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| << | < | > | >> |Pagina 21Questa è la cosa più vicina a un'autobiografia che arriverò mai a scrivere. L'ho intitolata Comica finale perché è un grottesco, un brano di poesia situazionale: come le comiche cinematografiche, specie quelle di Stanlio e Ollio, di tanto tempo fa. Parla della vita come la vedo io. Ci sono tutti questi test che dimostrano quanto sono limitate la mia intelligenza e la mia agilità mentale. Non finiscono mai. La cosa più divertente, nelle comiche di Stanlio e Ollio, è che, mi sembra, ce la mettevano tutta, qualunque prova dovessero affrontare.
Non hanno mai mancato, in buona fede, di venire a patti col destino, e per
questo sono stati adorabili e terribilmente buffi.
Nei loro film c'era ben poco amore. C'era spesso la poesia situazionale del matrimonio, che è tutta un'altra cosa. Era un test, un altro ancora: con possibilità comiche, a patto che ciascuno vi si sottoponesse in buona fede. L'amore non è mai stato in discussione. E, forse perché durante la mia infanzia al tempo della Grande Depressione io ero sempre così inebriato e ammaestrato dalle comiche di Stanlio e Ollio, trovo naturale parlare della vita senza fare mai cenno all'amore.
Non mi sembra importante. Cos'è che mi sembra importante? Venire a patti in
buona fede col destino.
Ho fatto qualche esperienza con l'amore, o credo di averla fatta, in ogni caso, anche se quelle che mi sono piaciute di più si potrebbero far rientrare facilmente nella categoria del «vivere civile». Ho trattato bene qualcuno per un po' di tempo, o forse anche per un tempo straordinariamente lungo, e in cambio quella persona ha trattato bene me. Non è detto che dovesse entrarci necessariamente l'amore. Inoltre: non so distinguere tra l'amore che nutro per le persone e quello che ho per i cani. Quando ero piccolo, e non guardavo i comici sullo schermo o non ascoltavo i comici alla radio, passavo un mucchio di tempo a ruzzare sui tappeti con i cani che avevamo, il cui affetto era pieno e senza riserve. E lo faccio ancora. I cani si stancano e diventano confusi e imbarazzati molto prima di me. Potrei continuare in eterno.
Hic!
Una volta, il giorno del ventunesimo compleanno, uno dei miei tre figli adottivi, che stava per raggiungere il Peace Corps nella foresta pluviale amazzonica, mi disse: «Sai... non mi hai mai abbracciato».
Allora lo abbracciai. Ci abbracciammo. Fu una cosa bellissima. Era come
rotolarsi su un tappeto con un danese che avevamo una volta.
L'amore è dove lo trovi. Io credo che sia sciocco andarlo a cercare, e credo che spesso possa essere velenoso.
Vorrei che le persone che si amano, nel modo in cui è visto tradizionalmente
l'amore, si dicessero, quando bisticciano: «Per piacere... un po' meno d'amore,
e un po' più di civiltà».
La mia esperienza più lunga, in materia di civiltà, è stata sicuramente quella che ho fatto col mio fratello maggiore, Bernard, l'unico fratello che ho, che è scienziato dell'atmosfera ad Albany, all'università dello Stato di New York.
Bernard è vedovo, e sta tirando su due figli piccoli tutto da solo. Se la
cava bene. Oltre a quelli, ha tre figli grandi. Siamo nati con due teste
diversissime. Bernard non avrebbe mai potuto fare lo scrittore. Io non avrei mai
potuto diventare uno scienziato. E, poiché ci guadagnamo la vita con la testa,
abbiamo la tendenza a vederla come un congegno: separato dalla coscienza, dalla
centralità del nostro io.
| << | < | > | >> |Pagina 43E cercherò di smettere di scrivere sempre «Hic». Davvero.
Hic!
Sono nato proprio qui a New York City. Allora non ero una Giunchiglia. Mi hanno dato questo nome: Wilbur Rockefeller Swain. Per di più, non ero solo. Avevo un gemello dizigotico, una femmina. La chiamarono Eliza Mellon Swain. Fummo battezzati in ospedale, non in chiesa, e alla cerimonia non parteciparono né i parenti né gli amici dei nostri genitori. Il problema era questo: io ed Eliza eravamo così brutti che i nostri genitori si vergognavano di noi. Eravamo dei mostri, e nessuno si aspettava che saremmo vissuti molto a lungo. Avevamo sei dita per mano e per ciascuno dei nostri piedini. Avevamo anche capezzoli in soprannumero: due di troppo per ciascuno di noi.
