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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 6 Introduzione, di Josiah Ober e Stephen Macedo 7 |
| << | < | > | >> |Pagina 23Noi approviamo e disapproviamo perché non possiamo fare altrimenti. Possiamo fare a meno di provare dolore quando il fuoco ci brucia? Possiamo fare a meno di provare compassione per i nostri amici?
Edward Westermarck, 1908
Perché la nostra cattiveria dovrebbe essere il retaggio del nostro passato
scimmiesco e la nostra bontà qualcosa di unicamente umano? Perché non cercare
anche nei nostri tratti «nobili» una continuità con gli altri animali?
Stephen Jay Gould,
Homo homini lupus, «l'uomo è un lupo per l'uomo», è un antico proverbio latino reso celebre da Thomas Hobbes. Nonostante il principio di fondo che lo ispira informi ampi settori del diritto, dell'economia e della scienza della politica, questo proverbio contiene due gravi errori. Innanzitutto, non rende giustizia ai canidi, che sono fra gli animali più gregari e cooperativi del pianeta (Schleidt e Shalter 2003). Ma, cosa ancor peggiore, il detto nega l'intrinseca natura sociale della nostra specie. La teoria del contratto sociale, e con essa la civiltà occidentale, sembrano impregnate fino alla saturazione dal presupposto che noi siamo degli esseri asociali, addirittura delle creature malvagie e non lo zoon politikon che Aristotele vedeva in noi. Hobbes rifiutava esplicitamente l'idea aristotelica, sostenendo che alla loro apparizione i nostri progenitori erano autonomi e bellicosi, e giunsero a stabilire forme di vita comunitaria solo quando il prezzo della lotta era diventato insostenibile. Secondo Hobbes noi non siamo pervenuti alla vita sociale in modo naturale, ma abbiamo intrapreso questo passo con riluttanza e «solo per un patto, che è artificiale» (Hobbes 1991 [1651], p. 120). In tempi più recenti, Rawls (1972) ha riproposto la stessa idea in una versione meno aspra, aggiungendo che il passaggio alla socialità compiuto dal genere umano prende le mosse da una riconosciuta condizione di parità, vale a dire da una prospettiva di cooperazione tra eguali reciprocamente vantaggiosa. Queste idee su come abbia avuto origine la società ordinata sono tuttora in auge, anche se il presupposto che le sostiene, quello di una decisione razionale presa da creature intrinsecamente asociali, è indifendibile alla luce di ciò che sappiamo sull'evoluzione della nostra specie. Hobbes e Rawls ci danno l'immagine illusoria che la società umana sia il frutto di un accordo volontario fatto in base a regole autonomamente scelte e accettate da soggetti liberi e pari tra loro. Eppure non c'è mai stato un momento in cui siamo diventati sociali: in quanto discendenti di antenati estremamente sociali – una lunga progenie di scimmie e grandi scimmie – viviamo da sempre in gruppo. Individui liberi e pari tra loro non sono mai esistiti. Gli esseri umani hanno mosso i loro primi passi – sempre che si possa individuare un primo passo – già da individui interdipendenti, reciprocamente vincolati e diseguali tra loro. Siamo il risultato di una lunga genealogia di animali gerarchici per i quali la vita di gruppo non è un'opzione, ma una strategia di sopravvivenza. Qualsiasi zoologo classificherebbe la nostra specie come obbligatoriamente gregaria. Poter contare su dei compagni procura enormi vantaggi nella ricerca di cibo e nella difesa dai predatori (Wrangham 1980; van Schaik 1983). Poiché gli individui predisposti alla vita di gruppo lasciano una prole più numerosa di quelli meno inclini alla vita sociale (per esempio Silk e altri 2003), la socialità si è radicata sempre più profondamente nella biologia e nella psicologia dei primati. Se mai decisione fu presa di costituire delle società, piuttosto che a noi il merito andrebbe attribuito a Madre Natura. Questo non vuol dire liquidare il valore euristico della «situazione originaria» di Rawls, proprio perché è un modo per farci riflettere su qual è il tipo di società in cui ci piacerebbe vivere. La sua idea di situazione originaria si riferisce a «una situazione puramente ipotetica caratterizzata in modo tale da portare a determinate concezioni della giustizia» (Rawls 1972, p. 12). Ma anche se non prendiamo la situazione originaria alla lettera e la teniamo presente solo per il gusto di discutere, essa ci fa pur sempre deviare dal dibattito più pertinente che dovremmo approfondire, vale a dire come siamo realmente giunti a essere ciò che siamo oggi. Quali parti della natura umana ci hanno condotto lungo questo cammino e in che modo l'evoluzione ha forgiato tali parti? Queste domande, rivolte