convincimento che si debba essere dei duri per diventare uomini. Entrano nelle squadre di calcio o di hockey per sentirsi grandi, mentre di fatto una chiesa vuota o una strada di campagna deserta li aiuterebbe maggiormente a capire il mondo e loro stessi. Spero che i francescani mi perdonino se dico che non sarei mai stato capace di comprendere e amare tanto le donne, se la Chiesa non mi avesse insegnato l'estasi e il rispetto della sacralità. Per tornare alla questione del celibato, all'inizio dei turbamenti di un giovane cattolico, debbo dire che le donne che vedevo dalla finestra del nostro appartamento non erano le sole responsabili delle mie inquietudini precoci. Così come ero ammesso a partecipare alla vita di un gruppo di uomini nel monastero, a casa ero spesso il benvenuto in una comunità tutta femminile. Ogni settimana mia madre organizzava un tè per le sue amiche, vedove e zitelle della sua età, tra i trenta e i quarant'anni. Ricordo che le affinità tra l'atmosfera del monastero e quella dei tè di mia madre mi colpivano come qualcosa di strano e meraviglioso. Sia i francescani sia le amiche di mia madre formavano una compagnia allegra e gioiosa apparentemente soddisfatta di vivere per conto proprio. Avevo l'impressione di essere l'unico legame umano tra questi due mondi indipendenti, ed ero fiero di essere bene accetto e di trovarmi così bene ín entrambi. Non potevo immaginare l'esistenza priva di uno dei due e qualche volta ancor oggi sono convinto che il miglior modo di vivere sarebbe quello di farsi frate francescano e avere un harem di donne quarantenni. Col tempo cominciai ad aspettare con sempre maggiore impazienza i pomeriggi in cui sarebbero arrivate le amiche di mia madre a prendermi la testa tra le loro mani calde e delicate, dicendomi quanto fossero scuri i miei occhi: essere toccato da loro o toccarle a mia volta era una gioia che mi dava le vertigini. Mi armavo del coraggio dei martiri per saltare loro al collo quando arrivavano, accogliendole con un bacio o un abbraccio. In tali occasioni molte di loro restavano sorprese o confuse. «Cielo, Erzsi, come è eccitabile il tuo ragazzo!» dicevano a mia madre. Alcune mi guardavano con sospetto, specialmente quando riuscivo a sfiorare loro i seni il che, per qualche ragione, era ben più emozionante che toccarne le braccia. Comunque questi incidenti sfociavano sempre in una risata; non ricordo di averle mai viste prestare attenzione a qualcosa troppo a lungo. Le amavo tutte, ma quella che aspettavo con maggior ardore era la sorella di mio padre, la zia Alice, una bionda leggermente paffuta dai seni grandi, con un profumo assolutamente delizioso e un bel viso tondo. Mi alzava il mento, poi, guardandomi negli occhi con finta severità e una certa civetteria, credo, mi ammoniva con voce dolce e decisa: «Θ ai miei seni che miri, demonio!» | << | < | > | >> |Pagina 67... un incantamento simile alla primavera! E non pensiate che io mi riferisca a qualcosa di diverso dall'amore nel suo significato strettamente fisico. Anche così, è il regno di pochi eletti. Alexander Kuprin Alla lunga riuscii a diventare padrone del posto d'onore. John Cleland Nel nostro palazzo, le porte degli appartamenti erano alte all'incirca tre metri, di legno spesso coperto di pittura bianca crepata, e su ognuna di esse c'erano quattro enormi cerchi concentrici con uno spioncino di vetro al centro. Il vetro e, dietro, il piccolo disco di latta gialla brillavano anche nella semioscurità del corridoio. Non udendo alcun suono dall'interno, eccetto l'eco del campanello che avevo appena suonato, cominciai a fissare il vetro luccicante e poi a far scorrere gli occhi sui cerchi in rilievo, seguendone il profilo, finché non prese a girarmi la testa. Dopo tutta quell'eccitazione e tanta preparazione mentale direi persino