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| << | < | > | >> |Indice1. Come mi muovo 9 2. Il fffiiu! interiore 47 3. Speditamente deficiente 77 4. Ascensore di vetro 106 5. Un italiano da cani 117 6. Fenomeno 127 7. La distanza dal fuoco 175 8. Siccità 184 9. Case altrui 204 10. Bassa marea 249 Ringraziamenti 317 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Non sono mai riuscita ad attaccarmi alle cose materiali, malgrado tutte le mie migliori intenzioni. Nutro da sempre una considerevole passione per le cose materiali, sia essenziali che frivole. Purtroppo però è una passione che riesco ad alimentare soltanto grazie a una fantasia elevata, perché il mio ambiente personale e domestico è quasi interamente costituito da cose di cui altre persone si sono sbarazzate. Non per sembrare ingrata apprezzo sinceramente quando una mia amica appena sposata mi regala le sue vecchie pentole, sono felice di ereditare uno stereo non perfettamente funzionante o una poltrona lasciata dall'inquilino precedente ma è difficile affezionarsi troppo alle cose che non hai scelto o che non hai ricevuto per motivi sentimentali.
Mi consolo pensando che questa condizione sia soltanto
temporanea, una conseguenza dell'aver passato tutti i miei
anni da giovane adulta ad abitare in case non mie, tutte
quante distanti circa diecimila chilometri da dove sono cresciuta. A parte le
sei scatole di libri che hanno attraversato
due oceani seguendomi da San Francisco in Italia su una
grande nave e più tardi, da un indirizzo all'altro in svariate
automobili prese in prestito godo di un'esistenza priva
d'ingombri. Il più delle volte questo non mi dà fastidio: anzi,
ci sono anche momenti in cui mi pare un vantaggio. Nei miei
primi quattro anni a Milano, ho cambiato casa cinque volte
potenziali incubi logistici, più facili senza la porcellana della nonna da
imballare, armadi voluminosi da portare giù per
le scale, televisori a schermo piatto da sconnettere e riconnettere. Qualche
volta già il fatto di essere riuscita a gestire le
esigenze di base in questa città grande e straniera, mi sembra
un'impresa degna di autocompiacimento: tutto sommato, ho
vestiti da mettermi, un lavoro da svolgere, libri da leggere,
amici da incontrare, un cellulare con cui chiamarli e un vocabolario italiano
sempre più vasto a mia disposizione. Eppure
ci sono momenti intermittenti ma angoscianti quando sto
sveglia la notte tentando di mettermi comoda su un materasso di quinta mano, che
mi sento travolta da qualcosa non
dissimile dal panico. Θ la sensazione rodente che sto, in qualche modo,
rimanendo indietro da chi o da che cosa non
saprei spiegarlo. In quegli attimi prima di addormentarmi
sul floscio cuscino che non riesce più a competere con il peso della mia testa,
mi faccio questa domanda accusatoria e retorica:
e allora, Hilary... tutti i tuoi investimenti?
«I suoi investimenti?» ripete la mia Dottoressa, con un sopracciglio alzato. «Sta pensando ai suoi... investimenti?» Prende in mano la penna stilografica dalla scrivania; la guardo mentre scrive qualcosa sul primo foglio bianco della pila che si tiene davanti. Da dove sono seduta non riesco a leggere ciò che scrive, ma sento il gesto esteso della penna che sottolinea una parola. Investimenti. «Non si preoccupi, non intendo investimenti economici» rispondo, mentre mi sento arrossire. «Sotto quell'aspetto non ci sono novità... purtroppo.» Ho iniziato a vedermi con la Dottoressa durante il mio primo anno a Milano prima di lasciare la rivista di moda per andare a lavorare nella libreria, prima di mettermi in regola e di cominciare a pagare le tasse, prima che l'Italia facesse il salto drastico dalla lira all'euro, prima che il dollaro cominciasse a precipitare in caduta libera, e ben prima che io scegliessi di smettere di dividere trilocali con altri per sostenere il peso di un monolocale da sola. E sono bastati soltanto un paio di questi cambiamenti perché le nostre sedute settimanali non fossero più compatibili con il mio budget. Piuttosto di lasciarmi a me stessa, la Dottoressa mi ha però proposto un compenso «simbolico» una somma appena superiore al prezzo di due pizze da asporto e ci sono settimane in cui non riesco a offrirle nemmeno quello. Da quel poco di informazioni che sono riuscita a racimolare nel corso degli anni, la Dottoressa non deve essere una che lavora per la necessità