Copertina
Autore David Foster Wallace
Titolo Questa è l'acqua
EdizioneEinaudi, Torino, 2011 [2009], Stile libero Big , pag. VI+170, cop.fle., dim. 13,5x20,6x1 cm , Isbn 978-88-06-19969-2
OriginaleThis is water [1991] - al.
CuratoreLuca Briasco
TraduttoreGiovanna Granato
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa statunitense
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Indice


  V David Foster Wallace

    di Don DeLillo


    Questa è l'acqua

  3 Solomon Silverfish

 55 Altra matematica

 59 Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta

 83 Crollo del '69

 99 Ordine e fluttuazione a Northampton

143 Questa è l'acqua


157 Cosí nascosto in bella vista
    di Luca Briasco


 

 

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Pagina 3

Solomon Silverfish


Solomon

Alle 2:30 del mattino, a letto, Solomon Silverfish, sassone segreto, celta teorico, aveva due notizie per Ira Schoenweiss, all'altro capo del filo. La prima era che a sentire le vicende di quella notte il culo troppo-stupido-e-ciccione-anche-solo-per-commentare-quanto-fosse-stupido-e-ciccione di Ira Schoenweiss era ancora il culo di Ira Schoenweiss solo perché stava dentro una grossa imbracatura giudiziaria che glielo teneva attaccato al corpo. La seconda era che se Silverfish non sbagliava quello era il terzo e peggiore arresto per guida in stato di ebbrezza in due anni, e che si credeva, che Silverfish era un superman? Che faceva miracoli giudiziari? La notizia premio per Ira era che se Ira non teneva la bocca chiusa e questo significava cucita, specie con Zero Kretzman, fino all'arrivo di Silverfish, Silverfish avrebbe ridotto Ira a un colabrodo con le sue mani, risolvendo cosí i problemi di tutti. Solomon disse che Ira lo conosceva troppo bene per non sapere che dicendo che l'avrebbe ridotto a un colabrodo non scherzava. Ira Schoenweiss si disse a un passo dalle lacrime tanto gli dispiaceva dover coinvolgere Silverfish in quella faccenda. Silverfish gli disse di non muoversi, che l'avrebbe raggiunto cosí in fretta da non trovare nemmeno un attimo per vestirsi o mandare giú un boccone. Schoenweiss disse che stava per mettersi a piangere. Silverfish gli disse di non preoccuparsi e di non piangere, non era proprio il caso, poi riattaccò il telefono che teneva sul comodino.

Silverfish si sedette sul letto schiaffeggiando varie volte l'aria a mani aperte, prese a saltellare con il sedere sul materasso per la rabbia, il fastidio e la scocciatura in senso lato. I saltelli servivano anche a far scivolare i pantaloni del pigiama alle caviglie perché Dio non voglia che uno si presenti al Quarantesimo Distretto di Polizia per affrontare Kretzman su una vicenda del genere con i pantaloni del pigiama.

E attraverso le tende bianco diafano della camera da letto di Silverfish, alla vampa color zucca del lampione al sodio giú in strada, si scorgeva la linea drittissima di Sophie Schoenweiss Silverfish che, girata su un fianco, saltellava leggermente anche lei, per effetto dei saltelli di Solomon. Aveva l'ago di una flebo fissato al polso, un tubicino che conduceva alla piantana sul suo lato del letto, una boccia di vetro piena di glucosio, analgesico e antimetabolico, trasparente consommé ora acceso di arancione sporco nella boccia e nel tubicino alla luce filtrata dalle tende diafane della camera da letto e proveniente dal lampione al sodio giú nella strada molto tranquilla e altrettanto rispettabile dove i Silverfish abitavano a Skokie, una certa zona di Chicago. Silverfish, i pantaloni del pigiama ancora ai piedi, guardò per un istante, forse due, l'attutita luce arancione che scendeva goccia a goccia dentro Sophie. Dall'estremità della linea del suo profilo, dal suo cuscino, dove cadeva piú luce, giunse la voce di Sophie.