spirituale mi ero deciso a venire da Maya quando lei non era in casa. Mi appoggiai al pulsante del campanello con il palmo della mano, in preda alle vertigini. Ne uscì un suono forte, distorto e stonato, che era la perfetta espressione musicale del mio stato d'animo; ricordo che provai un certo piacere ad ascoltarlo. Se Maya era fuori, certo non era colpa mia. Non sarebbe stato necessario fare quella passeggiata fino al Danubio, dopo tutto. Bastò questo per rassicurarmi, mentre premevo il campanello senza interruzione, con la gaia baldanza che ci pervade quando affrontiamo un pericolo inesistente. Non potrei assolutamente descrivere l'effetto che ebbe su di me il suono dei passi lenti, leggeri che proveniva dall'interno l'unica cosa che posso dire è che in vita mia non ho mai più tenuto premuto un campanello per più di due secondi. Maya non guardava mai dallo spioncino, ma questa volta udii lo scatto del piccolo disco di latta, e abbassai la testa per evitare il suo sguardo. Aprì la porta ma non mi invitò a entrare come al solito. Rimase in piedi sulla porta tenendo chiusi con le mani i lembi della sua vestaglia gialla slacciata, e mi guardò, seccata e sonnolenta. «Mi dispiace» borbottai. «Non volevo svegliarla, pensavo che fosse fuori.» Represse uno sbadiglio. «Allora perché hai continuato a suonare?» Non sapevo cosa dire. perciò abbassai lo sguardo sui suoi piedi nudi. «Va bene, vieni dentro. Suppongo di aver dormito fin troppo.» Maya si voltò e io la seguii in casa, lungo lo stretto corridoio d'ingresso, che era spoglio, salvo che per qualche stampa giapponese alle pareti. La sua vestaglia di velluto era stropicciata, e da dietro la signora Horvath sembrava sciatta e poco attraente. Ma non permisi ai miei sensi di ingannarmi. La trovo poco attraente perché ho paura, pensai. In fondo al corridoio c'erano due porte: quella di sinistra portava in salotto, quella di destra in camera da letto. Lei chiuse la porta della camera, precludendomi la vista di un letto disfatto, e si diresse verso il salotto. Si sedette a disagio su una delle piccole poltrone e io rimasi in piedi, perfettamente consapevole di essere una seccatura. Di fatto quella situazione poco confortevole mi aiutò a parlare apertamente: per quanto mi spaventasse chiederle di fare l'amore con me, trovavo ancora meno plausibile intrattenere una donna mezza addormentata in una conversazione da salotto. Inspirai profondamente e la guardai negli occhi socchiusi. «Avevo deciso di buttarmi nel Danubio se oggi non le avessi chiesto di fare l'amore con me.» Mi chiesi se fosse il caso di aggiungere la frase con cui avevo pensato di introdurre il mio discorso, ma ora mi sembrava superfluo. Ero così sollevato per aver osato parlare, che al momento non mi parve nemmeno importante se avrebbe risposto di sì o di no. «Θ fatta allora. Me l'hai chiesto, così ora non dovrai ucciderti.» «Una volta mi ha detto che non dovevo preoccuparmi di rendermi ridicolo, che non era importante.» «Non è corretto citarmi a mio svantaggio.» Era così strano sentirla civettuola che udii la mia voce risponderle bruscamente. «Vuole che me ne vada? Vuole tornare a dormire?» «Sei troppo sfacciato... ma è una buona cosa» disse, mentre le si accendeva nello sguardo quella luce calda, il mio faro. Si alzò e mi regalò un bacio per la mia sfacciataggine. Non ero mai stato baciato così, e riuscii faticosamente a rimanere in piedi. Le infilai le mani sotto la vestaglia ora aperta, per aggrapparmi al suo corpo caldo. Avevo finalmente trovato l'approdo. Continuando a baciarmi, retrocesse in punta di piedi con me nella camera con il letto matrimoniale disfatto poi improvvisamente si ritrasse. «Devo mettermi il diaframma. E voglio farmi la doccia. La doccia calda sveglia i sensi.» Mi salutò con un leggero, rapido bacio sul