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| << | < | > | >> |Indice1. Hegel tra amore e conoscenza 1.1 Un amore giovanile 13 1.2 I due inseparabili "neri": Hegel e Hölderlin 20 1.3 Un cruciale apprendistato: Hegel discepolo di Hölderlin 25 1.4 Il discorso di Diotima 27 1.5 La verità colta da Hölderlin 30 1.6 Libertà e destino 34 1.7 Tirocinio teoretico 41 1.8 Hegel e Schelling: un'occasione mancata 56 2. La coscienza infelice 2.1 Una notte del 1806 63 2.2 Tempi moderni: la genesi dell'infelicità 71 2.3 Prima della battaglia (Assunti di base della Fenomenologia) 77 2.4 Postilla 84 2.5 L'avvento della coscienza infelice 89 2.6 Il movimento dell'autocoscienza 94 2.7 La dialettica signoria-servitù 100 2.8 Le figure già deposte nello spirito 108 2.9 Il romanzo pedagogico della borghesia europea 122 2.10 Il declino di Antigone (Infelicità e potere) 128 3. Il mondo della dialettica 3.1 Considerazioni preliminari 131 3.2 Accoglimento della dialettica del reale 134 3.3 I materiali dialettici della Fenomenologia 147 3.4 La necessità del male: il divenire 156 3.5 Il ribaltamento della dialettica ovvero l'Essere è il Male 164 4. Società e Stato 4.1 La politica come scenario della necessità del male 167 4.2 Il contenuto della Filosofia del diritto 169 4.3 Linee di una possibile confutazione della Filosofia del diritto 174 4.4 Diritto e libertà 175 4.5 Il diritto privato o dello scambio di proprietà 178 4.6 Bisogni, baratto, commercio 184 4.7 Dalla società civile allo Stato 190 4.8 Lo Stato nazionale hegeliano (lo Stato Etico) 213 4.9 Nazione, popolo e Stato 218 5. Il fraintendimento del mondo classico (Linee di una decostruzione dell'idea hegeliana del diritto) 5.1 Il disagio del filosofo morale 225 5.2 L'uomo greco tra ambiguità e dover essere della natura umana (Il fraintendimento dell'Antigone) 229 5.3 L'essere umano è per essenza libero 230 5.4 Il diritto (jus) è un dover essere interiore 230 5.5 Un'esigenza della modernità: la Costituzione. Che cosa deve essere? 232 5.6 Corollario sui limiti di una Costituzione 234 5.7 Il mondo di Antigone quale presunta preparazione al mondo nuovo 235 5.8 Postilla: un invito al dialogo 238 6. Il tradimento di Antigone 6.1 Premessa 251 6.2 Le leggi sono 252 6.3 Le rovine lasciate dallo spirito 254 6.4 Lo spirito vero. L'eticità 257 6.5 I1 mondo etico. La coscienza individuale e lo Spirito 261 6.6 Legge umana e legge divina 264 6.7 La modernità (presunta) del paradigma fenomenologico hegeliano 267 6.8 La divaricazione permanente tra legge umana e legge divina 273 6.9 La famiglia 275 6.10 La famiglia e il morto 276 6.11 Una mediazione tra le potenze dell'etica: il governo e la guerra 281 6.12 La condizione di Antigone 284 6.13 Il sacrificio di Antigone e la quiete del mondo etico 290 6.14 L'azione etica tra decisione, colpa e destino 296 6.15 Il significato di una svista di Hegel 302 6.16 Hegel offende Antigone 303 6.17 Corollario sul teatro 305 6.18 Hegel: la tragedia e il tragico come tappe dello Spirito 309 6.19 Elementi strutturali della tragedia 310 6.20 La tragedia greca secondo Hegel 323 6.21 Il commiato da Antigone 325 Epilogo 1. Morte e rinascita di Antigone 331 2. Il modus operandi del delitto 331 3. Il corpo di Antigone 335 4. Dal corpo di Antigone al corpo della patria 335 5. L'ultimo oltraggio ad Antigone: l'amor di patria 337 6. La rinascita di Antigone 339 7. Corollario di microstoria (il corpo femminile senza la libertà) 342 8. La debolezza (presunta) del corpo femminile 342 9. Dalla liberazione del corpo femminile a una filosofia della libertà 348 Bibliografia 351 Indice dei nomi 361 |