Non eravamo idioti mongoloidi, anche se avevamo i grossi capelli neri tipici
dei mongoloidi. Eravamo qualcosa di nuovo. Eravamo dei
neanderthaloidi.
Avevamo, già durante l'infanzia, le fattezze di esseri umani adulti, fossili:
sopracciglia sporgenti, fronte bassa e mascelle da scavatrice a vapore.
Avremmo dovuto essere privi d'intelligenza, e morire prima dei quattordici anni. Ma io sono ancora vivo e vegeto, grazie. E anche Eliza lo sarebbe, ne sono certo, se non fosse rimasta uccisa a cinquant'anni in una valanga alla periferia della colonia cinese sul pianeta Marte.
Hic!
I nostri genitori erano due ragazzi carini, scioccherelli e molto giovani che si chiamavano Caleb Mellon Swain e Letitia Vanderbilt Swain, nata Rockefeller. Erano favolosamente ricchi, e discendevano da quegli americani che avevano quasi distrutto il pianeta con uno stupido giochino: trasformando ossessivamente il denaro in potere, e poi il potere di nuovo in denaro, e poi il denaro di nuovo in potere. Ma Caleb e Letitia, personalmente, erano innocui. Mio padre giocava benissimo a backgammon ed era invece, dicono, così così nella fotografia a colori. Mia madre era attiva nell'Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore. Nessuno dei due lavorava. Nessuno dei due si era laureato, anche se ci avevano provato. Scrivevano e parlavano piacevolmente. Si adoravano. Erano dispiaciuti di aver fatto così poco quando andavano a scuola. Erano buoni.
E non posso biasimarli se rimasero annientati quando seppero di avere messo
al mondo due mostri. Chiunque sarebbe rimasto annientato all'idea di aver dato
la vita a me e a Eliza.
E Caleb e Letitia, come genitori, non furono peggio di me, quando venne il mio turno. Davanti ai miei figli io rimasi del tutto indifferente, anche se erano normali sotto ogni aspetto. Forse mi sarei divertito di più se i miei figli fossero stati dei mostri come Eliza e come me.
Hic!
I due giovani, Caleb e Letitla, ricevettero questo consiglio: di non disperarsi e di non rischiare i mobili per tentare di allevarci, me ed Eliza, nella Baia delle Tartarughe. La parentela che avevamo con loro, dissero questi consiglieri, non era molto diversa da quella che avrebbero potuto avere con dei piccoli coccodrilli. La reazione di Caleb e Letitia fu umana. Fu anche assai costosa e sommamente gotica. I nostri genitori non ci nascosero in una di quelle cliniche private fatte apposta per i casi come il nostro. Ci seppellirono invece in una vecchia villa infestata dai fantasmi che avevano ereditato: in mezzo a duecento acri di meli che crescevano sulla cima di una montagna, vicino al borgo di Galen, nel Vermont.
Nessuno ci aveva abitato per trent'anni.
| << | < | > | >> |Pagina 76Ci misero in due lettini con le sponde, su misura: in camere separate ma adiacenti. Le camere erano collegate da un pannello segreto nel muro. I lettini erano grandi come carri merci. Facevano un terribile rumore quando qualcuno ne sollevava le sponde.Io ed Eliza fingemmo di addormentarci subito. Dopo una mezz'ora, tuttavia, ci riunimmo nella camera di Eliza. I domestici non guardavano mai dentro. La nostra salute era perfetta, dopo tutto, e ci eravamo fatti la reputazione di essere, come dicevano, «buoni come due angioletti» quando veniva l'ora di andare a letto.
Sì, e ci infilammo in una botola sotto il letto di Eliza, e ben presto ci
mettemmo a spiare, a turno, i nostri genitori nella biblioteca: da un buchino
che noi stessi avevamo praticato nel muro e attraverso l'angolo superiore della
cornice che inquadrava il ritratto del professor Elihu Roosevelt Swain.