- È Ira, vero, che chiama a quest'ora? - Silverfish si alzò dal letto con soltanto la giacca del pigiama. Sophie non aveva dormito, si capiva dalla voce. Silverfish scrollò una pila di vestiti su una sedia riconoscendo i pantaloni del giorno prima dal peso nelle tasche. I boxer per fortuna erano ancora dentro i pantaloni. Annusò i boxer che fecero da filtro alla sua voce. - È proprio quell'Ira-sono- un-artista-troppo-importante-e-sensibile-e-neanche-a-dirlo-intellettuale-per- rispettare-le-regole-elementari-del-vivere-civile-che-tutti-dobbiamo-rispettare- e-invece-me-ne-vado-sbevazzando-e-guido-per-la-città-cosí-ubriaco-da-non- reggermi-in-piedi-e-Dio-sa-se-non-poteva-capitare-solo-a- Ira-di-schiantarsi-contro-la-macchina-di-Kretzman-proprio-davanti-al-distretto- di-Dempster-street Schoenweiss, che lo possano appendere al soffitto per le budella mentre Kretzman gliele suona sul culo con la prima cosa appuntita che gli capita a tiro, e piú è appuntita meglio è, fino al mio arrivo -. Silverfish trovò le scarpe e due calzini che chissà se erano uguali.

Sophie si girò con cautela sulla schiena a guardare la sagoma di Silverfish, che si allacciava le scarpe contro il bordo del letto. - La macchina di Zero Kretzman? Parli del signor procuratore distrettuale nonché pubblico ministero Kretzman?

- Parlo di Ira-mi-ficco-sempre-in-qualche-casino-notturno Schoenweiss che a mia moglie è toccato in sorte come fratello! - tuonò Silverfish. Balzò sul letto con l'agilità di una persona molto piú giovane e si mise a cavalcioni su Sophie. Le morse la spalla. Prese la parrucca dal comodino e la lanciò con la scioltezza che viene dall'esercizio sulla boccia di vetro della flebo, che tintinnò oscillando sulla piantana. Silverfish baciò Sophie sullo sterno. Le diede un buffetto sulla pancia. - Cicciona! - sibilò. - La mia oscena cicciona rosa sorella di un giudeo piantagrane, ciccione pure lui.

Sophie rideva forte quanto poteva. Il suono le riecheggiava nel petto come in un impianto elettrico. Con il braccio scollegato sfiorò i bottoni della giacca di Silverfish. - Sei ancora in pigiama, signor imparentato-con-giudeo- piantagrane-e-moglie-cicciona-avvocato-in-missione-umanitaria Silverfish.

- Dovrei mettermi in frac per Ira e Kretzman? Con tanto di code, magari? Fingere che non sia una scocciatura? - Silverfish sentí Sophie sforzarsi in silenzio di respirare sotto il suo peso e si tolse delicatamente, camminò sul materasso con passo lieve e andò a prendere le chiavi sul comò. Vicino alle chiavi trovò una cravatta e se la mise al collo. Sophie respirò guardandolo in quella luce sporca.

Silverfish prese la spazzola e si girò verso il contorno dello scheletro di sua moglie sotto le coperte. - Di', ti senti in forma? Posso andarmene qualche ora?

- Vattene per sempre, - disse Sophie. - Salva un pittore paffuto da una vita da criminale in prigione. L'infermiera della clinica viene alle dieci ed è a mia completa disposizione tutto il giorno.

- Io non torno molto prima delle dieci, per il tuo Ira sarà dura continuare a vivere dopo che l'avrò ridotto a un colabrodo! - Silverfish schiaffeggiò l'aria.

- Guida come uno che ha la testa sul collo, Solomon.

Silverfish apri la porta della camera da letto. - Luce accesa, che dici? Un libro da leggere? Televisione?

Sophie sorrise e si passò la mano sul cranio. - Niente luce. Dormivo cosí bene. Un ciocco.

- Un ciocco?