a un passato reale anziché ipotetico, sono destinate a portarci più vicino alla verità, ovvero al fatto che siamo esseri sociali fin nell'essenza. A titolo di illustrazione della natura profondamente sociale della nostra specie basti pensare che, subito dopo la pena di morte, la punizione massima che possiamo concepire è la cella di isolamento. Funziona così bene, evidentemente, proprio perché non siamo venuti al mondo per vivere da soli. I nostri corpi e le nostre menti non sono stati progettati per vivere una vita da cui gli altri siano assenti. Senza il sostegno della socialità cadiamo in una depressione disperata e la nostra salute peggiora. In un esperimento fatto di recente, dei volontari sani intenzionalmente esposti al virus del raffreddore e dell'influenza si ammalavano con maggior facilità se attorno a loro avevano meno amici e familiari (Cohen e altri 1997). Se le donne colgono naturalmente l'importanza di un sistema di relazioni – forse perché per centottanta milioni di anni le femmine dei mammiferi con tendenze all'accudimento si sono riprodotte di più rispetto a quelle che ne erano carenti – la cosa riguarda ugualmente anche gli uomini. Nella società moderna non c'è modo migliore per gli uomini di allungare la prospettiva di vita che quella di ammogliarsi e di rimanere sposati: la possibilità di vivere oltre i sessantacinque anni aumenta dal 65 al 90 per cento (Taylor 2002). La nostra indole sociale è talmente evidente che non dovrebbe esserci bisogno di insistere su questo punto, se la sua assenza non balzasse agli occhi nelle narrazioni che riguardano le nostre origini in discipline come il diritto, l'economia e la scienza della politica. In Occidente la tendenza a leggere le emozioni come qualcosa di labile, e i legami affettivi di tipo sociale come qualcosa di confuso, ha fatto sì che i teorici si siano volti alle facoltà cognitive come criterio-guida privilegiato del comportamento umano. È il trionfo della razionalità. Tutto questo nonostante la ricerca psicologica affermi il primato dell'affettività: vale a dire che il comportamento umano deriva soprattutto da giudizi immediati e automatici di tipo emozionale e solo secondariamente da più lenti processi coscienti (per esempio Zajonc 1980, 1984; Bargh e Chartrand 1999). Il risalto dato all'autonomia individuale e alla razionalità, a cui corrisponde una disattenzione nei confronti delle emozioni e dei legami affettivi, purtroppo non è circoscrivibile agli studi umanistici e alle scienze sociali. Anche all'interno della biologia dell'evoluzione alcuni hanno sposato l'idea che noi siamo una specie che si è inventata da sola. Parallelamente ha imperversato un dibattito che mette in competizione la ragione con le emozioni e che ha come oggetto le origini della moralità, marchio distintivo della società umana. Una scuola di pensiero vede la moralità come un'innovazione culturale raggiunta solo dalla nostra specie e non riconosce le tendenze morali come parte integrante della natura umana. I nostri progenitori, si sostiene, sarebbero diventati morali per scelta. L'altra scuola, invece, concepisce la moralità come conseguenza diretta degli istinti sociali che abbiamo in comune con altri animali e, nella sua visione, la moralita non è una nostra peculiarità, né l'effetto di una decisione consapevole presa in un momento specifico della nostra storia, ma il risultato dell'evoluzione della nostra socialità. Il primo di questi punti di vista presuppone che in fondo non siamo veramente morali e considera la moralità come un rivestimento culturale, una patina sottile che cela al di sotto una natura per altri versi egoista e brutale. Fino a poco tempo fa, era questo l'approccio alla moralità che prevaleva all'interno della biologia dell'evoluzione come tra gli scrittori scientifici che fanno opera di divulgazione in questo campo. Farò uso del termine «teoria della patina» per indicare queste idee, delineandone le origini nella riflessione di Thomas Henry Huxley, anche se evidentemente nella filosofia e nella religione occidentali risalgono molto più indietro, fino al concetto di peccato originale. Dopo aver discusso queste idee, esaminerò il punto di vista completamente diverso di Charles Darwin sull'evoluzione della moralità, da lui derivato dall'illuminismo scozzese. Infine prenderò in esame le opinioni di Mencio e di Westermarck che coincidono con quelle di Darwin. Delineato questo contrasto di opinioni che vede la continuità opporsi alla discontinuità con gli animali, ripercorrerò poi un mio testo precedente (de Waal 1996) per prestare particolare attenzione al comportamento dei