Nostro padre stava dicendo a nostra madre una cosa che aveva letto su una rivista il giorno prima. Sembrava che gli scienziati della Repubblica popolare cinese stessero facendo esperimenti per rimpicciolire gli esseri umani, così non avrebbero avuto più bisogno di mangiare tanto e di portare indumenti così grandi. Nostra madre stava fissando il fuoco. Due volte nostro padre dovette dirle della notizia cinese. La seconda volta che lo fece, lei rispose scioccamente di credere che i cinesi fossero in grado di realizzare quasi tutto ciò che avessero deciso di intraprendere. Appena un mese prima i cinesi avevano inviato duecento esploratori su Marte, senza usare alcun veicolo spaziale.
Nessuno scienziato dell'Occidente riusciva a capire come diavolo avessero
fatto. I cinesi, spontaneamente, non avevano fornito spiegazioni.
Nostra madre disse che le sembrava che fosse passato un mucchio di tempo da
quando gli americani avevano scoperto qualcosa. «Tutt'a un tratto» disse, «ogni
cosa viene scoperta dai cinesi».
«Una volta scoprivamo tutto noi» disse.
Era una conversazione così pietrificata. Il livello di animazione era così basso che i nostri giovani e bellissimi genitori di Manhattan avrebbero potuto essere immersi fino al collo in un vaso di miele. Davano l'impressione, come l'avevano sempre data a noi, di trovarsi sotto l'influsso di un incantesimo che li obbligava a parlare solo di cose che per loro non avevano il minimo interesse. Ed erano veramente sotto una maledizione. Ma io ed Eliza non ne avevamo indovinato la natura. Erano quasi strangolati e paralizzati dal desiderio che i loro figli morissero. E io sono sicuro di questo, per quanto riguarda i nostri genitori, anche se l'unica prova che ho è una sensazione nelle ossa: che nessuno dei due aveva mai fatto capire all'altro, in qualche modo, che desiderava che morissimo.
Hic!
Ma poi ci fu un bang nel caminetto. Il vapore doveva esser sfuggito da una sacca in un ceppo saturo di linfa. Sì, e nostra madre, che come tutti gli altri esseri viventi era una sinfonia di reazioni chimiche, lanciò un urlo di terrore. Le sue sostanze chimiche esigevano che strillasse come reazione al bang. Dopo che l'ebbero costretta a far questo, però, le sostanze chimiche pretesero ben altro da lei. Ritenevano che per nostra madre fosse venuto il momento di dire cosa provava realmente per Eliza e per me. E fu quello che fece. Ma tantissime altre cose impazzirono quando parlò. Le sue mani si chiusero convulsamente. La sua spina dorsale si piegò e il suo viso si raggrinzì trasformandola in una vecchia strega.
«Li odio, li odio, li odio» disse.
E non passarono molti secondi prima che nostra madre dicesse con schiumante chiarezza cos'era che odiava. «Odio Wilbur Rockefeller Swain ed Eliza Mellan Swain» disse. | << | < | > | >> |Pagina 102Fedor Michailovich Dostoevskij, il romanziere russo, disse un giorno che «un sacro ricordo dell'infanzia è forse l'educazione migliore». Posso pensare a un'altra forma di educazione accelerata per un bambino che, a suo modo, è quasi altrettanto salutare: conoscere un essere umano che goda la massima stima nel mondo degli adulti e accorgersi che quell'individuo è in realtà un pazzo criminale.
Questa fu la nostra esperienza, mia e di Eliza, con la dottoressa
Cordelia Swain Cordiner, che era ritenuta la massima esperta mondiale in materia
di test psicologici: con la possibile eccezione della Cina. Nessuno sapeva più
cosa stesse succedendo in Cina.
Ho un'
Encyclopaedia Britannica
qui nell'atrio dell'Empire State Building, ed è questo il motivo per cui posso
dare a Dostoevskij il suo secondo nome.
Quand'era in presenza di adulti la dottoressa Cordelia Swain Cordiner faceva sempre un'ottima impressione. Vestiva sempre con eleganza per tutto il tempo che passava nella villa: scarpe con tacco alto, abiti alla moda e gioielli. Una volta sentimmo i nostri genitori dire: «Solo perché una donna ha tre lauree e dirige una società di ricerche con un fatturato di tre milioni di dollari l'anno, non significa che non possa avere la sua femminilità». Ma quando eravamo soli con lei la paranoia la faceva fremere. «Pochi scherzi con me, basta con i vostri scherzi da mocciosi milionari» diceva.