di guadagnarsi soldi ma non è questo il punto. «Non pensavo che stesse per raccontarmi dei suoi conti in Svizzera, a dire il vero» dice la Dottoressa con un lieve sorriso. «Allora di che genere d'investimenti si tratta, se non quelli economici?» «Sto pensando a tutte le cose che la gente considera "investimenti". Ha presente una persona normale che si compra un mobile? O una bella lampada? O non so... si fa un mutuo. O acquista un'opera d'arte, di qualunque tipo, non importa. Θ questo il genere d'investimenti di cui parlo. Non ne ho mai fatti. Nemmeno una volta nella vita.» «E questo le dà fastidio?» «Certo che mi dà fastidio. Non sono più studente. Lavoro, pago le tasse... santo cielo, sono una adulta! In questi giorni sto disfacendo le scatole e...» «Θ già entrata nella nuova casa? Vive già da sola?» «Sì, sì, ed è fantastico. Adoro il mio nuovo quartiere. La casa è minuscola giuro, sto dormendo letteralmente sopra il fornello ma è carinissima lo stesso. Θ tutto perfetto, tranne che... Be', ora che non ho più coinquilini, mi rendo conto che io, personalmente, possiedo due padelle, un'insalatiera, un set di bruttissimi piatti verdi e qualche calice Ikea quelli che si rompono soltanto se li guardi storto.» «Ah sì, li ho presente.» «E quindi l'altro giorno, Silvia mi ha regalato degli asciugamani stupendi, perché i miei erano diventati quasi trasparenti, no? Con un accappatoio abbinato... Voglio dire, super spessi e costosissimi, nuovi di pacca. Hanno anche... sono fatti... come si dice, monogrammed?» «Monogrammati.» «Già, okay. Facile. Sa che da bambina morivo dalla voglia di avere asciugamani monogrammati?» «Che bel regalo che le ha fatto Silvia.» «Certo che mi ha fatto un bel regalo Silvia, soltanto che non erano per me. Li aveva ordinati l'anno scorso per suo marito, prima che si lasciassero. Stavano lì, nelle loro scatole da un'epoca. Davvero, sono le cose più belle che ho, questi asciugamani e l'accappatoio... Sono tipo, quelli che si trovano al Four Seasons, ma tutti portano il nome "Claudio"! Capisce quanto mi fa strano? Asciugarmi con un enorme accappatoio grigio chiamato Claudio?» «Mmm.» La Dottoressa non scrive più niente. S'inclina un po' indietro con la sedia e gira la testa a guardare dalla finestra il parco di sotto. Sembra quasi che stia trattenendo una risata. Inizio a sentirmi un po' ridicola. «Mi creda, non mi lamenterei mai così con nessun altro perché so che sembro un'idiota. Ma sono queste piccole cose che mi fanno venire i dubbi. Non ho niente di bello che ho scelto e comprato per me stessa. E non è una cosa normale. La mia amica Molly mi ha scritto l'altro giorno, no? Da San Francisco. Mi ha raccontato che lei e il suo fidanzato sono andati a comprarsi un divano. Nuovo, in un vero negozio. In pelle. Ha un'idea di quanto sono lontana io dal poter entrare in un negozio e tornare a casa con un divano di pelle? Tutti sono più avanti di me!» «Avanti di lei in che senso?» «Nel senso... della vita! Nel senso di guardarti intorno e sentire che hai investito nelle cose, cose che si possano toccare, cose che ti porti dietro sempre, che durano, cose che hanno un valore.» «Perché, lei non crede di aver mai investito in niente di valore da quando vive qui?» Ci penso un minuto mentre contemplo un'unghia scheggiata. «L'unica cosa che ho investito qua è... il tempo. E... non lo so. Ha un valore, il tempo?» Guardo la Dottoressa negli occhi e alzo le spalle. «Boh.» «Questa è una bella domanda. Secondo lei? Che valore dà al tempo?» La vedo gettare un'occhiata al piccolo orologio antico da tavolo che sta al bordo della scrivania, girato verso di lei. Sospiro e tiro indietro la manica della camicia per guardare il mio di orologio. «L'abbiamo finito, vero?» chiedo. «Il tempo, intendo.» «Sì, è finito» risponde. «Fortunatamente per lei. Non era una domanda facile.» Mi alzo in piedi e comincio a frugare nella borsa per prendere il portafoglio, da cui tiro fuori due pezzi sciupati da dieci euro. Mentre la Dottoressa mi scrive la ricevuta, tossisco un po' dall'imbarazzo. «A proposito» mormoro, come mi stessi rivolgendo al tappeto orientale. «Ho la sensazione che il bilancio valore-tempo sia decisamente a mio favore. Per quanto riguarda il nostro scambio.»
La Dottoressa strappa via la prima copia della ricevuta e
me la passa. «Non ho nessun reclamo da fare» sorride. «Ci
vediamo la prossima settimana.»