primati non umani, al fine di spiegare perché penso che dal punto di vista evolutivo gli elementi costitutivi della moralità siano molto più antichi. | << | < | > | >> |Pagina 77L'interesse per la comunitàIn questo saggio ho delineato il netto contrasto tra due scuole di pensiero riguardo alla bontà umana. Una scuola considera gli uomini essenzialmente cattivi ed egoisti, e di conseguenza la moralità come un puro e semplice rivestimento culturale. Questa scuola, rappresentata da T.H. Huxley, è tuttora molto in auge, anche se ho notato che a nessuno (neanche a quelli che ne sostengono esplicitamente le posizioni) piace esser definito «teorico della patina». Magari è l'appellativo a non piacere o il fatto che, una volta messi a nudo i presupposti su cui si appoggia la teoria della patina, diventa chiaro che essa non fornisce nessuna spiegazione su come noi da animali amorali siamo diventati degli esseri morali – a meno che non si sia disposti a intraprendere la strada puramente razionalista dei moderni seguaci di Hobbes, come per esempio Gauthier (1986). La teoria non si accorda con le prove che dimostrano che l'elaborazione emozionale è la forza trainante del giudizio morale. Se la moralità umana potesse veramente essere ridotta a calcolo e ragionamento, saremmo più o meno tutti degli psicopatici che, quando si comportano in modo gentile, in realtà non intendono affatto esserlo. La maggioranza di noi spera di essere qualcosa di meglio di questo, e da qui potrebbe nascere l'antipatia per la contrapposizione senza compromessi che faccio tra la teoria della patina e la scuola alternativa, che invece cerca di fondare la moralità nella natura umana. Questa scuola pensa che nella nostra specie la moralità si manifesti in modo naturale e crede che per le capacità che in essa sono in gioco ci siano valide ragioni evolutive. Ciò non toglie che la struttura teorica che serve a spiegare la transizione dall'animale sociale all'essere umano morale è del tutto frammentaria. Le sue fondamenta sono la teoria della selezione di parentela e quella dell'altruismo reciproco, ma è chiaro che bisognerà aggiungervi altri elementi. A volersi documentare su temi come la costruzione della reputazione, i principi di equità, l'empatia e la risoluzione dei conflitti (in svariate pubblicazioni che qui non possono essere esaminate), si scoprirà che esiste un orientamento che fa ben sperare verso una teoria maggiormente integrata su come possa essersi formata la moralità (si veda Katz 2000). Va inoltre osservato che le pressioni evolutive responsabili delle nostre tendenze morali magari non sono state tutte gentili e positive. Dopo tutto la moralità è in gran parte un fenomeno interno al gruppo. Sempre e ovunque gli esseri umani si comportano con gli esterni al loro gruppo in maniera molto peggiore di quanto facciano con i membri della loro stessa comunità: le regole morali, in effetti, difficilmente sembrano valere all'esterno del proprio gruppo. È vero che nella modernità esiste un orientamento ad allargare il cerchio della moralità e a includervi anche i combattenti nemici – per esempio la convenzione di Ginevra adottata nel 1949 – ma tutti sappiamo quanto fragile sia un progetto come questo. Con tutta probabilità la moralità si è evoluta come un fenomeno interno al gruppo insieme ad altre capacità che di solito si sviluppano all'interno del gruppo, come la risoluzione dei conflitti, la cooperazione e la spartizione. Ogni individuo però è fedele per prima cosa non al gruppo, ma a sé stesso e ai propri familiari. Con l'aumento dell'integrazione sociale e della dipendenza dalla cooperazione, gli interessi condivisi devono essere emersi alla superficie, al punto che la comunità nel suo complesso è diventata il punto di riferimento. Il più grande passo compiuto nell'evoluzione della moralità umana è stato il passaggio dalle relazioni interpersonali all'individuazione di un bene più grande. Possiamo vederne gli albori nelle antropomorfe quando intervengono per appianare i rapporti tra gli altri. Le femmine possono riunire i maschi dopo una lite tra loro, e quindi fanno da intermediarie di una riconciliazione, mentre i maschi, quando di rango superiore, mettono spesso fine alle lotte tra gli altri in maniera imparziale, favorendo così la pace all'interno del gruppo. Considero un comportamento di questo genere il riflesso dell' interesse per la comunità (de Waal 1996), che a sua volta riflette la compartecipazione che ogni membro del gruppo ha all'interno di un ambiente cooperativo. La maggioranza degli individui avrebbe molto da perdere se la comunità si sfasciasse, da qui il loro