Copertina
Autore Nathan Wachtel
Titolo La logica dei roghi
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2010, , pag. XVIII+234, cop.fle., dim. 15x23x2 cm , Isbn 978-88-02-08268-4
OriginaleLa logique des bûchers
EdizioneSeuil, Paris, 2009
CuratoreFranco Motta
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe storia moderna , storia: Europa , storia: America , storia criminale , religione , paesi: Portogallo , paesi: Spagna , paesi: Brasile
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Indice


VII Prefazione.   Nei sotterranei della modernità
                  di Franco Motta

  3 Introduzione. Modernità dell'Inquisizione

 17 Ringraziamenti


 19 Capitolo 1 - Denunce

 25 Capitolo 2 - Meccanismi della confessione

 75 Capitolo 3 - Negazioni

 97 Capitolo 4 - Scene di vita carceraria

135 Capitolo 5 - Destini incrociati

151 Conclusione


161 Glossario
165 Note
217 Bibliografia
227 Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Prefazione

Nei sotterranei della modernità

Franco Motta


Detenuti che si accordano in segreto su programmi di accuse reciproche e pianificano alla perfezione la cadenza delle confessioni, inquisitori che suggeriscono le risposte agli imputati, elenchi di reclusi che corrono da una cella all'altra. E poi squarci di quotidiano carcerario dominati dalla più cupa follia o, altrove, da una comicità tragica e disarmante: Simão Rodrigues, che termina il viaggio della sua deportazione in Brasile come un indemoniato, insozzandosi dei propri escrementi; Alvaro Rois, che esaspera i giudici rilasciando confessioni sempre diverse; Felis Nunes, che intasa la cella del fumo della pipa impedendo, senza saperlo, la sorveglianza... La logica dei roghi descritta da Nathan Wachtel si snoda lungo itinerari che costringono il lettore a scarti continui e imprevedibili rispetto alla narrazione abituale del mondo storico dell'Inquisizione.

Le storie di vite spezzate dal carcere che si dipanano e si intrecciano lungo le pagine di questo volume portano un luogo, una data e dei protagonisti precisi: i cristãos novos portoghesi — i «nuovi cristiani» di origine ebraica – giudicati dal tribunale inquisitoriale di Lisbona fra il 1680 e il 1740 circa. Il tema non è nuovo, se non, almeno parzialmente, per il fatto che è il Brasile, anziché la metropoli, la terra di residenza della maggior parte degli imputati al momento dell'arresto. Tuttavia all'interno di queste coordinate «canoniche» il filo delle vicende processuali, osservato nella microscala delle deposizioni degli imputati e dei verbali delle camere di consiglio, disegna geometrie giudiziarie inconsuete e, di primo acchito, spiazzanti.

Il rogo arriva, certo, ma non per ciascuno; soprattutto, arriva attraverso percorsi labirintici che si concludono spesso in modo inatteso. Lunghe confessioni di riti giudaici celebrati per interi decenni possono indurre i giudici alla sentenza «lieve» della riconciliazione, mentre, al contrario, la mancata ammissione di un solo digiuno praticato in cella, per poche ore, è sufficiente per la condanna a morte. Come il Minotauro nel labirinto, il rogo attende le sue vittime dietro gli angoli meno sospetti: ma a volte la via d'uscita può apparire, inattesa, alla fine di interrogatori interminabili. Chi chiede la morte, e ne è passibile in quanto relapso, cioè in quanto eretico caduto una seconda volta nell'errore dopo l'abiura, può essere risparmiato (tale è il caso, unico, di Maria de Valença, forse quello più stupefacente); chi chiede il perdono senza saper confessare ogni colpa, fin nei minimi dettagli, è condannato a morte. La logica dei roghi che si dischiude, inesorabile, lungo il cumulo delle carte studiate da Wachtel è la logica di un controllo totale e pervasivo della coscienza, ma non è una logica di arbitrio – non dal punto di vista strettamente procedurale – né di pura e semplice distruzione.

Il rogo, come detto, arriva, ma solo in ultima istanza e a conclusione di una infinita filiera istruttoria che non ammette scorciatoie né soluzioni sommarie. Il rogo, del resto – nello specifico storico del Santo ofício portoghese del primo XVIII secolo – non è l'obiettivo degli inquisitori, come non lo sono, quantomeno non direttamente, le cerimonie degli autodafé, con la loro lugubre grandiosità, sufficiente di per sé a dare un senso di vertigine. Lo è piuttosto l'esclusione sociale, quella determinata dall'infamia che colpisce chi sconta la pena dell'abiura pubblica come pure la sua discendenza, un'infamia sigillata e perpetuata dal sambenito, la tunica penitenziale dei condannati esposta nelle chiese dopo la loro morte, con l'indicazione del nome e, dunque, della famiglia; e poi, naturalmente, l'esercizio del più ancestrale dei metodi di governo, quello fondato sul terrore, giustamente evocato da Wachtel attraverso le parole di Francisco Peña, giureconsulto di Filippo II di Spagna e grande sistematore della prassi giuridica inquisitoriale: «La finalità prima del processo e della condanna a morte non è quella di salvare l'anima, bensì di procurare il bene pubblico e di terrorizzare il popolo».

Eppure anche questo livello di analisi lascia intravedere, in controluce, la presenza di motivi ulteriormente sottesi, più sgranati, attingibili per via di intuizione prima ancora che di dimostrazione. La logica del governo della segregazione e del terrore non sembra esaurire le ragioni di un dispiego di mezzi – di risorse umane e materiali – così smisurato da apparire, ai nostri occhi, persino grottesco. La caccia ai sospetti fin negli angoli più remoti del Nordeste brasiliano, nelle sconfinate distanze del sertão; la meticolosità degli interrogatori e delle ricostruzioni genealogiche, che di frequente comportano interminabili inchieste nei luoghi d'origine degli imputati; l'incredibile sistema della vigia, con il suo impiego di agenti regolarmente stipendiati e professionalizzati incaricati di spiare per mesi, dall'alba al tramonto, attraverso un pertugio, ogni singolo gesto che si consuma nei pochi metri quadrati di una cella semibuia: tutto questo evoca la nozione antropologica di dépense, di sperpero, anziché il paradigma sociologico dell'azione rivolta razionalmente al conseguimento di un scopo. Ma di ogni azione, svuotata del suo contenuto, resta il metodo, e il metodo dell'Inquisizione, nella sua nudità, costituisce l'oggetto ultimo della ricerca di Nathan Wachtel.

Soltanto a questo livello di lettura la modernità inquisitoriale emerge in tutta la sua sinistra corposità. L'espulsione dell'eresia dal corpo sociale, la pedagogia della paura, le sanzioni di infamia e di esclusione agiscono, da questo punto di vista, su di un piano sostanzialmente fenomenologico, laddove il puro funzionamento della macchina – lo spaventoso ingranaggio che macina senza sosta il tempo e le vite di coloro che ne sono presi – occupa il centro della scena con il suo procedere sordo e regolare.