A volte succede che passo cinquanta minuti con la Dottoressa a gingillarmi con dei fili mentali senza riuscire a sciogliere un solo nodo, per poi ricevere l'illuminazione non appena esco dal portone. Com'è possibile che non mi sia venuto in mente prima? Eccolo, dall'altra parte della strada, davanti all'ingresso del Parco Sempione, qualcosa di bello che ho scelto e comprato per me stessa. Mentre mi affretto ad attraversare il semaforo troppo breve, tiro fuori il mazzo di chiavi dalla borsa: qualcosa che ti porti sempre dietro. Come mi sono potuta dimenticare del mio alter ego a due ruote, il mio accessorio e complice, l'unico oggetto capace di muovermi, in tutti i sensi? Come il cielo primaverile sopra di me, come il primo pastello a consumarsi nella scatola, come il più raro pezzo di vetro liscio trovato sulla spiaggia, come gli sfondi di Giotto e il Partito democratico la felicità ha un colore; il mio investimento, un nome: Blu. Come le più rare e felici storie amorose, il mio incontro con Blu è stato imprevisto e del tutto casuale. Era uno splendido giorno di fine luglio, al termine del mio primo anno a Milano. Ero appena stata in banca per convertire in lire i tre pezzi da cento dollari che mia madre in un atto di arbitrario ottimismo nei confronti della posta italiana aveva infilato in un biglietto di auguri per il mio imminente compleanno. All'epoca trecento dollari erano davvero un mucchio di soldi, per di più apparso in un momento in cui godevo di un discreto stato di solvibilità. Potevo metterli da parte per le vacanze, o potevo spenderli subito per qualcosa di stuzzicante. Tutti i negozi eleganti di corso Vercelli erano pieni di vestiti, scarpe e borse in saldo: uscendo dalla banca mi sono indirizzata in quella direzione. Ma poi, mentre camminavo per via Giorgio Washington, lei ha catturato la mia attenzione: una bicicletta blu nel bel mezzo di una vetrina. Non ero mai entrata in un negozio di biciclette in vita mia. Il biciclettaio indossava una tuta grigia, autenticamente macchiata di unto nero. Era un signore vecchio, nel negozio faceva caldo, c'era poca gente in giro e lui sembrava molto rallegrato dalla mia visita. «Ne ho delle altre, se vuole vederle» mi ha detto mentre prendeva Blu dalla vetrina. «In diversi colori e modelli. Questa, però, è una bella bici da donna. Solida, ma molto graziosa. Però se non la convince...» «No, no. Mi convince. La prendo.» Non avevo dubbi; chiaramente eravamo fatte l'una per l'altra io, un'americana trapiantata a Milano e lei, una bicicletta milanese nata in via Giorgio Washington. Il biciclettaio ha montato un bel cestino di vimini, ha aggiustato il sedile per la mia altezza, mi ha fatto vedere come accendere il fanale e come funzionavano la piccola pompa e il campanello. Infine mi ha consigliato la catena più efficace: pesante come un pitone amazzonico e rivestita da una guaina di plastica verde. Mentre pagavo, ho notato sul banco un piccolo bauletto pieno di fiori sintetici. «Costano cinquemila lire ciascuno, quei fiori. Sono da attaccare al cesto» mi ha spiegato. «Così, per decorazione.» Con un sorriso ha aggiunto: «Anche se quando passa una bella fanciulla come lei, nessuno sta li a guardare il fiore». Ho scelto una dalia, colore rosa.
Una volta fuori sul marciapiede, ho sistemato la mia borsa gialla nella
cesta di vimini-con-dalia-rosa e sono salita sulla mia nuova bicicletta blu. Con
un
trrring! trrring!
del campanello ho salutato il vecchio biciclettaio. E poi, mani aggrappate al
manubrio, sono pedalata via con l'equilibrio
precario e il cuore estatico. Era con quello spirito che ho
iniziato finalmente ad appartenere a Milano. O meglio, che
Milano ha iniziato finalmente ad appartenere a me.