naso, scomparve nella stanza da bagno. Non sapevo cosa fosse un diaframma, ma il fatto che volesse «risvegliare i sensi» per l'occasione mi ferì nell'orgoglio. Non dovevo proprio significare niente per lei, pensai, improvvisamente depresso. Poi, ascoltando il rumore della doccia, iniziai a camminare aventi e indietro nella stanza da letto, stupito che tutto fosse stato così semplice. Ero piuttosto fiero di me. Mi spogliai e mi misi sotto le coperte, lei tornò e scivolò al mio fianco. Mentre mi premeva il capo contro i seni sodi però soffici, baciandomi gli occhi chiusi, allungai una mano per toccare la sorgente calda del suo corpo. Si dice che prima di morire, uno riveda in un lampo tutta la sua vita. Sulle strade serpeggianti delle Alpi austriache, tra l'esercito russo e quello tedesco, avevo scoperto che la cosa era vera: un giorno, certo che la granata che sentivo sibilare nell'aria mi sarebbe finita in testa, avevo visto passare in un momento, come su uno schermo grande quanto il cielo, tutti gli eventi che si erano verificati nei miei undici anni e mezzo di vita. Sdraiato accanto a Maya, avvinghiato a lei, ebbi un'allucinazione simile questa volta non di fronte alla morte, ma alla vita. Rividi la piccola vicina di casa con cui giocavo al dottore e alla paziente a cinque anni. L'avevo completamente dimenticata, ma ora ero di nuovo con lei, e paragonavo la sua fessura appena percepibile con il mio piccolo gambo. La differenza tra noi era minima, ma sua madre ci schiaffeggiò con forza quando ci scoprì. Rividi le amiche vaporose di mia madre, e risentii il corpo della Contessa irrigidirsi quando mi ero avvicinato alla porta della doccia. Vidi l'ombra misteriosa che si mostrava attraverso la seta bianca delle mutandine di Frδulein Mozart, e sentii il corpo freddo e passivo della quindicenne Julika, che non ero riuscito a penetrare. Il ricordo del mio lungo viaggio tortuoso mi paralizzò e per alcuni, terribili attimi fui incapace di agire. Come se avesse capito quello che mi stava succedendo, Maya continuò a farmi scorrere le dita calde sul collo e sulla schiena finché non ebbi di nuovo un'erezione. Mi guidò nel suo corpo e, una volta dentro, mi sentii così appagato, che non osai muovermi per paura di rovinare tutto. Dopo un po', mi baciò l'orecchio e sussurrò: «Forse potrei muovermi un po'». Appena cominciò ad agitarsi, mi svuotai subito. Maya mi abbracciò appassionatamente come se la mia prestazione fosse stata la cosa più straordinaria che avesse mai sperimentato. Imbaldanzito dalla sua reazione compiaciuta, le chiesi come mai la differenza di età che c'era tra noi non la disturbava. «Sono una sgualdrina egoista» confessò. «L'unica cosa che mi interessa è il mio piacere.» Allora facemmo l'amore, dal pomeriggio assolato fino a tardi, nel buio. Non ho imparato molto di più da quando trascorsi quelle ore fuori dal tempo: Maya mi insegnava tutto quello che c'era da sapere. Ma forse «insegnare» è la parola sbagliata: si dava semplicemente del piacere e ne dava anche a me, e io non mi rendevo conto di lasciarmi alle spalle la mia ignoranza mentre scoprivo le vie dei suoi sorprendenti territori. Godeva di ogni movimento, semplicemente toccando le mie ossa e la mia carne. Maya non era una di quelle donne che dipendono dall'orgasmo come unica ricompensa di un'attività fastidiosa: fare l'amore con lei era una sorta di comunione, e non la masturbazione interiore di due estranei nello stesso letto. «Guardami adesso» mi raccomandò prima di venire, «ti piacerà.» Durante una delle nostre brevi pause, le chiesi quando aveva deciso di concedersi. Era stato quando, ormai pronto a lasciar perdere, le avevo chiesto se voleva tornare a dormire? «No. L'ho deciso quando ti ho detto che stavi crescendo troppo in fretta e ti ho fatto mettere di fianco a me, accanto alla