Il metodo comprende la totale disponibilità dell'ultima dotazione biologica dell'uomo, il tempo; la somministrazione – somministrazione, come quella di un farmaco – cauta e controllata della tortura, che da strumento d'inchiesta volto a intercettare la verità si trasforma in freddo dispositivo di purificazione (la purificazione attraverso il dolore: eredità autenticamente cristiana, questa) e diventa, paradossalmente, atto di grazia concesso agli imputati prossimi alla riconciliazione; il ricorso a protocolli d'interrogatorio basati sulla sottilissima arte di suggerire le confessioni senza rivelare le prove a carico. Da una simile prospettiva di lettura, la difesa della purezza di fede e la repressione dell'eresia assumono un rilievo inferiore rispetto a quello che presenta l'inerziale funzionamento dell'organismo burocratico. È prima di tutto il potere, in sé e per sé, e solo in secondo luogo gli oggetti sui quali si esercita, il luogo originario dal quale si sprigiona questa Logica dei roghi.

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Introduzione

Modernità dell'Inquisizione


Così racconta Pierre Chaunu nel suo contributo al volume dedicato alla memoria di Israël Salvador Révah:

Un giorno che, timido com'ero, dovetti sembrare un po' stupito della sicurezza con la quale aveva tagliato corto sull'appartenenza di uno dei suoi espatriati [...] al «criptogiudaismo», mi disse [Révah]: «Non possono esserci dubbi: è stato condannato». «Dall'Inquisizione?» gli domandai, e la risposta schioccò, perentoria, senza ammettere repliche: «Sì. E l'Inquisizione non sbaglia mai».

L'Inquisizione non sbaglia mai.

Restai immobile, con la bocca aperta e gli occhi spalancati, finché un attimo dopo [...] ripresi timorosamente la questione con un tono interrogativo: «L'Inquisizione non sbaglia mai?» No. Categoricamente. Révah era un buon maestro. [...] Il dubbio che aveva insinuato nel mio spirito avrebbe presto lasciato spazio alla certezza.


Perché una simile certezza? L'affermazione di Révah, provocatoria come era nella sua maniera, si riferiva evidentemente alle pratiche rigorose, razionali e decisamente efficaci dei tribunali iberici dell'Inquisizione. In effetti, nel mondo ispanico e portoghese il tribunale del Sant'uffizio appariva come un'istituzione pionieristica e iniziatrice, così come lo era il nemico che per vocazione essa si trovava a combattere. Altrimenti detto, se la condizione marrana e le molteplici trasformazioni (economiche, politiche, intellettuali) indotte dal marranismo hanno grandemente contribuito alla formazione dell'Occidente moderno, lo stesso si può dire degli strumenti instaurati con lo scopo preciso di reprimere l'eresia giudaizzante: la persecuzione inquisitoriale e gli statuti di purezza del sangue rappresentano da questo punto di vista la faccia oscura e tragica, ma non meno innovatrice, della nostra modernità. Più in generale, è ormai difficile dubitare del fatto che le società dell'Europa contemporanea siano il prodotto dell'azione esercitata dall'Illuminismo così come della reazione dell'antilluminismo, che inevitabilmente costituiscono lo sfondo, opposto e complementare, sul quale esse si proiettano. Che un autore come Joseph de Maistre, «antimoderno» per eccellenza, veemente difensore della monarchia assoluta e del diritto divino, rivendichi in una brillante apologia la propria ammirazione per l'opera dell'Inquisizione, possiede una sua profonda coerenza. Dopotutto, seguendo Isaiah Berlin, possiamo considerare questa visione demaistriana, implacabile e premonitoria, come un'anticipazione dei fascismi del nostro tempo. In che cosa dunque le Inquisizioni iberiche prefigurano, per i loro metodi, per le loro dottrine e le loro conseguenze, ciò che noi oggi definiamo sistemi totalitari, di cui è comune individuare l'apogeo nel XX secolo?


*



Ricordiamo che l'Inquisizione, fondata in Spagna nel 1480, poi in Portogallo tra il 1536 e il 1540, ha per oggetto, sin dal suo esordio e per vocazione, l'estirpazione delle credenze e delle pratiche criptogiudaiche, persistenti dopo le ondate di conversioni forzate imposte agli ebrei tra la fine del XIV e la fine del XV secolo. Di fatto, la repressione dell'eresia giudaizzante era considerata un fattore necessario ai fini della tutela della purezza della fede dei nuovi cristiani come dei vecchi cristiani. Ma come si poteva raggiungere un simile risultato? Il mezzo più semplice, quello che gli inquisitori consideravano il più efficace e razionale, consisteva nell'imporre il dominio del terrore. Lo enuncia chiaramente Francisco Peña al momento di ripubblicare, nel 1578, il Directorium inquisitorum (1376) redatto a suo tempo da Nicolau Eymerich:

Bisogna ricordare che la finalità prima del processo e della condanna a morte non è quella di salvare l'anima, bensì di procurare il bene pubblico e di terrorizzare il popolo.

Certo, le altre istituzioni di polizia e di giustizia, all'epoca, non si risparmiavano per far rispettare la propria autorità: ma è ben vero che è stata prima di tutto l'Inquisizione, più di ogni altra istituzione dell'età moderna, a incutere paura. Ciò detto, guardiamo ai fantasmi evocati dalla leggenda nera inquisitoriale — il supplizio del pendolo descritto da Edgar Allan Poe, o il discorso del Grande inquisitore di Dostoevskij: ammirevoli pagine letterarie, senza dubbio, ma che non contribuiscono molto al precisarsi delle nostre conoscenze storiche. In realtà, ciò che nei mezzi impiegati dall'Inquisizione ispirava più terrore non erano le fiamme dei roghi, ma la metodicità delle persecuzioni e la minuziosità con cui si raccoglievano le prove destinate a motivare le condanne. In cosa consistevano dunque queste procedure inquisitoriali?

In primo luogo va notato che esse sono messe in opera grazie a un'organizzazione burocratica che, nella storia della Spagna e del Portogallo, ha i tratti di un'innovazione strettamente connessa alla formazione del regime della monarchia assoluta. Lo spazio di competenza è distribuito tra i diversi distretti dei tribunali dell'Inquisizione, non solo nelle metropoli della penisola iberica ma anche oltremare, nei possedimenti coloniali dei due imperi. Le circoscrizioni territoriali di questi tribunali si sovrappongono di frequente agli altri confini politici, amministrativi o ecclesiastici, con il risultato che la loro centralizzazione, ordinata in una struttura piramidale, contribuisce al rafforzamento del potere regio. Questo apparato burocratico si avvale di personale numeroso, non di rado perfettamente competente: presso le sedi di ciascun tribunale gli inquisitori (due o tre, generalmente) sono assistiti da decine di agenti retribuiti che ricoprono gli incarichi di procuratore, notaio, avvocato, cancelliere, boia, medico, guardiano del carcere e così via; a costoro si aggiungono, nelle località più lontane, centinaia di commissari (ecclesiastici che beneficiano di delega di poteri), e poi ancora, dappertutto, a migliaia, i famigerati famigli dell'Inquisizione (laici volontari, dotati di privilegi preziosi e pronti a offrire in ogni momento la propria collaborazione agli inquisitori e ai commissari, in particolare per quanto concerne le denunce e gli arresti). Questa rete relativamente serrata — almeno nella penisola iberica — è sufficiente a chiudere per secoli la popolazione nella sua morsa e ad assolvere al compito di sorvegliare, controllare e punire.