- Un pezzo di legno inanimato, ecco cos'ero, - disse Sophie. - Dormivo come una cosa morta.

- Allora torna a fare il legno inanimato, - bisbigliò Silverfish.

Sophie sorrise. - Cosí mi esercito per quando sarà il momento.

Silverfish strinse gli occhi nella penombra. Sophie lo guardò. Cominciò a scusarsi con bisbigli che solo lui sapeva sentire. Giú in strada, nell'auto in fondo all'isolato, nel buio tra due lampioni, Alan Schoenweiss si puliva l'unghia del pollice con il fermacravatta.

- Sta' zitta e dormi, in quest'ordine, - disse Silverfish alla moglie. Scese in cucina a mangiare un boccone. Sophie fissò lo spazio della porta socchiusa e il fievole bagliore bianco caldo che ora veniva dal piano di sotto illuminato, mischiandosi al sodio che veniva dalla finestra e creando un arancione verdognolo. Respirò.


Alan

ISTRUZIONI PER UNA PERSONA CHE AMMESSO CHE STIA FACENDO UNA COSA LEGITTIMA E IO PREFERIREI CHE NON FOSSE COSÍ LEGITTIMA POTREBBE VOLER IDENTIFICARE SOLOMON SILVERFISH, L'AVVOCATO, E MAGARI ANCHE SEGUIRLO FINO AL QUARANTESIMO DISTRETTO DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO, ALL'ANGOLO TRA DEMPSTER E PROSPECT STREET, CHICAGO, ILLINOIS, ALLE 3:00 DEL MATTINO DI STAMATTINA.

Tenere gli occhi bene aperti casomai comparisse Ford Thunderbird rossa del 1961, nuova di zecca che mantenerla costa Dio sa quanto, decappottabile, con pneumatici da neve ancora montati il tredici di maggio per via del fatto che il proprietario dell'auto ha una paura mortale di guidare sulla neve d'inverno e se ne infischia del rumore, figuriamoci poi dell'usura del battistrada, pur di risparmiarsi la scocciatura di togliere gli pneumatici solo perché il tempo si è aggiustato un po', che anche a maggio con la neve non si sa mai, qui a Chicago. Questa Thunderbird di notte gira spesso a fari spenti per via del fatto che il soggetto che è proprietario dell'auto ha la testa tra le nuvole, e comunque saprebbe andare nella Quarantesima a occhi chiusi e a proposito, prima di seguirlo troppo da vicino, date retta a me, probabilmente è proprio quello che sta facendo. Alla voce testa tra le nuvole vedi anche il fatto che il soggetto nella Ford Thunderbird rossa del 1961 indossa i pantaloni di un completo costosissimo e devo ammettere assai elegante preso al reparto chic di Marshall Field, in vendita ogni primavera ma meglio andarci in anticipo, e sopra un pantalone del genere ha una vecchia giacca del pigiama di flanella gialla con macchia blu alla dottor Rorschach sul taschino, dovuta al fatto che una volta il soggetto ha tenuto tutta la notte in tasca una penna che perdeva nel sonno. Una cravatta è legata intorno al colletto di flanella del soggetto, legata come spesso il soggetto lega la cravatta quando ha sonno e si lega le scarpe con un mezzo Scappino: sí, la cravatta è legata come si legherebbe il laccio di una scarpa. Attenzione a pericolose sterzate della Thunderbird rossa mentre il soggetto cerca di aggiustare la cravatta nello specchietto retrovisore. Il soggetto frusta l'aria come un demente con mani aperte da karateka quand'è arrabbiato, come lo si vede fare adesso per via della suddetta cravatta, e ha fama di ripetere minacce come la minaccia di «ridurre a un colabrodo» le persone, e la minaccia che le sue mani sono letali come armi. Tali minacce si disperdono spesso tra le raffiche di vento quando il tettuccio della decappottabile è abbassato, vedi adesso per esempio. Quando il tettuccio è abbassato si vede anche che il soggetto, affetto dal problema maschile della perdita dei capelli a chiazze che non auguri nemmeno al tuo peggiore nemico, si fa crescere i capelli grigi lunghi e prodigiosi su un lato della testa e poi li riporta sopra per nascondere una pelata da fare invidia a quel Kojak della televisione, solo che col vento forte, come in una decappottabile, l'aria li sposta facendoli svolazzare da tutte le parti, spesso drizzandoli di fianco e dietro la persona a mo' di mezza aureola, come se non fosse ridicolo parlare di aureole in rif. a questo soggetto che stanotte potrebbe andarsene tranquillamente all'inferno. Ma avendo vento o gesti nervosi vanificato l'accurata pettinatura, i capelli lunghi del soggetto penzoleranno su un lato della faccia del soggetto come una specie di velo per il resto del giorno, o della notte, oscurando la visione periferica laterale del soggetto e costringendolo spesso a dare varie angolazioni alla testa quando ti parla, angolazioni cosí strane che spesso ti viene voglia di dire smettila di contorcerti e pettinati quei capelli!