| << | < | > | >> |Pagina 131.1 Un amore giovanile Hegel da giovanissimo aveva letto l' Antigone di Sofocle ed era stato così colpito dalla figura e dalla vicenda dell'infelice eroina da innamorarsene. Può certo sembrare azzardato parlare in questo caso d'amore. Un azzardo che parrebbe confermato dalla vita stessa di Hegel. Ebbe, nella giovinezza e — a quanto si diceva — anche nell'età matura, numerose e complete storie con donne in carne ed ossa alle quali tuttavia non conferì un'importanza tale da spingerlo a trasformarle in legami duraturi e a distoglierlo dalla passione per la ricerca. Si aggiunga a ciò che, a misura che progrediva negli anni, avvertiva le necessità di distinguere nettamente tra quello che gli uomini della sua generazione chiamavano "felicità terrena", la passione come mero appagamento dei sensi, usualmente relegata nella giovinezza, e la sublimazione dell'amore nel rapporto coniugale. Questa specifica relazione era concepita come unione di due anime mirante a realizzare un'alta e doverosa trasformazione della mera naturalità al fine di contribuire, mediante la creazione della famiglia, alla realizzazione di una società compiutamente cristiana. In coerenza con questi ideali, che in molti giovani del suo ceto assumevano spesso un carattere decisamente convenzionale, attese a lungo prima di contrarre il legame stabile e socialmente riconosciuto del matrimonio. Si sposò infatti solo quando aveva ormai raggiunto la piena maturità. A suo giudizio era arrivato il momento giusto: dal 1808 era rettore del Ginnasio di Norimberga con l'obbligo di tenere le lezioni di filosofia. Il rettorato gli assicurava una decorosa posizione professionale e una sicura stabilità economica, due condizioni che gli consentivano di essere accettato quale fidanzato ufficiale di Marie von Tücher (1791-1855), una graziosa fanciulla, più giovane di lui di ventuno anni, appartenente a un'antica e nobile famiglia di Norimberga che divenne sua moglie nell'autunno del 1811. Come concepisse l'unione con Marie ci viene detto da quanto ebbe occasione di scriverle durante il fidanzamento in cui risulta evidente non solo la decisa consonanza di Hegel con lo spirito del tempo, ma persino un curioso distacco, probabilmente a lei sgradito, nei confronti della fidanzata. Leggiamo, infatti, in una lettera a Marie, che: Il matrimonio è essenzialmente un legame religioso; l'amore per essere completato ha bisogno di qualcosa di più alto di ciò che esso è solamente in se stesso e per se stesso. La soddisfazione completa — ciò che si chiama "essere felici" — non è completata se non dalla religione e dal sentimento del dovere, poiché in essi vengono messe da parte tutte le particolarizzazioni dell'Io temporale, che potrebbero portare turbamento nella realtà effettiva, la quale rimane qualcosa di incompiuto e non può essere presa per perfetta, ma in cui dovrebbe esser posta ciò che si chiama felicità terrena. Nonostante la vita dei due coniugi fosse felice e durevole il loro matrimonio, coronato dalla nascita di una figlia e di due figli, nonché a dispetto delle lettere scritte da Hegel alla promessa sposa, che non lasciano dubbi sulla sincerità dei suoi sentimenti, il lettore non può non restare perplesso nel riscontrare una certa fredda pedanteria decisamente inappropriata in una lettera d'amore, sia pure diretta a una ragazza destinata a svolgere il "debito" ruolo di moglie e di madre. Se scorriamo le pagine della corrispondenza sentimentale di altri illustri personaggi dell'epoca, non ci aspettiamo certamente di trovarvi le lodi della bellezza fisica e infatti raramente le troviamo, ma in qualche modo riscontriamo tracce di intensa tenerezza, anche se questa si esprime soprattutto nell'esaltazione dell'essenza della natura femminile, fatta di sublime purezza, incarnata dalla donna amata. Ma l'assenza di questa stessa forma di tenerezza, soprattutto di un più naturale abbandono, ci viene attestata dal più che quarantenne rettore di Norimberga. Stando così le cose, sembrerebbe davvero impensabile che Hegel potesse innamorarsi di un fantasma. Sosteniamo, ciò non di meno, che si invaghì di Antigone e, innamorato, non smise mai di amarla. A dare plausibilità a questa tesi militano un certo numero di ragioni. Innanzitutto l'età. Quando Hegel lesse e tradusse l'Antigone aveva diciotto anni, i diciotto anni dello studente di una istituzione, frequentata unicamente da maschi e severissima, in cui gli obblighi scolastici erano talmente incombenti e pesanti da lasciare pochissimo spazio e occasioni di evasione ai giovanissimi alunni che, tra l'altro, i costumi dell'epoca, sottraendoli alla frequentazione delle coetanee del loro ceto, finivano con lo spingere a cavarsi le voglie con le ragazze e le donne mature del popolino. Hegel aveva però