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[...] In totale si stima che l'Inquisizione portoghese impiegasse in permanenza, tra il 1690 e il 1770, dalle due alle tremila persone. È precisamente nel corso di questo periodo di forte addensamento del controllo della popolazione da parte degli agenti dell'Inquisizione, e di severa repressione del marranismo in Brasile, che si collocano i case studies sui quali si fonda questo libro.


*



A questo apparato di sorveglianza e di repressione viene ad aggiungersi nel mondo iberico una seconda innovazione, anch'essa precorritrice di pratiche che alle nostre orecchie suonano tristemente contemporanee: gli statuti di «purezza del sangue». Le conversioni massicce avevano consentito ai nuovi cristiani l'accesso alle professioni, agli uffici e agli onori da cui essi erano stati fino ad allora esclusi in quanto ebrei: d'ora in poi essi potevano frequentare le università, entrare negli ordini religiosi, dedicarsi senza ostacoli a tutte le attività commerciali e artigianali, partecipare al governo delle municipalità, contrarre matrimonio con le famiglie nobili. Questo mutamento non poteva che esacerbare, presso i vecchi cristiani, il rifiuto di una concorrenza considerata intollerabile e provocare fenomeni di rigetto. Gli stereotipi sprezzanti che prima erano rivolti agli ebrei, gli epiteti offensivi indirizzati alla loro cupidigia o alla loro perfidia, erano ora proiettati sui loro discendenti di fede cristiana più recente. Sappiamo che in Spagna, dopo un periodo di brillante integrazione dei conversos nell'insieme della società, gli statuti di limpieza de sangre («purezza del sangue») iniziarono a essere emanati già alla metà del XV secolo (a Toledo per prima, nel 1449); essi vietavano diverse cariche e professioni alle persone che, secondo la linea paterna o materna, avessero ricevuto la mancha (la «macchia») del sangue impuro di un antenato ebreo o giudaizzante. Malgrado le opposizioni tali statuti non tardarono a conoscere un'ampia diffusione nei territori spagnoli fino alla metà del XVI secolo (con l'azione, ancora a Toledo, dell'arcivescovo Juan Martínez Silíceo). Quanto al Portogallo, dove pure furono introdotti più tardi, dopo l'istituzione dell'Inquisizione, tali statuti beneficiarono a loro volta di una larga diffusione alla fine del XVI secolo e durante il primo terzo del XVII, vale a dire durante il periodo dell'unione delle corone iberiche.

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Facciamo attenzione a questo punto a non perderci in analogie abusive o in dispute di parole. Nessuna continuità diretta collega la purezza di sangue iberica e l'antisemitismo razziale della Germania nazista, e si sa che lo stesso termine «razza» era ben lungi dall'avere acquisito, nell'età barocca, il senso e le connotazioni «scientifiche» che avrebbe rivestito nei secoli XIX e XX. Resta comunque la nozione di «casta» (casta in spagnolo e in portoghese), menzionata precedentemente, sempre molto vicina, all'epoca, a quella di «razza» (raza in spagnolo, raça in portoghese), e che con essa si inscrive, fin dal dizionario di Sebastián de Covarrubias Orozco, nel 1611, in un campo semantico prima di tutto biologico, zoologico nello specifico (riferito cioè alla purezza di una specie animale). La nozione conosce inoltre una larga diffusione nei mondi coloniali iberici, dove la classificazione ufficiale secondo diverse «caste» (gli spagnoli, gli indiani, i neri, cui si aggiungono gli «ibridi»: meticci, mulatti, zambos ecc.) accresce considerevolmente l'estensione del termine, accentuandone in particolar modo le connotazioni somatiche e fenotipiche. D'altra parte si passa da una distinzione originariamente religiosa a una discriminazione propriamente «razziale» della «casta» dei nuovi cristiani, da cui la persecuzione, il cui fine consiste nell'estirpare dalla società cristiana la causa dell'infezione e nell'eliminare infine l'eresia fatalmente generata dall'impurità del sangue ebraico. In questo senso si può ragionevolmente sostenere, con Jerome Friedman, che «senza le leggi di purezza del sangue, che si aggiungono all'antigiudaismo medievale e forniscono il fondamento di una rappresentazione secolare e biologica degli ebrei, l'antisemitismo razziale moderno non si sarebbe potuto sviluppare».


*



In conclusione sono i nuovi cristiani, inclini geneticamente a cadere nell'eresia, a costituire il bersaglio privilegiato dell'azione inquisitoriale. Sono loro a essere esplicitamente contemplati dai primi editti di grazia (poi editti di fede), pubblicati negli anni 1480-1490: letti annualmente durante una delle domeniche di Quaresima, dopo il sermone, e affissi alle porte delle chiese, essi invitavano solennemente i colpevoli alla confessione e alla denuncia dei loro complici e di tutti coloro che potevano essere sospettati di cadere nello stesso delitto. Migliaia di penitenti affluirono così nei tribunali dopo la loro istituzione, fornendo all'ingranaggio dei processi la necessaria materia prima. Evitiamo qui, di nuovo, sterili polemiche: è vero che la centralità dei nuovi cristiani nella politica di repressione può finire annegata se la si diluisce in statistiche d'insieme che, soprattutto per l'Inquisizione spagnola — tenendo conto dei tre secoli della sua attività e della molteplicità di delitti sui quali estendeva la sua giurisdizione —, assegnano percentuali apparentemente molto deboli alle condanne di giudaizzanti. Ma se parliamo di conversos una tale lettura quantitativa non ha molto senso: in realtà conviene affinare l'analisi in funzione delle circostanze, dell'intensità delle inchieste, della gravità stimata del delitto e della severità della punizione. Restituita nella sua semplicità, l'eresia giudaizzante è senza alcun dubbio il crimine più grave, il più rigorosamente punito: è ad esso che si associa, proporzionalmente, il numero di gran lunga maggiore di sentenze di morte, laddove nessun vecchio cristiano è mai morto sul rogo per bigamia, blasfemia o sollicitatio.

Senza entrare qui nel dettaglio di uno studio comparativo è opportuno soltanto ricordare, a titolo d'informazione, qualche ordine di grandezza. In cifre assolute le vittime si contano a decine di migliaia: secondo una stima recente, «tra il 1481, anno dei primi autodafé a Siviglia, e il 1560 fu istruito un minimo di 50.000 processi per giudaismo in tutti i tribunali della penisola, e furono comminate almeno 20.000 condanne al rogo». A fini comparativi designiamo come «tasso d'intensità» della repressione la percentuale di giudaizzanti condannati in rapporto al numero totale delle condanne in un periodo determinato; per «tasso di severità» del castigo la percentuale delle condanne al rogo in rapporto al totale dei giudaizzanti condannati.