I miei genitori erano sorpresi quando gli ho raccontato del mio nuovo acquisto. «Una bicicletta?» ha riso mio padre, meravigliato dall'immagine pittoresca e capricciosa. «O tesoro, come sei diventata europea.» Al contrario di come molti film raffigurano la gioventù idilliaca, la bicicletta non ha svolto un ruolo particolarmente incisivo nella mia infanzia. Nel centro di San Francisco basta andare un chilometro in qualsiasi direzione per trovarti di fronte a una salita imponente o una discesa precipitosa, per cui girare in bici è uno svago che richiede una dose notevole sia di spavalderia che di massa muscolare qualità che mi mancano ancora oggi. Invece, pedalare per Milano, una città piatta come un vassoio della mensa, necessita soltanto di un forte istinto di sopravvivenza e un po' di pelo sullo stomaco: le strade sono strette e gli autobus larghi, il pavé è una scossa per le ossa, le rotaie ti conducono a una fine macabra specie se abbinate alla pioggia o alle macchine parcheggiate in doppia fila. Gli automobilisti ti suonano perché vai troppo lenta, i pedoni ti maledicono perché vai troppo veloce, i motorini ti usano come tiro al bersaglio, e le poche piste ciclabili non vanno in alcuna direzione utile. «Sei andata almeno a comprarti un casco?» Mia madre mi chiede ogni tanto al telefono. «Sai che non riesco a pensare a te che giri per Milano senza casco.» Le spiego che la mia bicicletta non è come la sua, o quella del suo fidanzato Bob. Da qualche anno, loro due sono stati colti da un vero raptus da bicicletta; una volta alla settimana fanno giri lunghissimi e panoramici quaranta, cinquanta chilometri attraversando i ponti, andando su e giù per le colline, percorrendo strade tortuose che sembrano sospese sopra il Pacifico. Spesso si fermano in qualche posto carino per mangiare. Durante la settimana, mia madre si allena con lo spinning in palestra. Ha delle gambe notevoli. «Blu è una city bike, mamma. Θ senza marce, non va veloce. Non è una bici sportiva, è molto più... prosaica.» «Non ti ho chiesto della bicicletta. Ti ho chiesto del casco.» Mia madre è un avvocato e non è facile sviarla. «Considera tua madre, così lontana, che sta sveglia la notte a pensare a sua figlia in mezzo al caotico traffico italiano senza casco.» Questo ci fa ridacchiare. Sappiamo entrambe che mia madre si spegne, insieme alla luce, alle dieci di sera. «Ormai conosco tutte le scorciatoie. Evito il casino quando posso. Sono diventata furba in bici, davvero. Saresti fiera di me.» Mia madre mi risponde sempre che è già fiera di me, ed è per quello che vorrebbe che la mia testa furba rimanesse integra. «Cosa vuoi che ti dica, mamma? Ora vivo in Italia. Il casco è diventato obbligatorio per i motorini solo qualche anno fa. E la gente se ne lamenta ancora.»
Mia madre sbuffa nel telefono. Queste nostre conversazioni finiscono sempre
nello stesso modo. «Che c'entra se è obbligatorio o meno? Io sono tua madre e ti
ho allevata bene. Voglio dire, quando bisogna scegliere tra l'estetica e il
buonsenso... è ovvio quale sia la scelta giusta, vero Hilary?...
Perché non dici niente? Tra l'estetica e il buonsenso, qual è
più importante? Hilary?... Pronto? Mi senti?»
Dopo le mie indagini esistenziali dalla Dottoressa, e la scoperta felice
sebbene un po' differita di aver fatto, qua a Milano, almeno
un
investimento di cui ero fiera, passo il resto della giornata a
dedicarmi a tutti i problemi estetici che si
presentano dopo un recente trasloco. Lego Blu al palo sull'angolo della mia via
che è stato subito individuato come il mio
parcheggio personale, e salgo i sei piani in ascensore per entrare nei miei
ventisei metri quadrati di casa nuova. Apro le
finestre e accendo la radio. Faccio una lunghissima e accuratissima selezione
dei libri da disporre sui tre miseri ripiani,
poi trascino le scatole ancora piene, una alla volta, fino al
soffocante e polveroso solaio accanto. Mi lavo le mani e la
faccia e mi asciugo con Claudio. Bevo un po' di acqua gasata
direttamente dalla bottiglia. Fumo una sigaretta. Tiro fuori
la bacheca di sughero gigante e risistemo le foto, le vignette e
le cartoline dei dipinti ammirati negli svariati musei da me
visitati. Passo la scopa. Cerco di fare un po' di ordine nell'armadio ma mi
mancano le grucce. Considero l'idea di mettere
dei fiori fuori dalla finestra e mi chiedo se mi sento pronta a
prendermi cura di qualcosa di vivente; anche se magari mettere i fiori fuori da
una finestra al sesto piano è rischioso. Se il vaso dovesse cadere? Mi rendo
conto di avere fame. Apro il frigo e trovo un barattolo di senape, un mezzo
triangolo di parmigiano e due mele. Guardo l'orologio e vedo che sono
le sei passate. Nel mio nuovo quartiere conosco già un paio
di posti dove, per il prezzo di un bicchiere di Martini Rosso,
ti danno qualcosina da mettere sotto i denti. Spengo la radio
e prendo in mano la borsa.