una natura troppo ardente per limitarsi a trovare pace unicamente negli sfoghi cui si abbandonavano i suoi compagni. Le sue fantasie lo attiravano verso le eroine dei poeti e, in particolare, le fanciulle degli autori della classicità greca, regine di un mondo in cui libertà e amore erano da lui avvertite come sinonimi di una felicità generosamente donata da dèi non ancora defenestrati dal monoteismo cristiano. Antigone è la protagonista di una storia che lo aveva profondamente commosso. Figlia di Edipo, di cui aveva consolato la vecchiaia, aveva osato ribellarsi al nuovo signore di Tebe, Creonte, il quale aveva proibito a chiunque, pena la morte, di onorare la salma di Polinice, fratello di Antigone, che era morto combattendo contro la città. Antigone aveva violato l'interdetto ed era stata chiusa in un ipogeo perché vi morisse. Agli occhi del diciottenne Hegel Antigone aveva più di un tratto che l'accomunava alle eroine romantiche del suo tempo: era una creatura legata da un naturale legame con il morire, giacché aveva perduto le persone a lei più care, i genitori e i fratelli. Erano tutti morti di una morte segnata dall'imprevedibile e dalla sventura: la prima circostanza le aveva impedito di appagare l'affetto filiale e fraterno nella convivenza familiare. È ben vero che aveva vissuto con il padre, ma il tempo trascorso con l'esule re di Tebe cieco, invecchiato, travolto dalla disperazione non era stato certamente felice e la consolazione da lei così generosamente donata si era risolta nel gratificare un morituro. La seconda circostanza le aveva sottratto la dolcezza del ricordo di momenti appaganti e felici. Quand'anche il suo destino fosse stato diverso, sarebbe stata comunque infelice; la sua sarebbe stata l'infelicità di una donna i cui più ardenti sentimenti parevano destinati a riversarsi soltanto sui morti. Tuttavia la passione che suscita in Emone, come attestano il mito e Sofocle, ci lascia intravedere qualche altra cosa: Antigone non è soltanto una persona che vive nella morte e per la morte. È anche una creatura di bellezza e di amore, in grado di corrispondere con piena gioia all'ardore del suo innamorato e, perciò stesso, colma di amarezza perché il destino sembra impedirglielo (non sa nulla dell'intervento di Tiresia, né del tardivo ripensamento di Creonte). Il coraggio con cui affronta la morte e il cocente rimpianto di una felicità perduta sembrano essere le spie di una personalità contraddittoria e, all'apparenza, indicarci unicamente il tormento di una povera giovane alle prese con cose più grandi di lei. Ma Sofocle non commette l'errore di tradire la grandezza del personaggio tramandato dal mito: facendo morire Antigone di suicidio, ci fornisce, marcandone le modalità, la chiave di un'interpretazione in cui si dissolve ogni perplessità sulla tempra di quella donna. Antigone si impicca con il velo di nozze, trasparente simbolo di una beatitudine tutta terrena, e si abbandona alla morte. Così facendo pone in evidenza come Amore e Morte abbiano le loro radici in uno stesso regno, l'Ade, nelle cui tenebre dominano i numi delle origini, signori su ogni cosa che nasce e che muore e la cui volontà è una voce risonante nel profondo sé degli umani, trasmettendo loro un comando che non può essere ignorato. Un imperativo che certo non è scritto, perché, essendo come gli dèi "da sempre", è prima del linguaggio e del capriccioso arbitrio dei potenti che ogni loro capriccio fanno trascrivere, affidando alla scrittura il compito di trasformarlo in un nómos (legge) che, ove non si pieghi a derivare legittimità dalle leggi non scritte degli dèi, è destinato a perire come la loro vita e le loro fortune. Proprio perché dettata solo nell'interiorità, al di fuori da ogni condizionamento esterno, la lezione che Antigone impartisce al giovanissimo lettore della tragedia è quella della libertà che ammette unicamente il dovere al di là di ogni estrinseca costrizione. A questo punto ci paiono confermate le ragioni che fanno dello Hegel diciottenne un ardente innamorato di Antigone. | << | < | > | >> |Pagina 2255.1 Il disagio del filosofo morale A nostro giudizio, le buone intenzioni non servono soltanto a lastricare le