interesse affinché si preservi integra e armoniosa. Boehm (1999), prendendo in esame questioni di questo tipo, ha aggiunto il ruolo esercitato dalla pressione sociale, almeno per quanto riguarda gli esseri umani: l'intera comunità si impegna a gratificare un comportamento che favorisce il gruppo e a punire quello che lo indebolisce. Naturalmente, la forza più potente per sviluppare il senso di comunità è l'ostilità nei confronti degli esterni al gruppo, che costringe all'unità elementi che normalmente non sarebbero in armonia. Questo magari allo zoo non si vede, ma è sicuramente un elemento in atto tra gli scimpanzé allo stato selvatico, in cui si manifesta una violenza letale tra una comunità e l'altra (Wrangham e Peterson 1996). Nella nostra specie non c'è nulla di più ovvio che unirsi contro gli avversari. Nel corso dell'evoluzione umana l'ostilità verso gli esterni ha rafforzato la solidarietà tra gli interni al gruppo fino a fare apparire la moralità. Anziché semplicemente migliorare i rapporti che ci stanno intorno, come fanno le scimmie antropomorfe, noi abbiamo espliciti precetti che riguardano il valore della comunità e la precedenza che le spetta, o dovrebbe spettarle, rispetto agli interessi individuali. In questo campo gli uomini si spingono ben più in là delle scimmie antropomorfe (Alexander 1987), motivo per cui noi possediamo sistemi morali e le grandi scimmie no. E così il culmine del paradosso è che la nostra più alta acquisizione, la moralità, ha dei legami sul piano evolutivo con il nostro comportamento più basso, la guerra: il senso di comunità che esige la prima è stato fornito dalla seconda. Quando abbiamo superato il punto di equilibrio tra interessi individuali in conflitto e interessi condivisi, abbiamo aumentato la pressione sociale per assicurarci che tutti contribuissero al bene comune. Se accettiamo quest'idea di una moralità frutto dell'evoluzione e risultato logico delle tendenze alla cooperazione, non andiamo contro la nostra natura sviluppando un atteggiamento soccorrevole e morale, più di quanto non faccia una società civile che è, come pensava Huxley (1989 [1894]), un ingovernabile giardino tenuto a bada da un infaticabile giardiniere. I comportamenti morali ci hanno accompagnato fin dalle origini e il giardiniere, come ha notato giustamente Dewey, è piuttosto un coltivatore organico. Il giardiniere capace crea le condizioni per introdurre specie vegetali che possono essere estranee a questo specifico appezzamento di terra «ma che fanno parte dell'uso e costume della natura nel suo insieme» (Dewey 1993 [1898], pp. 109-10). In altri termini, quando agiamo in nome di un senso morale non stiamo ipocritamente ingannando tutti: prendiamo delle decisioni che derivano da istinti sociali che sono più antichi della nostra specie, anche se vi aggiungiamo la complessità esclusivamente umana di un interesse senza secondi fini nei confronti degli altri e della societa nel suo complesso. Sulle tracce di Hume (1985 [1739]), che considerava la ragione schiava delle passioni, Haidt (2001) ha invocato una revisione completa del ruolo giocato dalla razionalità nel giudizio morale, sostenendo che la giustificazione umana sembra presentarsi alla mente per la quasi totalità post hoc, ovvero dopo che i giudizi morali sono stati conseguiti sulla base di intuizioni rapide e automatiche. Mentre la teoria della patina, con la sua enfasi sulla peculiarità umana, presumeva che la risoluzione dei problemi morali fosse da attribuire ad ampliamenti evolutivi recenti del nostro cervello come la corteccia prefrontale, le tecniche di neuroimaging rivelano invece che il giudizio morale coinvolge un'ampia varietà di aree del cervello, di cui alcune molto antiche (Greene e Haidt 2002). In poche parole, le neuroscienze sembrano accreditare un'idea della moralità umana come evolutivamente ancorata alla socialità dei mammiferi. | << | < | > | >> |Pagina 193Mentre l'attenzione dei miei stimati colleghi si concentra su ciò che sembra mancare agli altri primati anziché su ciò che è presente in loro, da parte mia ho cercato di porre in evidenza invece le caratteristiche che abbiamo in comune con essi. Ciò riflette íl mio desiderio di contrastare l'idea che la moralità umana per certi versi sia in contraddizione con le nostre origini animali o addirittura con la natura in generale. Non manco di apprezzare comunque l'appoggio di tutti a questa mia posizione e concordo con le loro ripetute sollecitazioni a considerare anche gli aspetti di discontinuità. Quindi questo è quanto intendo più o meno fare questa volta, a cominciare dalla mia definizione di moralità.