In Spagna la repressione si concentra nel primo mezzo secolo di attività dell'Inquisizione, con un quadro che, sulla base dei dati disponibili, di fatto può essere definito terrificante. Qualche esempio. A Toledo, dal 1483 al 1530, il tasso d'intensità della repressione raggiunge l'87%, il tasso di severità il 21. A Valencia nello stesso periodo, dal 1484 al 1530, il 91% di intensità e fino al 40% di severità. A Cuenca, per il periodo 1489-1522, l'84% di intensità, e, per il 1489-1510, il 45% di severità. A Siviglia, Valladolid, Barcellona, nel corso di periodi analoghi, la persecuzione dei giudaizzanti si colloca a livelli equivalenti. Sono tassi effettivamente colossali, e si capisce come il marranismo propriamente ispanico risulti quasi del tutto estirpato verso la metà del XVI secolo. Dopo una breve fase di stasi si osserva in Spagna una ripresa delle incriminazioni, con tassi tuttavia minori, quando i conversos portoghesi affluiscono paradossalmente nel paese per cercarvi rifugio.

[...]

La «pedagogia della paura» non si limita alla repressione e alle condanne, ma si manifesta pure nelle forme spettacolari della proclamazione delle sentenze e della loro esecuzione. Le cerimonie di autodafé non tardano a ricorrere alla pomposità dei fasti barocchi, attirando folle immense che rivestono contemporaneamente il ruolo di spettatrici e di attrici, perché l'umiliazione inflitta ai condannati risulta proprio dal carattere pubblico del loro castigo. Ogni particolare è concepito, nel corso di una giornata intera, dall'alba all'oscurità, per colpire gli spiriti e suscitare le emozioni più vive: le trombe, i tamburi e, sullo sfondo, le campane a stormo di tutte le chiese della città; le processioni che attraversano le vie, da una parte quelle dei cavalieri della nobiltà, dei membri dei corpi istituzionali e degli ordini religiosi, fra cui gli stessi inquisitori, e dall'altra quella dei condannati, vestiti soltanto della loro mitra e della tunica d'infamia (il sambenito), accompagnati dai famigli e scortati dai soldati; l'immenso palco innalzato sulla piazza principale, da un lato la tribuna dove si accomodano le autorità (spesso in presenza del re o di un principe della famiglia reale), dall'altro gli scalini occupati dai condannati, disposti secondo la gravità della pena; la celebrazione della messa e la recita dei sermoni; la lunga litania della lettura delle sentenze; la consegna dei «rilasciati» (relaxados) al braccio secolare per essere bruciati, il pentimento e l'abiura solenne dei «riconciliati», e infine le fiamme dei roghi. L'autodafé non ha solo il fine di diffondere il timore attraverso lo spettacolo magniloquente del castigo; è nello stesso tempo un rito di eliminazione del male, di sradicamento dell'infezione e dell'infamia ebrea, di purga collettiva, fisica quanto spirituale. Nella cerimonia, terrore e purificazione si congiungono, attraverso la penitenza e il fuoco. A tutto ciò va aggiunta la perpetuazione della memoria delle condanne, non soltanto conservata nei registri e negli archivi dei tribunali dell'Inquisizione, ma anche esposta alla vista di tutti i fedeli nella chiesa maggiore della città, dove sono appesi, nella navata principale, gli abiti penitenziali dei condannati (quale sia stata la loro pena), accompagnati da cartelli che ne ricordano nomi e crimini. Questi sambenitos, riuniti a centinaia, regolarmente conservati, considerati cumulativamente in una dimensione collettiva che supera i casi individuali, rappresentano i trofei dell'Inquisizione trionfante. È l'infamia del sangue ebraico trasmesso dai nuovi cristiani nel loro insieme a essere quotidianamente richiamata ed esibita.

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Gli studi di caso proposti in questo libro si collocano per la maggior parte nel Brasile del primo terzo del XVIII secolo, vale a dire all'epoca della fase più intensa della repressione scatenata nella colonia portoghese contro i giudaizzanti. Attraverso l'analisi microstorica di diversi processi, limitati di numero ma scelti perché complementari gli uni agli altri, tenteremo di ricostruire le relazioni che univano fra loro i membri delle reti marrane, cercando di tenere il passo degli stessi inquisitori – in altre parole, di ricomporre il puzzle del loro lavoro di investigazione e di controllo incrociato delle informazioni in modo da abbozzare una sorta di tipologia dei loro metodi d'inchiesta e di giudizio. Nel corso degli episodi incontreremo parecchie decine di personaggi collocati su scale temporali diverse: la maggior parte di essi sarà incrociata incidentalmente, come tra la folla, così che li potremo scorgere solo per alcuni istanti; come contrappunto ci dedicheremo invece a seguire più da vicino le tracce di qualcun altro, minuziosamente, talvolta di giorno in giorno e su una scala molto più lenta. Le nostre fonti implicano infatti frequenti procedure (interrogatori, osservazioni carcerarie) in grado di generare un potente effetto di ingrandimento e di rallentamento, grazie al quale possiamo praticare fino a una «nanoanalisi», per così dire, del quotidiano delle prigioni. Vero è che l'esame meticoloso dei dossier, con i loro innumerevoli dettagli a ripetersi fastidiosamente, si rivela indispensabile per percepire la routine dei processi, il rituale delle regole burocratiche, tanto dal punto di vista dei giudici quanto da quello degli imputati. Due punti di vista opposti che però si sovrappongono in maniera tanto più necessaria quanto più gli accusati sono spesso indotti a collaborare con gli inquisitori, passando confessioni più o meno compiacenti o reticenti, tanto che la comprensione di ogni situazione esige in realtà di combinare le due prospettive.

Si tratta dunque non soltanto di restituire, per quanto possibile, i destini e il vissuto delle vittime, ma anche di risalire lungo i meccanismi dell'apparato di repressione, di scrutare l'ingranaggio che con il suo movimento aziona ineluttabilmente gli uni e gli altri, al fine di mettere in luce, in definitiva, la logica dei roghi.

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II. Meccanismi della confessione


                                                «Una volta letto bruciare subito, subito,
                                                             senza incertezze, e a[ddio]»



La confessione costituisce l'elemento decisivo, secondo le regole dell'Inquisizione, delle procedure di inchiesta e di giudizio. L'amministrazione della prova si fonda essenzialmente sulle confessioni raccolte sotto giuramento, minuziosamente registrate dai cancellieri, e sull'incrocio efficace delle informazioni che si accumulano nei dossier. Le denunce dei vicini, dei domestici e delle spie permettono ovviamente di orientare le investigazioni, ma esse contribuiscono solo alle presunzioni indiziarie, perché in definitiva è la testimonianza diretta, nella forma della confessione del colpevole o dei parenti stretti, a fare fede. La stessa qualità della confessione, peraltro, è accuratamente valutata: al termine di ogni udienza, prima che il prigioniero sia rimandato in cella, i giudici concludono la seduta con un parere sul «credito» («ordinario» oppure «minore») che accordano alle sue dichiarazioni. Questa stima può dipendere dal contenuto, ma pure dal tono, dalle esitazioni, anche dai silenzi dell'accusato (puntualmente messi a verbale). Per i giudici, al fine di decidere la sentenza, si tratta infatti di valutare non soltanto l'evidenza della colpevolezza, ma anche la sincerità del pentimento. La punizione cade severa sui colpevoli che negano ostinatamente, o per quelli che fingono di confessare ma non confessano che parzialmente, provando a dissimulare il resto, cioè l'essenziale; misericordia è invece «caritatevolmente» concessa ai «buoni penitenti».