vie dell'inferno, ma anche a perseguire il fine di raggiungere in qualche modo la verità, talché non ci sembra azzardato definire il tentativo di approssimarsi almeno alla vera natura dell'uomo come un compito peculiare di quello che Kant definiva "filosofo morale". Ciò non toglie che il primo approccio sia contrassegnato da un forte disagio, quando l'impresa coincide con la decostruzione della filosofia hegeliana del diritto. L'imbarazzo che coglie il filosofo morale trae origine da due fattori certamente rilevanti, l'uno di indole speculativa, l'altro di natura storico-fattuale. Da un lato, il lettore della Filosofia del diritto deve prendere atto della coerenza logica dell'argomentazione, dall'altro non può non riconoscere che la cornice ambientale entro cui viene compiuto il tentativo di confutazione è costituito dagli Stati nazionali al cui interno si muove lo stesso lavoro critico del filosofo morale, il quale ha una collocazione precisa in uno di essi. Potrebbe essere anche un apolide appartenente a una nazione che, come i Curdi o i Palestinesi, non ha un suo Stato. La cosa non farebbe gran differenza, giacché la comunità cui in questo caso apparterrebbe mira a costituirsi in Stato. Dal punto di vista del senso comune, per il quale sono gli Stati nazionali a rendere visibili e riconoscibili le nazioni, la confutazione dello Stato nazionale hegeliano e, per esso, dello Stato nazionale in generale, apparirebbe una lotta contro i mulini a vento, un pretendere di rifare la realtà cominciando con il negarla. Cosa che parrebbe tanto più assurda se si considera che di questa realtà il filosofo morale fa comunque parte e che da essa trae, per la storia della sua personale formazione, il possesso di tutta la strumentazione concettuale di cui intende servirsi. Da questo punto di vista, avrebbe ragione il senso comune di giudicare insensata la posizione, nonché fallace la prospettiva, di chi pretende di formulare giudizi sul nostro pianeta politico quasi fosse un ipotetico osservatore residente nella stella Sirio e non un abitante della Terra. Ciò non di meno nessuno può negare che il filosofo morale ha dalla sua per incoraggiarlo l'umanissimo sentimento dell'indignazione a riguardo delle offese perpetrate dagli Stati nazionali al corpo e allo spirito di innumerevoli esseri umani e non si dica che altre forme di società politica fecero altrettanto, giacché queste ultime non accamparono la scusante di agire in nome del diritto, trovando unico titolo di legittimità della violenza nella violenza stessa. Si aggiungerà, forse con (apparente) ragione, che indignarsi è un sentimento che, in quanto tale, può certo valere per la narrazione, non certamente per dar vita a una catena i cui anelli siano razionali concetti. Ma anche in questo caso si dirà male, in quanto la passione, per irrazionale che in sé possa essere, è a fondamento di un ragionamento che, pur non condiviso dal senso comune, ha la stessa, se non maggiore forza, di questo. Intendiamo qui riferirci al ragionamento scientifico che procede secondo questa precisa sequenza: a) all'inizio lo scienziato è dominato da un sentimento indifferenziato e complesso: la passione conoscitiva che spinge il ricercatore a dare spiegazione di fenomeni che appaiono indecifrabili; la sete di conoscenza si intreccia al dubbio che qualcuno o qualcosa lo metta fuori strada ingannandolo: può accusare di questo inganno un dio capriccioso e crudele, magari il Creatore dei monoteismi, ma poi si accorge di essere solo ed arriva a sospettare che siano i suoi stessi sensi ad ingannarlo; b) ricorre allora a un artificio che ricorda molto da vicino il teatro: finge che le cose siano diverse da come appaiono ai sensi, allo stesso modo in cui il teatrante fa sì che la scena rappresenti eventi che non si danno altro che assai raramente nella realtà, come il trionfo del bene sul male e che il dramma complessivo sortisca in un lieto fine, sia questo un'effettiva vittoria del bene o almeno un convincente ammaestramento impartito allo spettatore. In definitiva, se l'uomo di teatro presenta le cose non come sono, bensì come dovrebbero essere, lo scienziato riveste gli eventi di significati (vere e proprie