Tranne che io, naturalmente, non parlerei mai di «discontinuità».
L'evoluzione non avviene mai per salti: le
nuove caratteristiche sono modificazioni delle vecchie, di
modo che specie strettamente legate tra loro pervengono
a una differenziazione solo per gradi. Anche se la moralità umana rappresenta un
significativo passo in avanti, difficilmente rompe con il passato.
Inclusione morale e fedeltà La moralità è un fenomeno che si rivolge al gruppo, sorto dal fatto che noi per sopravvivere dipendiamo da un sistema di sostegno (MacIntyre 1999). Una persona isolata non avrebbe alcun bisogno della moralità e nemmeno una persona che vive con gli altri senza avere dipendenze reciproche. In circostanze di questo tipo ogni individuo può procedere per la propria strada. Non ci sarebbe nessuna pressione per sviluppare costrizioni sociali o tendenze morali. Al fine di favorire la cooperazione e l'armonia all'interno della comunità, la moralità definisce limiti al comportamento, soprattutto quando gli interessi entrano in collisione. Le regole morali danno luogo a un modus vivendi tra ricchi e poveri, sani e malati, vecchi e giovani, sposati e non sposati e così via. Poiché la moralità contribuisce a far andar d'accordo le persone e alla riuscita di sforzi congiunti, spesso pone il bene comune al di sopra degli interessi individuali. Non li nega mai, ma insiste sul fatto di trattare gli altri nel modo in cui noi stessi vorremmo essere trattati. In maniera più specifica, il campo d'azione della moralità è Aiutare o (non) Arrecare danno agli altri (de Waal 2006). Le due A sono interconnesse. Se stai annegando e mi rifiuto di aiutarti, in effetti sto arrecandoti un danno. La decisione di aiutare o meno è, a detta di tutti, una decisione di tipo morale. Qualsiasi cosa che non sia in rapporto con le due A esula dalla moralità. Coloro che si appellano alla moralità in rapporto, per esempio, ai matrimoni tra persone dello stesso sesso o alla visione di un seno nudo in televisione in prima serata, stanno semplicemente cercando di occultare le convenzioni sociali sotto un linguaggio morale. Poiché le convenzioni sociali non sono necessariamente ancorate ai bisogni degli altri o a quelli della comunità, spesso il male che si compie trasgredendole è opinabile. Le convenzioni sociali possono variare enormemente: ciò che all'interno di una cultura la gente trova scandaloso (come per esempio ruttare dopo un pasto), magari è auspicabile che accada in un'altra. Frenate dall'impatto che hanno sul benessere degli altri, le regole morali invece sono di gran lunga più costanti delle convenzioni sociali. La regola aurea è universale. Le questioni morali della nostra epoca – la pena capitale, l'aborto, l'eutanasia e l'assistenza agli anziani, ai malati o ai poveri – ruotano tutte intorno ai temi eterni della vita, della morte, delle risorse e dell'accudimento. Le risorse decisive in relazione con le due A sono il cibo e i partner sessuali, entrambi soggetti alle regole del possesso, della spartizione e dello scambio. Il cibo è importantissimo per le femmine dei primati, soprattutto quando sono incinte o allattano (cioè in condizioni in cui si trovano frequentemente), e le partner sessuali sono importantissime per i maschi, il cui successo riproduttivo dipende dal numero di femmine fecondate. Questo può forse spiegare il notorio «doppio standard» che favorisce gli uomini nei casi delle infedeltà coniugali. Le donne, da parte loro, tendono a essere favorite nei casi di affidamento dei figli, cosa che rispecchia il primato attribuito al legame madre-figlio. Quindi, anche se ci battiamo a favore di modelli morali senza connotazione di genere, i giudizi che riguardano la vita reale non sono immuni dalla biologia dei mammiferi. Di rado un sistema morale vitale lascia che le sue regole si distacchino dagli imperativi biologici della sopravvivenza e della riproduzione. Visto quanto il privilegio riservato al proprio gruppo ha servito efficacemente l'umanità per milioni di anni, e quanto efficacemente ancora ci serve, è impossibile