Mentre io ed Eliza non avevamo fatto niente di male.
Era così esasperata dai soldi e dal potere della nostra famiglia, e così disgustata, che non si accorse mai, secondo me, di quant'eravamo grossi e brutti Eliza e io. Per lei eravamo soltanto altri due bambini ricchi e viziati. «Io non sono nata con un cucchiaio d'argento in bocca» ci disse, non una ma molte volte. «Più di una volta non sapevamo da dove sarebbe saltato fuori il prossimo pasto» diceva. «Avete idea di quello che vuol dire?». «No» diceva Eliza. «Certo che no» diceva la dottoressa Cordiner.
E così via.
Dal momento che era paranoide, era una cosa particolarmente sfortunata che il suo secondo nome fosse uguale al nostro cognome. «Non sono la vostra dolce zia Cordelia» diceva. «Non occorre che vi lambicchiate i vostri aristocratici cervellini. Quando mio nonno arrivò qui dalla Polonia, si cambiò il nome da Stankowitz a Swain». I suoi occhi fiammeggiavano. «Dite 'Stankowitz'!». Obbedimmo. «Ora dite 'Swain'» disse lei.
Obbedimmo.
E alla fine uno di noi le chiese perché fosse tanto arrabbiata. Questo la calmò immediatamente. «Non sono arrabbiata» disse. «Per me sarebbe assai poco professionale arrabbiarmi per qualcosa. Tuttavia, lasciatemi dire che chiedere a una donna del mio calibro di fare tanta strada, in questo deserto, per esaminare personalmente solo due bambini, è come chiedere a Mozart di accordare il piano. E come chiedere ad Albert Einstein di fare il saldo su un libretto di assegni. Mi sono spiegata 'signorina Eliza e signorino Wilbur', come credo che vi facciate chiamare?». «Allora perché è venuta?» le chiesi io.
Lei ebbe un nuovo accesso di rabbia. Poi mi disse, con tutta la cattiveria
possibile: «Perché i soldi sono convincenti, 'piccolo Lord Fauntleroy'».
La seconda sorpresa fu quando si venne a sapere che voleva interrogarci separatamente. Noi spiegammo innocentemente che avremmo dato molte risposte corrette in più se ci fosse stato permesso di consultarci. Lei divenne una torre d'ironia. «Ma certo, signorino e signorina» disse. «E non vorreste avere con voi nella stanza anche un'enciclopedia, e magari il senato accademico dell'università di Harvard, per suggerirvi le risposte, nel caso non foste sicuri?». «Sarebbe bello» dicemmo. «Se nessuno ve l'avesse ancora detto» disse lei, «questi sono gli Stati Uniti d'America, dove nessuno ha il diritto di contare sull'aiuto di qualcun altro: dove tutti devono imparare a farsi strada da soli». «Io sono qui per interrogarvi» disse lei, «ma c'è anche una fondamentale regola di vita che mi piacerebbe insegnarvi, e per la quale mi ringrazierete negli anni che verranno». La lezione era questa: «Ognuno si metta ai remi e spinga avanti la sua canoa». Poi ci domandò: «Siete capaci di dirlo e di tenerlo a mente?». Non soltanto ero capace di dirlo, ma l'ho tenuto a mente fino a oggi: «Ognuno si metta ai remi e spinga avanti la sua canoa».
Hic!
Così ci mettemmo ai remi e spingemmo avanti le nostre canoe. Ci interrogarono individualmente al tavolo d'acciaio inossidabile nella sala da pranzo piastrellata. Quando uno di noi era là dentro con la dottoressa Cordiner, con «zia Cordelia», come finimmo per chiamarla in privato, l'altro veniva condotto il più lontano possibile, nella sala da ballo in cima alla torre dell'ala nord della villa. Withers Witherspoon era incaricato di sorvegliare quello di noi che si trovava nella sala da ballo. Fu scelto per questo incarico perché aveva fatto il soldato. Udimmo le istruzioni che gli diede «zia Cordelia». Lo pregò di notare se esisteva la possibilità che io ed Eliza comunicassimo telepaticamente. La scienza occidentale, con qualche indizio ricavato dai cinesi, aveva finalmente riconosciuto che certe persone potevano comunicare con certe altre senza segnali visivi o sonori. I trasmettitori e i ricevitori di quegli inquietanti messaggi si trovavano sulla superficie dei seni nasali e tali cavità dovevano essere sane e sgombre da ostruzioni. L'indizio principale che i cinesi avevano dato all'Occidente era stata questa frase sconcertante, pronunciata in inglese, che aveva richiesto anni per essere decifrata: «Mi sento così solo quando ho la febbre da fieno o il raffreddore».