maschere di scena) che se, da un lato, sono contrari al senso comune, dispongono dall'altro di un potenziale euristico tale da spiegare fenomeni meglio conformi all'immaginazione scientifica che all'opinione trasmessa dai sensi. In buona sostanza, la scienza e il teatro compiono la medesima operazione, vale a dire la sostituzione dell' essere con il dover essere. Se il secondo piega la condotta umana al bene, la prima trasforma, ribaltandone la naturalità immediata, i fenomeni, quali appaiono al senso comune, in strumenti di spiegazione di altri fenomeni; c) l'esito di questa trasformazione – una sorta di magia bianca simile a quella attuata nel teatro – è una teoria scientifica che nel contempo confuta e invera le opinioni comuni. Come si è già accennato, è questo quello che gli scienziati chiamano ragionamento controintuitivo. Non mancano esempi al riguardo, come quello, ormai divenuto contenuto di senso comune, dell'eliocentrismo che, costruito tra il XV e il XVI secolo, consistente, in definitiva, nella confutazione dell'opinione, unicamente fondata sui sensi, secondo cui è il Sole a ruotare attorno alla Terra, cui si sostituisce l'opinione, corretta, che ci dimostra come sia il geoide a ruotare intorno al Sole. Il potenziale euristico della teoria eliocentrica non si limita altresì unicamente a consentire la spiegazione di fenomeni prima indecifrabili, giacché, per contro, introduce una correzione che invera e legittima le nostre sensazioni. Sostenere che il moto del Sole rispetto alla Terra è solo apparente ci permette di continuare a dire che il Sole sorge e tramonta e a costruire su questa affermazione concetti suscettibili di essere fulcro di tesi scientificamente incontrovertibili quali quelli concernenti i cicli circadiani e stagionali. Come dire che la confutazione controintuitiva dei dati sensoriali equivale al loro inveramento. Di qui un possibile suggerimenro: applicare il ragionamento controintuitivo a una scienza filosofica qual è la filosofia del diritto. A questo punto, tuttavia, il filosofo morale incontra un'obiezione che non è certo lecito passare sotto silenzio. Il criterio delle scienze propriamente dette è il metodo sperimentale che garantisce alla teoria scientifica di corroborare tutte le sue affermazioni, laddove, nel caso delle scienze filosofiche, l'unica forma di validazione è fornita dal metodo storico e la storia per sua natura non garantisce alcuna certezza: i suoi contenuti sono eventi che non hanno altra necessità se non quella che deriva ad essi dal fattto che non si può certo impedire a quel che è accaduto di essere effettivamente accaduto. Ma se le cose stanno così, manca tuttavia ai dati della ricerca filosofica la ripetività e la predittività dei fenomeni, in una parola la certezza propria di una dimostrazione che dia luogo a leggi. Di qui a sostenere che una scienza filosofica è arbitraria il passo è breve e si sarebbe tentati di farlo, se non altro perché chi per la prima volta viene alle prese con la filosofia ha l'impressione di entrare in un campo di lotte senza fine in cui tutti hanno ragione e dunque nessuno può pretendere di averla davvero. Da questo punto vista occorre che il filosofo morale riconosca di navigare tra i marosi dell' arbitrio. Una tale congiuntura, tuttavia, non gli sottrae il diritto di declinarne nel modo giusto il senso, vale a dire il significato e l'uso. Una scienza filosofica è arbitraria perché obbedisce a un'esigenza pratica. Se è vero, come sostenevano gli antichi, che «la filosofia è la guida della vita», allora l'arbitrio diventa legittimo e questa legittimità investe anche l'operare un benefico sequestro del ragionamento controintuivo se, in tal modo, si perviene, attraverso la decostruzione della filosofia hegeliana, a un'idea del diritto meglio praticabile. Ma come può essere eseguita la decostruzione? Per rispondere a questo interrogativo, occorre considerare in via preliminare la concezione complessiva della natura umana quale Hegel crede di dedurre dalle radici stesse della civiltà occidentale, di fatto del mondo antico soprattutto greco. | << | < | > | >> |Pagina 2325.5 Un'esigenza della modernità: la Costituzione. Che cosa deve essere?