Ma come si è buon penitente? Occorre dire tutto, confessare «tutta la verità», rivelare tutto ciò che si sa, su di sé e sugli altri, «scaricare la coscienza» senza dimenticare niente. L'imputato deve confessare chi lo ha iniziato all'eresia giudaizzante, quali preghiere ha pronunciato, a quali «cerimonie» ha partecipato, con quali persone si è «dichiarato credente e osservante della legge di Mosè» (secondo la formula stereotipata dei processi). Gli inquisitori esortano a più riprese l'accusato a denunciare i suoi complici, defunti o viventi che siano, esaustivamente, e più genericamente a segnalare tutte le persone di cui sa che vivono o che hanno vissuto «fuori della legge di Cristo». Tale esaustività delle confessioni risponde a un doppio fine: da una parte garantisce il buon rendimento della macchina inquisitoriale grazie alle informazioni trasmesse, che costituiscono altrettante prove da impiegare negli altri processi, in corso o a venire; dall'altra serve precisamente da metro di sincerità del pentimento. Si combinano qui, infatti, due ordini di considerazioni: gli inquisitori stimano che una confessione sia «ricevibile» quando coincide in larga parte con le testimonianze a carico dell'imputato (i cui autori, come noto, restano per lui rigorosamente anonimi); d'altro canto, il pentimento è davvero autentico quando l'imputato arriva a denunciare, e dunque a consegnare alle carceri del Sant'uffizio, le persone che gli sono più care — í figli, il padre, la madre, il marito, la moglie, il fratello, la sorella. Nella schiacciante maggioranza dei casi è proprio questo il risultato che raggiungono.

È vero che i casi di penitenti veramente esemplari, ossia zelanti, non appaiono così frequenti. Generalmente, piuttosto, gli imputati riconoscono senza difficoltà la propria colpevolezza, poi continuano le confessioni citando un certo numero di complici. Dobbiamo stupirci del fatto che parlino così facilmente? Dopo parecchi secoli di repressione i giudaizzanti conoscono perfettamente le regole del gioco, quelle dell'implacabile logica inquisitoriale: sanno che il solo mezzo per salvarsi la vita è confessare, e confessare tutto. Non possono mancare di interrogarsi fra loro sulla condotta da seguire nel caso in cui siano arrestati, e una delle consegne certamente diffuse raccomanda di parlare: per esempio (lo vedremo più avanti) i prigionieri compagni di detenzione si denunciano frequentemente a vicenda seguendo una pratica di collaborazione e di aiuto reciproco. Molti tuttavia fingono soltanto di essere buoni penitenti, o piuttosto cominciano col fingere. Altri ancora credono di poter ricorrere a miseri stratagemmi che immaginano possano attenuare la gravità della loro colpa: ad esempio abbreviando la durata del periodo nel quale hanno vissuto nella legge di Mosè, oppure affermando di avere conservato nel cuore la fede del Cristo pur praticando riti giudaici. Errore da non commettere, mai. Seppure questo sincretismo di credenze sia una perfetta realtà, agli occhi degli inquisitori esso non costituisce un'attenuante, ma al contrario una circostanza aggravante, perché questa sorta di ecumenismo è proprio una delle forme più tipiche dell'eresia. In definitiva, anche al netto di confessioni non di rado copiose, i penitenti restano per la maggior parte diminutos (secondo la terminologia dei processi inquisitoriali), rei che cercano di dissimulare una parte della «verità» — il segreto, un substrato più intimo che non si vuole o non si può esprimere.

Ora, naturalmente gli inquisitori non si lasciano raggirare facilmente; conoscono per lunga esperienza gli indietreggiamenti degli imputati, le loro esitazioni, le strategie di difesa, trasparenti per chi sa leggerle alla perfezione. Non si può che restare impressionati dalla loro abilità nel costringere i prigionieri a rilasciare in ultima istanza confessioni complete. Gli inquisitori danno prova di un'arte sottile che si esprime, fra le altre cose, nella scelta del momento e del tenore degli interrogatori, e nella concatenazione delle domande in modo da mettere l'accusato spalle al muro ponendolo inconfutabilmente davanti alle proprie contraddizioni. A tutto ciò si aggiungono i lunghi mesi, o anche gli anni di detenzione, gli ammonimenti incessanti, le asprezze della vita carceraria, a spezzare le volontà più forti, a frantumare la personalità. Dunque che ne è della quaestio, della tortura? Come è noto, essa non è il miglior mezzo per ottenere informazioni affidabili, e infatti gli inquisitori non vi ricorrono sistematicamente. Stabiliscono piuttosto di applicarla in circostanze precise, e comunque non nei casi di coloro che ostinatamente negano, per i quali le testimonianze a carico sono convincenti (lo vedremo nel prossimo capitolo), bensì in quelli dove le prove sono ritenute fragili, oppure nei casi dei penitenti che hanno trasmesso confessioni abbondanti ma ancora lacunose, tali da far sembrare il processo in qualche modo bloccato, quando gli indizi a carico disponibili non giustificano una condanna al rogo, ma le lacune della confessione impediscono di considerarla «ricevibile». È allora che gli inquisitori decidono di applicare la tortura, la cui esecuzione, tutto sommato, è da considerare favorevole per l'imputato in merito all'esito del processo, sia che essa lo induca alla confessione definitiva — con la quale il suo dossier viene a trovarsi «in regola», di modo che il tribunale è in grado di accordargli misericordia ossia di «riconciliarlo» —, sia che egli non parli, nel qual caso le lacune delle sue confessioni sono definite letteralmente «purgate» ed egli può avere ugualmente salva la vita. In questo senso, è consentito dire che gli inquisitori fanno applicare la tortura per coscienza professionale, cioè per rispettare le regole di una logica burocratica, e al tempo stesso – senza paradosso – per spirito di «carità».

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III. Negazioni


                                                        «Non so come si chiama mio figlio
                                            perché l'ho avuto dopo essere stata rinchiusa
                                                    in questa prigione dell'Inquisizione»



La grande maggioranza dei detenuti accusati di pratiche giudaizzanti rilascia la confessione, e generalmente finisce per confessare tutto. Alcuni tuttavia, relativamente poco numerosi, negano, e negano ostinatamente, ogni colpevolezza. Anzitutto, naturalmente, è il caso di coloro che sono accusati di recidiva, che si vedono cioè minacciati di essere giudicati relapsi, vale a dire di essere inevitabilmente condannati al rogo; in questo caso è per loro di assoluta necessità dimostrare di non essere ricaduti nell'eresia dopo l'abiura. A volte ci riescono; da cui il paradosso di seconde, o persino di terze assoluzioni. Ben più rari i casi di imputati che, arrestati per la prima volta, negano sistematicamente e fino alle estreme conseguenze. Se i capi d'accusa non sono troppo pesanti il ricorso alla tortura – lo abbiamo visto in alcuni processi descritti nel capitolo precedente – offre una via d'uscita, in genere favorevole all'imputato (che egli sotto tortura parli o meno). Se invece le accuse sono ritenute convincenti e l'imputato non dà il minimo segno di contrizione gli inquisitori non gli accordano la grazia – se tale si può definire – di sottoporlo a tortura: ostinato e pertinax, non può sfuggire al rogo.