casella della posta.» Ero stupefatto. Questo significava che tutti i miei conflitti e i miei stratagemmi erano stati futili e ridicoli; e significava anche che avevamo sprecato lunghe e preziose settimane. Perché non mi aveva dato qualche segno di incoraggiamento? «Volevo che fossi tu a chiedermelo. Θ importante che sia tu a sedurre una donna, specialmente quando è la prima volta. Béla non ha mai superato il fatto di avere iniziato pagando una prostituta. Tu non avrai questo tipo di problemi. Puoi essere fiero di te.» «E chi ti dice che io sia fiero di me?» «Faresti bene a esserlo» disse. Era un complimento per entrambi, Maya mi allacciò con le braccia e con le cosce poi si girò senza lasciare la presa, finché non fu sopra di me. «Dovresti fare un sonnellino» disse, «e lasciare che sia io a fare tutto il lavoro.» Ci interrompemmo una prima volta perché a Maya era venuta fame, e mentre preparava qualcosa da mangiare, mi suggerì di vestirmi e di scendere a dire a mia madre che non mi ero perso. Mi disse che sarei potuto tornare, perché suo marito aveva un'amante (come avevo sospettato) e avrebbe passato la notte da lei. Le dissi che trovavo inconcepibile che la lasciasse sola per stare con un'altra donna. «Oh, non lo so... è una ragazza davvero carina» disse Maya con tono pragmatico, senza traccia di risentimento. A ogni modo, grazie a quella ragazza carina, potevamo passare la notte insieme, e io scesi ad avvertire mia madre. Non entrai nemmeno nell'appartamento. Dall'uscio le dissi che ero nel palazzo, che non doveva aspettarmi e non doveva preoccuparsi. «Voi poeti!» Scosse il capo e sorrise tristemente, scegliendo l'unica scusa a cui poteva pensare per giustificare il mio comportamento peccaminoso. Feci le scale di corsa e mi ripromisi che il giorno dopo le avrei comprato un bel regalo. Rientrato a casa di Maya, cenammo e tornammo a letto solo per sentirci vicini e parlare. Ovviamente io dissi a Maya che l'amavo, il che era vero, e lo è ancora, e le chiesi se mi amava. «Sì» mi rispose seriamente. «Ma imparerai che l'amore raramente dura e che è possibile amare più di una persona alla volta.» «Vuoi dire che hai qualcun altro?» le chiesi terrorizzato. «Be', mio marito» rispose, dilatando leggermente gli occhi. «Ma non ti devi preoccupare. L'idea che si possa amare una persona sola fa sì che la maggior parte della gente viva nella confusione.» Mi disse che le sarebbe piaciuto avere dei figli, e che stava pensando di cercare lavoro come insegnante. «Quando?» «Non subito. Quando tu mi avrai lasciata.» Facemmo ancora l'amore, e ancora, finché per me arrivò l'ora di alzarmi e di andare a scuola. Non saremmo mai potuti uscire insieme: Béla non sarebbe stato d'accordo, mi disse, il che mi fece sospettare che sapesse di noi. Era molto cortese ogni volta che ci incontravamo e opportunamente assente la gran parte del tempo. Ma anche entro quelle quattro mura avevamo tutto quello di cui avevamo bisogno cibo, musica, libri e il grande letto. Oltre ai momenti in cui facevamo l'amore, ricordo in maniera altrettanto vivida anche quelli in cui ci strusciavamo l'uno contro l'altra, annusandoci come cani, e soprattutto ricordo l'abitudine di tagliarci le unghie dei piedi insieme, con le braccia e le gambe intrecciate in modo così intricato che era un miracolo che non ci ferissimo più spesso di quanto non capitasse. Tutto questo dovette influire sul mio aspetto, o quanto meno sui miei atteggiamenti: iniziai a notare che le donne mi notavano. Probabilmente perché avevo perduto la mia aria disperata. E sebbene mi piacesse ancora guardare le donne sconosciute, avevo smesso di sentire i crampi allo stomaco.
A scuola gli insegnanti erano colpiti dalla mia nuova sicurezza, e decisero
che avevo «doti di leader».
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