Hegel si rendeva pienamente conto della necessità della Costituzione
(Verfassung)
quale legge fondamentale
(Grundgesetz)
alla quale affidava il compito di garantire una comunità nazionale avverso
all'arbitrio e alla prevaricazione. Solo che questa garanzia stava unicamente
nella traduzione in forma scritta della
costituzione materiale,
di fatto, come si è precedentemente argomentato, nella codificazione della
modalità, già patriarcale, del
Royaume-empire
del modello francese. A nostro giudizio, una Costituzione siffatta, coincidente,
in larghissima misura, con le carte delle monarchie costituzionali,
è una falsa Costituzione tale che nessuno può asserire che abbia dignità di
legge fondamentale non già unicamente agli occhi di un
popolo, ma
anche
e soprattutto della comunità umana in generale.
Al di là della circostanza che nel XIX secolo una Costituzione si
identificava generalmente con una
charte octroyée
(graziosamente concessa) dal sovrano o statuto, e non traeva origine da un patto
sociale, ledendo così in linea di principio la libertà delle persone, essa
denunciava — e la denuncia è chiarissima nel dettato della
Filosofia del diritto —
la sua indole inessenziale sotto almeno due aspetti: a) i suoi articoli, nella
fattispecie di traduzione degli elementi di una
costituzione materiale,
non fondano il futuro, ma ratificano il passato,
smarrendo così il loro compito che li vorrebbe enunciazioni di
principio, innovative articolazioni di un progetto; b) stante il fatto che una
Costituzione, oggi comunque riferita a questo o a quello
Stato nazionale, non può comunque, in alcun caso e in alcun modo,
tenere unicamente conto dei soggetti della nazione interessata; deve
introdurre, con le relative enunciazioni positive, impliciti interdetti delle
violazioni dei diritti umani universali e prevedere, ove ciò
sia necessario per il bene della comunità planetaria, che lo Stato
nazionale accetti la limitazione della propria sovranità. Come dire,
che un'autentica Costituzione non tanto ratifica, quanto prescrive e
interdice, agendo nel superiore e migliore interesse dei cittadini di
uno Stato, ravvisandoli nella loro essenziale fattispecie che è quella
di membri della famiglia dell'uomo nel suo complesso. Sotto questo aspetto, una
qualsiasi Costituzione si avvicina all'idea pura del
diritto se può configurarsi quale
carta dei limiti.