Intorno a Maria Rodrigues (parte seconda)

Bartholomeu Mendes Simoens, venticinque anni, celibe, artigiano orafo, è stato denunciato da Francisco Mendes Simoens durante le sue confessioni «a mani legate», poi da Felix Mendes Leite. Le dichiarazioni di quest'ultimo risultano decisive: gli ordini di arresto emessi contro Bartholomeu, come pure contro suo fratello Athanasio e sua sorella Margarida, sono datati 13 marzo 1720, lo stesso giorno in cui Felix (prima di essere condotto nella sala di tortura) pronuncia i loro nomi. Bartholomeu, rispettivamente qualificato come «cugino» e «zio» dai suoi accusatori, è figlio naturale di «Brites, donna di colore» (molher parda) e dello zio paterno — e omonimo — di Francisco Mendes Simoens. Il padre di Bartholomeu, defunto, è stato capitano di fanteria, ha combattuto in Angola e quindi si è trasferito a Rio de Janeiro, dove ha lasciato per testamento un po' di terra alla concubina e ai suoi figli naturali.

Incarcerato il 21 dicembre 1720, l'accusato si dichiara da subito innocente; non si è mai allontanato dalla fede cattolica e ignora del tutto le cerimonie giudaiche. Per sua difesa si appella alle consuete procedure: inchiesta di «purezza del sangue», testimonianze di moralità, reinterrogatori e ricusazioni dei testimoni a carico. Rivendica anche di essere vecchio cristiano, ma al proposito il tribunale non riesce a raccogliere che qualche informazione confusa e contraddittoria che non porta ad alcuna conclusione. La qualità del suo sangue (come per i fratelli Athanasio e Margarida) è dunque classificata «incerta». Quanto ai testimoni interrogati a Rio de Janeiro a proposito della sua moralità, essi sembrano fornire risposte piuttosto vaghe. Il padre Alberto Rodrigues Mascarenhas, maestro di cappella della cattedrale, si esprime favorevolmente sul suo conto; il padre carmelitano Miguel de Andrade dos Anjos, al contrario, lo descrive come un giovane che conduce «vita dissipata e dissoluta piuttosto che cristiana»: «Non veniva mai a confessarsi, assisteva raramente alla messa, e manifestava poca venerazione per le immagini». Il carmelitano ricorda anche di avere dovuto rimproverare Bartholomeu a causa di alcune pratiche magiche: gli aveva sequestrato, e poi bruciato, «un sacco detto di sortilegio, contenente ossa calcinate, pezzetti d'unghia e capelli, come pure un pezzo di pietra d'altare» — un'eredità, forse, della parte africana di Bartholomeu.

L'accusato può comunque avanzare argomenti convincenti per la ricusazione dei testimoni a carico. Francisco Mendes Simoens (il maestro di scuola) avrebbe provato un vivo risentimento nei suoi confronti perchè il suo zio omonimo, il capitano di fanteria, aveva preferito trasmettere i suoi beni a propri figli naturali piuttosto che a lui, suo nipote legittimo. Quanto a Theresa Paes de Jesus, indubbiamente descritta con tratti poco lusinghieri (forse perché arsa sul rogo), si mostrava anch'essa «tenacemente odiosa» — testimone Manoel Nunes da Cruz — verso i bambini della «donna di colore Brites, che diceva essere stata sua schiava».

Suo figlio Felix Mendes Leite dà prova invece di maggiore generosità: quando è sottoposto a nuovo interrogatorio, il 25 gennaio 1721 — da «riconciliato» –, si assume il rischio di revocare la precedente confessione del 13 marzo 1720: «Devo apportare una correzione [...] perché sono io soltanto che mi sono dichiarato a lui come giudaizzante, mentre lui non mi ha risposto niente, non ha fatto che ridere!» (notiamo, per inciso, che la firma di Felix Mendes, in calce al verbale della ritrattazione, è di nuovo elegantemente disegnata con mano ferma). Tuttavia — ma non c'è di che stupirsi — i membri del tribunale, in camera di consiglio, decidono di non accordare alcun credito alla sua dichiarazione: «Pare loro che non dicesse la verità e non meritasse credito quanto alla revoca, in questo interrogatorio, di ciò che aveva detto la prima volta: allora il suo ricordo era migliore perché aveva fatto il suo esame di coscienza, mentre ora non fornisce alcuna ragione verosimile per la sua ritrattazione; se il testimone si è dichiarato con l'imputato è impossibile che questi non gli abbia risposto nulla; ritratta solo perchè sono parenti, e per venire in aiuto all'accusato».

Francisco Mendes Simoens ricompare in occasione del processo di Bartholomeu (ignoriamo se ha realmente scontato i tre anni di galera ai quali è stato condannato nel 1717, ma apprendiamo qui che è sopravvissuto). È nuovamente sottoposto a interrogatorio il 30 gennaio 1721; anche lui corregge la sua prima testimonianza per quanto riguarda la data della sua «dichiarazione» con l'accusato: non venti, ma sedici anni prima — il che non rende comunque più verosimile l'episodio in questione (malgrado la correzione della data), visto che Bartholomeu non aveva all'epoca che sette-otto anni.

Le due testimonianze che avevano determinato l'imputazione di Bartholomeu perdono dunque di efficacia; la ritrattazione di Felix non riscuote credito presso gli inquisitori, ma di certo diminuisce quello della sua prima confessione; stessa cosa per quel che riguarda i ripensamenti di Francisco Mendes Simoens. I giudici ammettono inoltre la ricusazione per inimicizia: «L'accusato ha provato con un numero sufficiente di testimoni che non aveva relazioni con il suddetto Francisco Mendes e la sua famiglia, perché essendo figlio bastardo è rimasto erede di suo padre, il quale non ha lasciato niente al detto Francisco Mendes». Con tutto ciò Bartholomeu non è però totalmente scagionato, visto che, durante la sua detenzione, una terza testimonianza si è aggiunta alle precedenti, quella del suo ulteriore «cugino» Diogo Lopes Simoens, figlio di Margarida de Gama (a sua volta denunciato da Felix Mendes Leite). Quando esaminano il caso di Bartholomeu, il 6 agosto 1723, gli inquisitori tengono appunto per valida la sola testimonianza di quest'ultimo: e in tali condizioni stimano all'unanimità che le accuse non sono sufficienti per emettere una sentenza, per cui si rende necessario procedere con la tortura (la quale, precisano, si deve limitare a fissare il prigioniero al cavalletto con la prima cinghia). Il consiglio generale, una settimana più tardi, ratifica il giudizio.

Conosciamo già il rituale della tortura: ammonimento preliminare — il 23 agosto 1723 —, notifica, conduzione del prigioniero nella sala della tortura, consuete e ripetute esortazioni. Bartholomeu è legato al cavalletto, quindi il boia «cominciò a serrare, e [il prigioniero] si mise a gridare e a supplicare Gesù [...], infine svenne, e poiché i medici dissero che non era capace di sopportare più a lungo la tortura, si ordinò di staccarlo e di rimandarlo alla sua cella. La suddetta tortura durò il terzo di un quarto d'ora». «Di ciò — conclude il cancelliere — io do fede che tutto si è così svolto in verità, e ho firmato per l'accusato perché questi non era in grado di scrivere». Finzione? O Bartholomeu ha veramente perso i sensi in capo a cinque minuti? Una settimana più tardi, il 30 agosto, è con mano tremante che firma la «citazione» per una prova supplementare.