che un sistema morale mostri pari considerazione nei confronti di tutte le forme di vita sulla terra. Il sistema deve stabilire delle priorità. Come notava Pierre-Joseph Proudhon oltre un secolo fa: «Se tutti sono miei fratelli, allora non ho fratelli» (Hardin 1982). Se a un certo livello Peter Singer ha ragione a dichiarare che tutto il dolore del mondo ha la stessa importanza («Se un animale prova dolore, il dolore assume la stessa importanza di quando è un essere umano a provarlo»), a un altro livello questa affermazione si scontra frontalmente con la distinzione tra interni ed esterni al gruppo che abbiamo nel sangue (Berreby 2005). I sistemi morali per loro natura privilegiano gli interni al gruppo. La moralità si è evoluta innanzitutto per avere rapporti con la propria comunità e solo di recente ha cominciato a includere i membri di altri gruppi, l'umanità in generale e gli animali non umani. Nel momento in cui si plau- de all'espansione del cerchio, questa espansione risulta condizionata dalla disponibilità economica, vale a dire che i cerchi si possono allargare in tempi di abbondanza, ma si restringeranno inevitabilmente nel momento in cui le risorse si assottiglieranno (figura 9). Questo accade perché i cerchi demarcano il livello di obbligo. Come ho già avuto modo di dire: «Il cerchio della moralità si amplia sempre più solo quando la buona salute e la sopravvivenza dei cerchi più interni siano assicurate» (de Waal 1996, p. 213). Poiché per il momento viviamo in circostanze di benessere, possiamo (e dobbiamo) preoccuparci per coloro che sono al di fuori della nostra stretta cerchia. Ciononostante, un rapporto ad armi pari, in cui tutti i circoli contano allo stesso modo, va a cozzare con le antiche strategie di sopravvivenza. Non siamo solo parziali in favore dei circoli più interni (noi stessi, la nostra famiglia, la nostra comunità, la nostra specie), noi sentiamo il dovere di esserlo. La fedeltà è un dovere morale. Se durante un periodo di carestia diffusa, dopo un giorno passato alla ricerca di cibo, tornassi a casa a mani vuote e dicessi a quelli della mia famiglia affamata che avevo trovato del pane ma l'ho regalato, ne rimarrebbero completamente sconvolti. La cosa verrebbe considerata come una catastrofe morale, come un'ingiustizia, non perché i beneficiari del mio comportamento non meritassero sostentamento, ma in razione del mio dovere nei confronti di coloro che mi sono vicini. Il contrasto diventa ancora più evidente durante una guerra, quando la solidarietà con la propria tribù o con la propria nazione è obbligatoria: da un punto di vista morale, il tradimento per noi è cosa riprovevole. | << | < | > | >> |Pagina 216ConclusioneLa questione se la moralità umana operi su tendenze preesistenti è senza dubbio l'argomento centrale di questo libro. La discussione con i miei colleghi mi ha fatto pensare a quel consiglio che Wilson (1975, p. 562) ci ha dato trent'anni fa secondo il quale «è venuta l'ora di strappare temporaneamente l'etica dalle mani dei filosofi e di biologizzarla». Al momento sembriamo essere a metà di questo processo, non perché abbiamo messo i filosofi da parte, ma proprio perché li abbiamo resi partecipi, così che i fondamenti evolutivi della moralità umana possano essere illuminati da diverse prospettive disciplinari.
Non prendere in considerazione le basi che abbiamo in
comune con gli altri primati e negare le radici evolutive
della moralità umana sarebbe come arrivare in cima a una
torre per dichiarare che il resto dell'edificio è irrilevante,
che il prezioso concetto di «torre» debba essere riservato
solo alla sua sommità. Mentre può servire a fare delle belle risse accademiche,
per il resto la semantica è per lo più
una perdita di tempo. Gli animali sono esseri morali? Concludiamo semplicemente
dicendo che occupano parecchi
piani della torre della moralità. Rifiutare perfino questa
modesta proposta può portare solo a una visione ben più
misera che non coglie l'edificio nella sua interezza.
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