«Sai qual è la cosa più incredibile del mio nuovo quartiere?» chiedo a Jacopo. Θ lunedì e siamo in libreria a fare una resa. Dobbiamo creare spazio per la valanga dei nuovi arrivi che usciranno prima dell'estate. Lui appoggia pile di libri condannati sul banco, e io gli sparo con la pistola attaccata al computer. Ho passato il mio giorno libero a casa emancipando i libri dalle scatole, e adesso il lavoro mi costringe a rinchiuderli di nuovo. Il che mi sembra degno di riflessione. «Mmm. Fammi pensare. La cosa più incredibile del tuo nuovo quartiere... Sarà magari il fatto che ora ci vivi tu?» risponde Jacopo, già rassegnato alla lunga giornata che lo aspetta in mia loquace compagnia. Automaticamente mi scappa una risata. Il sospetto che fosse il caso di sentirmi offesa mi viene soltanto qualche secondo dopo. «Aspetta, aspetta. Che cosa vuoi dire? Non credi che nel mio quartiere ci sia qualcosa d'incredibile?» «Voglio dire soltanto che cambi casa ogni sei mesi e ogni sei mesi ti sento elogiare il tuo nuovo angolo di Milano. E io, uomo semplice e di poca fantasia, deduco che l'unica cosa che i tuoi quartieri hanno in comune sia il fatto che ci vivi tu. Questa pila l'hai già sparata?» «No, non ancora. Vai più piano. Anzi, stai esagerando. Stai rendendo libri che sono arrivati un paio di settimane fa.» «Hai intenzione di comprarli tu?» Jacopo prende in mano il primo libro della pila. «Malattia e destino? T'interessa la materia?» «Per carità. Non voglio neanche toccarlo.» «Allora stai zitta e spara senza ritegno.» Lascio trascorrere almeno un minuto intero durante il quale si sente soltanto il rumore della pistola che fa beep beep beep mentre registra i codici a barre dei libri indegni. Quando credo di aver taciuto abbastanza dico: «Okay, magari in passato ho esagerato. Ma davvero, credo che dove sto adesso sia la zona più bella di Milano. Θ proprio... un vero quartiere. Esco di casa e mi sento... a casa. Capisci?». «Dov'è che sei esattamente? Dietro corso Genova, giusto?» Annuisco e dico il nome della mia via. Θ una via corta, si estende per soltanto due isolati. La zona si trova nella parte sudovest del centro. Ossia, se il centro di Milano fosse il quadrante di un orologio, io abiterei alle ore sette. Con tutti i miei spostamenti negli anni, ho quasi completato il giro del quadrante e credo che le ore sette sia la posizione che più mi rispecchi. «Ah sì, quella zona la conosco. Avevo una fidanzata che stava da quelle parti. Θ vero, si respira ancora l'aria della Vecchia Milano» dice Jacopo. «Stavolta ti do ragione; è molto bella.» Incoraggiata, continuo: «Poi, sai, a differenza di altri posti, lì ci sono ancora botteghe, e non solo negozi. C'è un vero macellaio, un vero fruttivendolo, un sacco di veri panettieri... Ma c'è anche un corniciaio, un elettricista, una sarta, e... come si chiama? Un... rigattiere. Θ siciliano. Un po' antipatico, però. Peccato». Sebbene a solo sei minuti di bicicletta dal mio nuovo quartiere incredibile, la libreria è ubicata in un pianeta completamente diverso. In corso Magenta, una delle vie più patinate di Milano, perfino trovare un etto di prosciutto è un compito impegnativo. L'aria che si respira qui non è vecchia ma storica: nel raggio di trecento metri ci sono ben due case d'asta, una mezza dozzina di antiquari diversi e bellissimi palazzi tutti dotati di terrazze, cortili, portinai e cani con tre cognomi. A dire il vero, la libreria stessa si trova al pianterreno di un palazzo del Quattrocento, dove fu ospitato Leonardo mentre dipingeva L'ultima cena nel refettorio della chiesa bramantesca di fronte a noi. Θ quindi logico che cinque secoli dopo questa zona non sia diventata una destinazione celebre per macellai e rigattieri. Si fa pure fatica a vendere i libri. Jacopo sorride. «Scommetto che tu l'hai appena imparato quel termine, no? Rigattiere. Non vedevi l'ora di usarlo.» Mi sento arrossire dal piacere. «Sono molto orgogliosa di questa parola. La trovo bellissima. In inglese invece è orrenda.» Mi alzo dallo sgabello e inizio a mettere i libri registrati per la resa nella scatola per terra. «Questa scatola è quasi piena.» «Com'è che si dice in inglese?» Jacopo apre un'anta, tira fuori una scatola appiattita e inizia a ricomporla con lo scotch da pacchi. «Innanzitutto, credo che i rigattieri in America quasi non esistano più. Ma si direbbe tipo junk man.» «Junk man? Uomo dello scarto? In effetti, non è molto poetico.» «No. Anche se il mio rigattiere è tutt'altro che poetico. Mi mette un po' in soggezione. Io parcheggio sempre la mia bici al palo davanti al