Le cose, però, si complicano. Bartholomeu non ha ancora confessato nulla, nemmeno sotto tortura; dal 27 agosto si è aggiunta ai capi d'accusa una quarta testimonianza contro di lui, da parte di Ignacia das Neves Rangel (figlia di Francisco Nunes da Costa, fratello di Maria Rodrigues, dunque cugina per parte materna di Francisco Mendes Simoens, dal quale era stata essa stessa denunciata). Ignacia, reinterrogata il 31 agosto, ripete le accuse.

Il tribunale esamina di nuovo il caso di Bartholomeu Mendes Simoens il 13 settembre. Con la testimonianza di Ignacia das Neves Rangel il dossier si è fatto più complesso, e ora c'è divergenza di pareri fra i giudici. Quattro di loro (l'inquisitore João Alvares Soares e i deputati fra Miguel Barbosa, fra Domingo de Santo Thomas e Agostinho Gomes Guimarães) considerano valida quest'ultima testimonianza, perché «non è stata contraddetta dall'accusato» ed «è stata ripetuta» in maniera soddisfacente. Di conseguenza richiedono che l'imputato sia di nuovo sottoposto a tortura. Gli altri tre membri del tribunale (l'inquisitore Joào Paes de Amaral e i deputati Miguel de Admirante e Bartholomeu da Cunha Brochado) stimano al contrario che la denuncia di Ignacia das Neves Rangel non sia stata ripetuta con precisione, e insistono inoltre sulla sua assenza di legami di parentela con Bartholomeu. Perciò «non ci sono prove sufficienti che l'accusato debba purgare attraverso la tortura, per cui si erra a ripeterla». Il parere è di condannare l'accusato solo a una semplice abiura de levi per il dubbio che sussiste.

Il Consiglio generale delibera cinque giorni più tardi: alla fine è l'opinione delle tre voci minoritarie a essere adottata: «Le prove non sono sufficienti per una condanna più grave».

Bartholomeu Mendes Simoens, che ha negato fino alla fine, evita anche la cerimonia pubblica dell'autodafé. Beneficia (come suo fratello Athanasio) della procedura più indulgente: entrambi abiurano de levi il 21 ottobre 1723, nella sala del Sant'uffizio.

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I processi nel corso dei quali l'imputato si ostina a negare manifestano, come gli altri, se non di più, la cura applicata dagli inquisitori nella rigorosa amministrazione delle prove. La confessione resta l'elemento essenziale dell'apparato dimostrativo: poiché in questo caso essa non viene rilasciata dal presunto colpevole, sono le confessioni di terzi, che poggiano su una complicità condivisa, a dover essere esaminate nel dettaglio. Non si cerca di far parlare l'imputato a tutti i costi sottomettendolo alla tortura: è significativo che questa non sia somministata nel corso dei processi di Theotonio da Costa, di Diogo Correa do Valle, di Luis Miguel Correa o di Guiomar Nunes. Questi casi corrispondono infatti alla figura dell'imputato «negativo, pertinax», che, agli occhi degli inquisitori, nega l'evidenza. La sua stessa ostinazione procede dalla sua colpevolezza, essa attesta la sua assenza di pentimento. In queste condizioni la prova della tortura non significherebbe che fornirgli una possibilità di evitare il castigo che merita, cioè il rogo. La funzione fondamentale della tortura non è evidentemente quella di ottenere informazioni (l'obiettivo esiste, naturalmente, ma è secondario): essa si qualifica piuttosto come una procedura essenzialmente burocratica e rituale, praticata quando le prove non sembrano sufficienti e il dubbio sussiste ancora. È allora che gli inquisitori vi fanno ricorso, più per «purgare» questo dubbio che per costringere alla confessione e avere quindi gli elementi necessari alla deliberazione della sentenza (che è generalmente di «riconciliazione» e di assoluzione), come nei casi di Bartholomeu Mendes Simoens, di Lourenga Coutinho, di Isabel Cardosa Coutinho, di André Mendes da Silva, di Leonor Maria Carvalho e dei numerosi sospetti di digiuno giudaico al tempo dello Yom Kippur del 1737. È vero, d'altronde, che le cose sono quelle che sono, complesse e ambigue, e il dubbio non è raro.

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Conclusione


La banalità del male

La familiarità procurata dalla frequentazione dei processi del Sant'uffizio convince soprattutto di una caratteristica del lavoro degli inquisitori, e cioè del suo aspetto routinario. Al tempo stesso non si può mancare di constatare — di ammirare, persino — la qualità dei dossier, la minuzia delle inchieste e, spessissimo, la competenza dei giudici, dei procuratori e degli altri funzionari del tribunale. La paziente raccolta delle denunce e delle confessioni, i resoconti dettagliati delle udienze e delle sedute di tortura, la sorveglianza assidua delle celle de vigia, l'archiviazione dei registri, gli elenchi dei prigionieri e dei condannati: è in questo modo che gli inquisitori hanno creato e alimentato costantemente un'attrezzatura di efficacia formidabile. Questionari standardizzati e regole precise offrono loro, all'avvio delle inchieste, una griglia generale per il trattamento dei diversi casi; ma essi sanno anche mettere in luce alla perfezione, grazie alla loro considerevole arte dell'interrogatorio, le singolarità e le originalità di ciascun caso individuale, arrivando alla fine del processo a fondare i propri giudizi su criteri oggettivi, applicati in base a una logica rigorosa. Si è ricordata nel prologo l'indulgenza normalmente riservata ai giudaizzanti che si presentano volontariamente al tribunale per confessarsi e denunciare i «complici», evitando in tal modo la prigione e la confisca dei beni. Quanto ai detenuti nelle carceri segrete, assistiamo a reazioni distribuite su un ventaglio piuttosto ampio, che va dalle confessioni più o meno complete alle negazioni più tenaci, passando per le ritrattazioni, le menzogne, le correzioni ripetute e i digiuni rituali in cella. Tale varietà nei comportamenti degli imputati si inscrive in tutta una tipologia di cause alle quali corrispondono, normativamente, i diversi tipi di sentenza, dall'abiura de levi al rogo.