Hic!
| << | < | > | >> |Pagina 167Parlai della solitudine in America. Era proprio l'argomento che ci voleva per vincere, e questo fu un colpo di fortuna. Era anche l'unico argomento che avessi.Era un peccato, dissi, che non mi fossi presentato prima, nella storia dell'America, col mio piano antisolitudine semplice e funzionale. Tutti gli eccessi rovinosi degli americani nel passato, dissi, erano motivati dalla solitudine più che da un'inclinazione al peccato. Dopo il comizio un vecchio mi abbordò e mi disse che una volta lui comprava assicurazioni sulla vita, fondi comuni d'investimento, elettrodomestici, automobili e così via, non perché gli piacessero o ne avesse bisogno, ma perché il venditore sembrava promettere di essergli parente, e così via. «Non avevo parenti e avevo bisogno di parenti» disse. «È così per tutti» dissi io. Lui mi disse che per qualche tempo era stato un ubriacone, nel tentativo di farsi dei parenti tra la gente che incontrava al bar. «Il barista era una specie di padre, sa...» disse. «E poi, tutt'a un tratto, veniva l'ora di chiudere». «Lo so» dissi. E gli confidai una mezza verità su me stesso che aveva avuto grandissimo successo durante la campagna elettorale. «Una volta ero così solo» dissi, «che l'unica creatura con la quale potevo dividere i miei reconditi pensieri era una cavalla di nome Budweiser».
E gli raccontai com'era morta Budweiser.
Durante questa conversazione mi portavo ripetutamente la mano alla bocca, come per soffocare un'esclamazione e così via. In realtà non facevo che mettermi in bocca delle minuscole pillole verdi. Allora erano già state vietate, e non se ne producevano più. Io ne avevo forse uno staio, nel mio ufficio del senato. Quelle pillole spiegavano la mia instancabile cortesia e il mio ottimismo, e forse anche il fatto che non invecchiavo con la stessa rapidità degli altri. Avevo settant'anni, ma ero vigoroso come un uomo che ne avesse la metà.
Mi ero anche trovato una moglie nuova e carina, Sophie Rothschild Swain, che
ne aveva appena ventitré.
«Se la eleggeranno Presidente, e mi vedrò assegnare tutti questi nuovi parenti artificiali...» disse l'uomo. S'interruppe. «Quanti ha detto che saranno?». «Diecimila fratelli e sorelle» gli dissi. «Centonovantamila cugini». «Non sono troppi?» disse lui. «Non abbiamo appena riconosciuto di aver bisogno di tutti i parenti che si possono avere in un Paese grande e malfatto come il nostro?» dissi. «Se lei dovesse andare nel Wyoming, diciamo, non la rasserenerebbe sapere che vi ha molti parenti?». Lui ci pensò su. «Be', sì...immagino» disse finalmente. «Come ho detto nel mio discorso» gli spiegai, «il suo nuovo secondo nome consisterebbe in un sostantivo, il nome di un fiore o di un frutto o di una noce o di un ortaggio o di un legume, o di un uccello o di un rettile o di un pesce o di un mollusco, o di una gemma o di un minerale o di un elemento chimico, unito da un trattino a un numero tra l'uno e il venti». Gli chiesi qual era il suo nome in quel momento. «Elmer Glenville Grasso» disse lui. «Be'» dissi, «lei potrebbe diventare Elmer Uranio-3 Grasso, diciamo. Tutti quelli con Uranio nel loro secondo nome sarebbero suoi cugini».
«Questo mi riporta alla mia prima domanda» disse lui. «E se mi affibbiano un
parente artificiale che non posso assolutamente soffrire?».
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