suo negozio, e lui è sempre lì sul marciapiede a fumare una sigaretta con un altro tipo siciliano. Ogni volta che lo saluto mi guarda con sospetto. Non è molto cordiale.» Dopo aver strappato un lungo pezzo di scotch con i denti, Jacopo dice: «Gli immigrati sono sempre diffidenti nei confronti degli altri immigrati. Non l'hai ancora capito, Hilary? Θ la legge della giungla». | << | < | > | >> |Pagina 77Una libreria con le pareti color nespola, su una via di classe in una metropoli italiana del Nord, il secondo giorno di gennaio. La maggior parte dei clienti abituali, essendo anche loro di classe, hanno abbandonato la loro città densamente popolata per visitare altre città densamente popolate all'estero; oppure si stanno bevendo un grog, après-sci, in qualche favoloso paesino illuminato tra i clivi alpini. I pochi rimasti sono chiusi nelle loro confortevoli case, a godersi il silenzio che la città offre due volte all'anno, quando i suoi abitanti fanno le vacanze en masse. Θ un po' prima delle sette di sera e fuori fa buio e freddo. Calda e accogliente, la libreria è vuota, tranne che per la sola Libraia Straniera, una donnina sui trent'anni di origini americane. La curva sgraziata delle sue spalle suggerisce una certa uggia psichica. Benché la Libraia Straniera sia contentissima della tranquillità del proprio posto di lavoro, specialmente dopo la frenesia commerciale del periodo natalizio, è anche fin troppo consapevole di quanto diventi irrilevante il mestiere di vendere libri quando non c'è nessuno in giro a comprarli. La Libraia Straniera sta contando la mazzetta sottile delle ricevute delle carte di credito, battendo numeri su una calcolatrice vecchia e smisurata, per poi trascrivere le somme su un foglio. Prende in mano la calcolatrice per osservarla meglio, prova a pulirne lo schermo con un dito e poi fa un soffio. Un po' di polvere le arriva direttamente in faccia. I suoi occhi iniziano a lacrimare. Rimette la calcolatrice sul banco e guarda verso le luci, aspettando l'arrivo dello starnuto. LIBRAIA STRANIERA Aaaaa-aaaa-aa... CIUUU! Una volta che si è ripresa, la Libraia Straniera usa la manica per tamponarsi il naso e gli occhi. Ma poi inizia a sbattere le palpebre. Con due dita, tira una palpebra e controlla la mano. Batte le palpebre di nuovo e di nuovo controlla la manica, il davanti del maglione e ancora la mano. Con un'espressione di panico crescente, copre l'occhio destro e si piega sopra il banco, chiaramente alla ricerca di qualcosa. LIBRAIA STRANIERA (borbottando fra sé e sé, la faccia quasi contro il banco) O che cavolo... Mi mancava solo questa... dai, dove sei? La Libraia Straniera si raddrizza, tira di nuovo la palpebra destra e poi controlla le sue guance, il maglione, il palmo della mano. Fa un passo indietro e guarda verso il pavimento con un sospiro rassegnato. Si accuccia dietro il banco, sparisce. In quel momento preciso, entra nella libreria con le pareti color nespola un Signore Cliente, seguito dalla sua Compagna Femmina. Il Signore Cliente è alto, con capelli castani un po' radi, occhiali, ed è vestito nella maniera elegante-ma-dégagé spesso adottata dai membri della intellighenzia-italiana-di-sinistra. I capelli neri della sua Compagna Femmina sono tagliati in modo impeccabile ma non recentemente lavati, e lei indossa una di quelle drammatiche collane tipiche delle donne di buon gusto e con inclinazione artistica. Entrambi contemplano la libreria, che al momento sembra abbandonata a se stessa. Il Signore Cliente si schiarisce la gola. SIGNOR CLIENTE C'è qualcuno? La Libraia Straniera si raddrizza subito in piedi. Θ visibilmente scompigliata e tiene ancora una mano sopra l'occhio destro. LIBRAIA STRANIERA Eccomi. Scusate. Stavo... eh, cercando qualcosa. Per terra. SIGNOR CLIENTE Si figuri. Θ ancora aperta? LIBRAIA STRANIERA (leva la mano dall'occhio, si sistema i capelli) Sì, certo. Fino alle sette. SIGNOR CLIENTE Possiamo dare un'occhiata?
LIBRAIA STRANIERA
(con il suo sorriso migliore)
Certamente. Se avete qualche domanda, sono qui.
Il Signore Cliente e la sua Compagna Femmina si dirigono verso il reparto Novità Narrativa. La Libraia Straniera socchiude il suo occhio destro, deformando il viso nel tentativo di mettere a fuoco i clienti: non sono né residenti della zona né clienti abituali. Non li ha mai visti prima. Mentre loro iniziano a guardarsi intorno con l'aria di lettori competenti, la Libraia Straniera si piega a metà e solleva la tastiera del computer nell'ultimo tentativo di trovare la sua lente a contatto. I clienti parlottano fra loro a voce bassa.