Abbiamo visto che fra i «buoni penitenti» si distinguono Miguel de Castro Lara e Francisca Coutinho, che grazie alla copiosità e all'esaustività delle deposizioni ottengono la «riconciliazione» con la Chiesa con una certa facilità. Non c'è dubbio che, dopo due secoli di repressione inquisitoriale, i giudaizzanti avessero avuto modo di mettere a punto la strategia di difesa certamente più dolorosa ma più sicura, la confessione. La lunga esperienza marrana insegna che il valore supremo, il più sacro, è la vita, non il martirio. Ora, le regole del gioco sono ben conosciute: i «riconciliati», al loro ritorno — malgrado il giuramento di custodire il segreto —, ovviamente non mancano di raccontare; i genitori, gli anziani delle famiglie istruiscono i bambini sul comportamento da tenere in caso di arresto, al fine di poter essere liberati il prima possibile. Ricordiamo come parecchi imputati del convoglio dell'ottobre del 1710 e dell'ottobre del 1712 abbiano messo in opera sin dai primi giorni della detenzione a Lisbona una tale «politica delle confessioni», denunciandosi a vicenda, seguendo un percorso di favori reciproci di cui, peraltro, gli inquisitori sono consapevoli (abbiamo visto che fra i detenuti circolano intere liste di nomi, sequestrate dai sorveglianti e trasmesse al tribunale). Più tardi, imputati come Pedro Mendes Simoens e Brites Cardosa (figlia di Miguel de Castro Lara e sua degna allieva), dopo aver confessato tutto senza pudore, si ritrovano liberi in capo a pochi mesi. Molti degli accusati confessano così, remissivamente, ciò che gli inquisitori desiderano sentire: ma questa apparente docilità non significa affatto che le loro deposizioni contengano soltanto invenzioni e calunnie, poiché una lunga tradizione di criptogiudaismo esiste realmente, ed è profondamente radicata in Portogallo come in Brasile.

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In questo senso è lecito dire che gli inquisitori iberici, da molti punti di vista, instaurano i sistemi totalitari contemporanei: medesima alleanza e medesima combinazione di potere politico e sistema religioso (o ideologico), sorveglianza indefessa delle popolazioni, sovrapposizione di inchieste di polizia e procedure di giustizia, amministrazione rigorosa della prova. Si impone, senza anacronismi, il confronto con le celebri analisi di Hannah Arendt sul totalitarismo. Non che si possa assimilare la repressione inquisitoriale dei giudaizzanti alla «soluzione finale» nazista, incomparabile con qualsiasi altro evento della storia: e infatti Arendt insisteva legittimamente sulla radicale novità costituita dai fenomeni totalitari del XX secolo. Sappiamo tuttavia che, malgrado le differenze nello spazio e nel tempo, è stato possibile istituire un parallelo fra la traiettoria del giudaismo iberico dei secoli compresi tra il XV e il XVIII e il destino del giudaismo tedesco (anzi europeo) dell'età contemporanea. E allo stesso modo, seguendo una prospettiva di studio comparato, possiamo inscrivere la problematica qui trattata all'interno di quella delle Origini del totalitarismo, che si proponeva di esaminare non un nesso di causalità storica, bensì una configurazione di tipo strutturale: nel rispondere a una recensione del suo lavoro, infatti, l'autrice specificava che «parla[va] solamente di "elementi" che finiscono per cristallizzarsi sotto la forma del totalitarismo, e di cui, per alcuni, è possibile reperire le tracce fin dal XVIII secolo, per altri ancora più lontano». Si è mostrato qui, credo, che come ammette Hannah Arendt parecchi di questi «elementi» (la burocrazia tentacolare, l'espansione coloniale, l'antisemitismo che assume un carattere razziale, il progetto di eliminazione del sangue ebraico, la razionalità poliziesca ecc.) risalgono almeno al XVI secolo, e che, se nessuno di essi può di per sé essere qualificato come «totalitario», il loro insieme si è comunque «cristallizzato», nelle monarchie iberiche, nel sistema inquisitoriale, i cui componenti e la combinazione dei quali corrispondono a quelli di un «sistema totalitario» in senso arendtiano.

Non si tratta, evidentemente, di difendere una qualche definizione nominalista — che peraltro si situerebbe all'opposto del nostro procedimento empirico —, bensì di rilevare determinate analogie, che segnalano assai suggestivamente il carattere moderno e innovativo delle Inquisizioni iberiche. Sappiamo che Hannah Arendt, rifacendosi alle analisi classiche di Montesquieu, distingue fondamentalmente il totalitarismo da tutte le altre forme di tirannia, di dispotismo o di dittatura nella misura in cui la sua «natura», o «essenza», che altro non è che il terrore, si trova associata a un «principio di azione», nel caso specifico «l'ideologia», secondo una combinazione «inedita», «senza precédenti». Ma, precisa Arendt, non è tanto «il contenuto delle ideologie» che importa, quanto «la logica stessa in base alla quale i dirigenti totalitari le utilizzano». E ancora: «Questa logica implacabile, che serve da guida all'azione, nutre l'intera struttura dei movimenti e dei governi totalitari». Per utilizzare ancora il vocabolario di Hannah Arendt (e di Montesquieu), si potrebbe dire che l'«essenza» del sistema inquisitoriale è ugualmente il terrore (secondo il Manuale degli inquisitori), e il suo «principio di azione» è questa «ideologia» che abbiamo designato prima come il sillogismo che fonda la logica dei roghi. Non è tutto: in un altro passaggio della sua replica alla recensione sopra citata, Hannah Arendt affermava di essersi proposta non di scrivere la storia dei movimenti totalitari, ma di sviluppare un'analisi della «struttura elementare del totalitarismo», che peraltro regge l'impianto tripartito (Antisemitismo, Imperialismo, Totalitarismo) del suo volume. Credo si possa ammettere che una tale «struttura elementare» comprende, in contesti sempre peculiari e con le dovute differenze essenziali, diverse forme storiche che si sono manifestate nel tempo, tra le quali figurano in definitiva, almeno durante i decenni di intensa repressione dei giudaizzanti, i sistemi inquistoriali iberici.

Gli studi di caso qui esposti hanno abbondantemente dato conto di uno degli «elementi» più perversi della dominazione totalitaria come di uno dei criteri più evidenti per la sua individuazione, e cioè la collaborazione forzata delle vittime con un apparato di repressione inteso a suscitare il terrore. Sappiamo che tale apparato, nella prima metà del XVIII secolo, tanto in Brasile quanto in Portogallo, comprende un fittissimo controllo delle popolazioni attraverso le reti dei commissari e dei famigli del Sant'uffizio. È in questo periodo che la macchina messa a punto in quasi due secoli di esperienza dà il suo rendimento migliore, alimentata dal proprio stesso movimento in base a meccanismi divenuti in qualche modo autonomi: il metodo dell'arresto di intere famiglie, al di là del suo effetto in termini di terrore, rivela la propria formidabile efficacia allorché le testimonianze ottenute nel corso di un processo ne suscitano decine di altre, sulla base di un moltiplicatore che si rinnova costantemente. Il sistema inquisitoriale raggiunge allora un grado di funzionamento per così dire perfetto costringendo gli imputati, attraverso un gioco di confessione e delazione, a integrarsi essi stessi nell'ingranaggio delle retate, dei processi, delle condanne, a farsi complici della loro stessa persecuzione. Non si tratta certo di assimilare le vittime ai carnefici, ma di comprendere che le vittime si trovano catturate in una condizione irresolubile, in cui la scelta del male minore è comunque un male, la cui banalità non ne attenua in alcun modo la crudeltà. Su questa tragica scomparsa della «linea di demarcazione tra persecutori e perseguitati» conviene ascoltare ancora Hannah Arendt: «Grazie alla creazione di condizioni nelle quali la coscienza non è più di nessun aiuto, in cui agire bene diventa radicalmente impossibile, la complicità scientemente organizzata di tutti gli uomini nei crimini dei regimi totalitari si estende alle vittime, e prende così un carattere veramente totale». Tale è la modernità, sempre attuale, della logica inquisitoriale dei roghi.

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