5.6 Corollario sui limiti di una Costituzione Lo Stato nazionale è reso visibile dal territorio sul quale si estende la sua sovranità. In positivo varrebbero perciò, tanto per i cittadini dello Stato, quanto per gli stranieri, esclusivamente le leggi prodotte dal legislatore nazionale. Ora, fin tanto che si mantiene in vita lo Stato nazionale, vale a dire per una necessità solo storica, non già atemporale, quale la vorrebbe il diritto, parrebbe vano mettere in crisi il principio della territorialità del diritto; certamente, per alcune materie, quali il furto, i delitti contro il patrimonio in generale, i reati amministrativi, i delitti contro la persona, ecc., è ragionevole non mettere in discussione la normativa statale. Ove, come è certamente auspicabile, una governance mondiale intervenga a sostituire i governi nazionali, materie siffatte dovranno sicuramente essere oggetto del legislatore planetario. Ciò non di meno, il principio della territorialità del diritto già oggi incontra un limite preciso allorché la legislazione nazionale permette leggi che violano i diritti fondamentali e universali della persona, talché il cittadino dello Stato nazionale è pienamente legittimato a violarle, mostrandone l'indole che le configura quali illecite ratificazioni di reati contro l'umanità. Tra questi reati i più gravi sono quelli che colpiscono la dignità personale degli stranieri e la loro libertà di movimento nell'intero pianeta, dignità e libertà che configurano l'essenziale natura dell' hospitalitas universale, la quale, in quanto il suo godimento è un diritto inalienabile degli stranieri, è un dovere imprescindibile per il singolo Stato. Quando questo obbligo non viene rispettato, lo Stato nazionale esce dal diritto e perde persino le ragioni della sua necessità storica, giacché, non riconoscendo che il suo diritto era poco più di una delega imposta dalla forza delle circostanze, espone lo Stato-nazione a cadere, prima o poi, per inevitabile rivalsa degli oppressi, vittima della medesima violenza che ne aveva voluto la genesi. Al pari della territorialità, l'esercizio della forza coattiva, esprimendosi nel comminare una pena, come vorrebbe Hegel, intesa a restaurare il diritto, "negando la sua negazione", incontra essa stessa un limite nell'interdetto, voluto dall'idea del diritto, della pena di morte, tuttora contemplata dall'ordinamento di numerosi Stati nazionali, ivi compresi gli USA. L'esecuzione capitale è un reato per così dire planetario sotto almeno tre aspetti: a) sottrae alla persona il diritto alla proprietà del suo corpo; b) le sottrae altresì, con la frequenza dell'errore giudiziario, il diritto che sia comprovata, senza ombra di dubbio, la sua colpevolezza, fermo restando il principio in base al quale nessuno è tenuto a dimostrare la sua innocenza, mentre per contro una corte di giustizia ha l'obbligo di provarne la reità; c) fa regredire lo Stato nazionale alla sua deplorevole condizione genetica di individuo che compie la sua vendetta su un altro individuo. | << | < | > | >> |Pagina 2516.1 Premessa Le opere di Hegel sono fitte di figure di santi, profeti, filosofi che non sempre tuttavia sono espressamente evocati con il loro nome, il che, ovviamente non impedisce a chi abbia qualche dimestichezza con la filosofia di capire a chi di volta in volta Hegel si riferisca. La sola Antigone viene incontrata dal lettore nel luogo in cui l'autore la incontrò per là prima volta, vale a dire nella tragedia di Sofocle che porta il suo nome. Resta comunque il fatto che Antigone è intrecciata a contenuti cruciali della speculazione hegeliana quale l'etica, il tragico, la femminilità, la famiglia, ecc. in modo talmente stretto che una lettura minimamente attenta scopre agevolmente come di lei e del suo dramma Hegel stia parlando, anche quando non vi accenni in modo esplicito. Questa considerazione va costantemente associata al censimento e al commento, qui operato, dei testi in cui ha luogo l'incontro tra il filosofo e l'eroina greca. La prima diretta comparsa dell'eroina nella Fenomenologia è la citazione dei famosi versi dell' Antigone in cui la donna, scontrandosi con Creonte, afferma con forza, a riguardo del diritto non scritto degli dèi, «che non oggi né ieri, ma sempre esso vive e nessuno sa quando sia apparso». Questa affermazione segue a quanto Antigone con logica ineccepibile ha prima detto scontrandosi con Creonte: «[...] Per me non fu Zeus a proclamare il [tuo] divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi».
Il discorso di Antigone parrebbe trovare Hegel del tutto consenziente. Ma
non è così. La fanciulla con l'immediatezza sua
propria ha colto, certamente, il fondamento dell'eticità, compendiato da Hegel
in «Le leggi sono», ma, a parere del filosofo, è caduta in un equivoco, in
quanto è andata alla ricerca di qualcosa che giustificasse il suo credo, in
quanto, nel verso 451, polemizzando con Creonte, fa riferimento a Dike (la
Giustizia) «che dimora con gli dèi inferi», le oscure divinità signore di ogni
cosa che nasce e che muore.
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