SIGNOR CLIENTE
(alla sua Compagna Femmina)
Un attimo, glielo chiedo. Mi scusi...
(mostrando una copia dell'
Omonimo
di Jhumpa Lahiri, Marcos y Marcos 2003, 15,50)
Dove lo trovo il suo primo libro?
La Libraia Straniera si raddrizza di nuovo, leva la mano dall'occhio e si risistema i capelli. Fissa il libro ma non riesce a leggerne il titolo. LIBRAIA STRANIERA (socchiude di nuovo l'occhio destro) Ah... mi dispiace, ma mi potrebbe dire che libro è quello? Θ che... non riesco a vederlo da qua. SIGNOR CLIENTE Ah. Certo. Questo si chiama L'omonimo ed è di... LIBRAIA STRANIERA (con occhio ancora socchiuso e viso deformato) Jhumpa Lahiri. Certo. E vuole il primo? SIGNOR CLIENTE Sì, esatto. Il suo primo libro. LIBRAIA STRANIERA (distende il viso e sorride) Benissimo, guardi è proprio... lì. Sulla parete dei libri consigliati. La Libraia Straniera esce da dietro il banco e si avvicina al reparto dedicato ai libri da consigliare. Sembra che abbia qualche difficoltà a mantenere l'equilibrio. Il Signor Cliente e la sua Compagna Femmina rimangono immobili; la guardano con perplessità. LIBRAIA STRANIERA Mi dovete perdonare. Ho perso una lente a contatto. Proprio adesso. Sono terribilmente miope. Quasi cieca, in realtà. Eh-heh. SIGNOR CLIENTE (aggiustandosi gli occhiali con un lieve sorriso) Certo. Capisco il problema. LIBRAIA STRANIERA (copre l'occhio destro con la mano e intanto con l'altra prende il libro di Lahiri dalla parete dove c'è il cartello «Noi consigliamo») Eccolo. Θ bellissimo. SIGNOR CLIENTE (prendendo il libro, L'interprete dei malanni, Guanda 2003, 8,00) L'ha letto? | << | < | > | >> |Pagina 106L'anno scorso è stato l'anno dei matrimoni: cinque, fra maggio e novembre. Anzi, sei, contando quello più importante, a marzo, quando si è sposata la mia migliore amica Molly, a San Francisco. Sono andata con il Regista Baffuto, l'ho portato a casa mia, gli ho fatto conoscere i miei parenti, i miei amici, i cani e le case della mia famiglia. Siamo stati lì dodici giorni e abbiamo fatto tutte le solite tappe con la Subaru Outback bianca di mia madre, piena di peli di labrador. Il Regista Baffuto è stato il terzo fidanzato italiano ad aver fatto quel viaggio Milano-Parigi, Parigi-San Francisco con me. Il terzo fidanzato italiano ad aver dormito nel futon-letto a una piazza e mezzo di camera mia, dove sono finiti i cuscini più scomodi della casa. Il terzo fidanzato italiano ad aver fatto colazione al caffè dietro l'angolo con la minuta barista napoletana che è comparsa dietro il bancone giusto un mese prima che io partissi per andare a vivere in Italia, e che ora mi saluta con un «Ciao, bella!» ogni volta che torno. Il terzo fidanzato ad aver percorso le magiche e splendide strade lungo la costa per andare a trovare mio padre nella sua casetta di legno nei boschi, a un chilometro dall'oceano Pacifico, dove in primavera le foche vengono a far nascere i loro cuccioli sugli scogli. Il terzo fidanzato a essere portato nell'ascensore di vetro del Saint Francis Hotel a Union Square. Si entra, si attraversa la grande hall che mi pare più volgare e meno elegante d'una volta, ma fa niente, si passa davanti alla reception, si prende il corridoio a destra e senza pagare, senza dire o chiedere nulla a nessuno, si sale su un ascensore completamente trasparente, fino al trentaduesimo piano. E come una giostra verticale, ma in un ambiente simil-lusso e con quella vaga sensazione di trasgressione che dà più gusto alla faccenda. Adoro quell'ascensore di vetro da quando ho undici anni e io e le mie amiche ci trovavamo in centro di sabato per fare un giro, spendere le nostre paghette, combinare qualche birichinata. Eravamo una banda della scuola francese e la regola era che, una volta entrate nell'albergo, dovevamo fare finta di essere ragazze parigine in vacanza da sole senza i genitori. Ci davamo nomi francesi, tranne Fleur, che era francese davvero. Io mi chiamavo Camille. «Non capisco il gioco» dice il Regista Baffuto, mentre mi segue attraverso la porta girevole dell'albergo. «Perché Camille?» «Non lo so, per divertimento» gli rispondo, facendo passi piccoli per non sbattere contro la porta che è automatica e che si muove troppo lenta. Era un mondo migliore quando le porte girevoli potevano essere spinte; ora quasi tutte vanno al loro passo che non coincide mai con il mio. «Per noi. Per gioco. Era una specie di alibi, un po' naοf, ammetto. Io ero Camille perché c'era una ragazza più grande di me a scuola che si chiamava così e io la veneravo da lontano. Di qua, mi sa. Ecco, hanno rifatto il bar. Madonnina ragazzi, che brutta gente.» «Ma non esiste il nome Hilary in francese? Tipo Hilaire?» «Non è questo il punto. Θ che era divertente inventare una storia. Mi ricordo che in quei pomeriggi mi vestivo in un modo stravagante, mi mettevo un berretto rosso con un nastro di velluto nero, ti giuro, me lo ricordo benissimo. Entravo proprio nella parte. Eccoci. Speriamo che non arrivi nessun altro.» Il Regista Baffuto inizia a togliersi il cappotto mentre aspettiamo l'ascensore. Lui ha passato tutta la vacanza a San Francisco a togliersi e rimettersi il cappotto. Il tempo a San Francisco è spesso così: ci sono giornate in cui sembra che la stagione cambi venti volte. Probabilmente in un'altra città anch'io lo troverei snervante, ma quando torno a casa non mi dà nessun fastidio; anzi, quel clima mutevole mi è molto familiare, mi dà pace ai sensi. Come se mi appartenesse, in senso emotivo. «Perché non vuoi che salga qualcun altro?» mi chiede il Regista Baffuto nello stesso istante in cui appare un gruppetto di omoni con borse di Macy's e bicchieri di Starbucks con la cannuccia. Lui sorride, io alzo gli occhi e abbasso la voce, anche se è improbabile che loro capiscano l'italiano. «Θ bello arrivare in cima tutto in una volta. Se c'è gente che scende prima è meno divertente. Tutto qui. Aspettiamone un altro.» Quando arriva l'ascensore, il gruppetto ci guarda interrogativo. Il Regista Baffuto si toglie il cappello e china il capo, mentre fa un passo indietro. «Je vous empris» dice in francese. Gli omoni rimangono immobili, uniti dalla stessa perplessità. «Please, go ahead» gli spiego in inglese. «We'll wait for the next.» Io e il Regista Baffuto ci scambiamo un sorriso. Un signore con una giacca di velluto a coste e un cappello da baseball ci dice: «Oh, okay. Thanks». E l'ascensore si riempie di gambe, braccia, voci, borse e bicchieri finché la porta non si chiude. «Très génial, chéri» dico. «Ηa va sans dire» mi risponde il Regista Baffuto. E si rimette il cappotto. Dall'ultimo piano si vede tutta la città o almeno la parte sudest: la baia, il Bay Bridge trascurato fratellino del Golden Gate le navi, il profilo di downtown, tutto da così in alto che mi dà un brivido ogni volta, io che soffro di vertigini. Quel giorno non c'era nebbia. C'era il sole e un po' di vento, e le nuvole alte disperse, ma niente nebbia e quindi si vedeva tutto benissimo. Θ vero che qualsiasi posto sembra più affascinante dall'alto persino i paesaggi attorno agli aeroporti diventano interessanti quando si è appena decollati o si sta per atterrare ma San Francisco è così imbarazzantemente stupenda e vanta così tante colline e cime che non ha bisogno di un ascensore di vetro in un albergo a quattro stelle, ormai un po' troppo popolare. Ma è lo stesso divertente farsi un giro.
Gli ascensori corrono all'esterno dell'edificio: dalla strada, se guardi in
su li puoi vedere se sai che ci sono e se
t'importa qualcosa. Quando arriviamo in cima, al trentaduesimo piano, le porte
si aprono ma noi non usciamo e nessuno
entra. Non ci sono camere all'ultimo piano, solo una sala che
l'albergo affitta per occasioni speciali, tipo matrimoni. Non
ci sono mai stata. Tengo un dito sul bottone con il simbolo >l<, che sta per
«aprire la porta», e rimaniamo lì per un po',
sospesi. Gli indico i posti dall'alto, aggiungendo sempre
qualche dettaglio: il Museo d'arte moderna di Mario Botta, il
terribile Hyatt a forma di jukebox progettato da un povero
demente, lo stadio di baseball dove le palle colpite in un
home run
spesso finiscono nella baia, il famoso Transamerica
Building, che è il palazzo più alto della città: credo che abbia
più di quaranta piani, ma non me lo ricordo esattamente.
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