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Pagina 59

Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta


Prendo gli antidepressivi da, quanto sarà, un anno, e ritengo di avere i numeri per dire come sono. Sono straordinari, davvero, ma sono straordinari come sarebbe straordinario vivere, che so, su un altro pianeta caldo e comodo fornito di cibo e acqua fresca: sarebbe straordinario, ma non sarebbe la cara vecchia Terra. Ormai è quasi un anno che non sto sulla Terra, perché sulla Terra non me la cavavo troppo bene. Diciamo che me la cavo un po' meglio dove mi trovo adesso, sul pianeta Trillafon, con grande piacere, credo, di tutti gli interessati.

A prescrivermi gli antidepressivi è stato un dottore molto simpatico che si chiama dottor Kablumbus in un ospedale dove mi hanno portato per pochissimo tempo dopo un incidente davvero ridicolo con certe apparecchiature elettriche dentro la vasca da bagno del quale non ho davvero voglia di dire granché. Sono dovuto andare in ospedale per le cure mediche in seguito a quello stupidissimo incidente, e due giorni dopo mi hanno trasferito a un altro piano dell'ospedale, un piano piú alto, piú bianco, dove c'erano il dottor Kablumbus e i suoi colleghi. Hanno discusso un bel po' dell'eventualità di sottopormi alla TEC, che poi sarebbe l'abbreviazione di «Terapia Elettroconvulsivante», solo che la TEC a volte cancella pezzi di memoria - piccoli particolari trascurabili tipo come ti chiami, dove abiti, ecc. - ed è terrificante anche sotto certi altri aspetti, perciò noi io e i miei genitori - abbiamo deciso di non farla. Una legge del New Hampshire, che poi sarebbe lo Stato dove vivo, stabilisce che la TEC non può essere praticata senza il consenso dei genitori. A me sembra una gran bella legge. Cosí il dottor Kablumbus, che ha davvero a cuore unicamente il mio interesse, mi ha prescritto invece gli antidepressivi.

Se qualcuno vi racconta di aver fatto un viaggio, vi aspettate come minimo uno straccio di spiegazione sul perché è partito per quel viaggio. Alla luce di questo vi racconterò certe cose che spiegano come mai le cose sulla Terra per me non andavano troppo bene ormai da un pezzo. È stranissimo, ma tre anni fa, quand'ero all'ultimo anno delle superiori, ho cominciato a soffrire di quelle che ora chiamerei allucinazioni. Ero convinto che un'enorme ferita, una ferita davvero enorme e profonda, mi si fosse aperta sulla faccia, sulla guancia vicino al naso... che la pelle si fosse spaccata come un frutto maturo, che uscisse il sangue, scuro e lucido, che si vedessero chiaramente le vene, i pezzetti di grasso facciale giallo e di muscolo grigio-rosso e perfino qualche sfolgorante bagliore d'osso, là dentro. Ogni volta che mi guardavo allo specchio, eccola lí, la ferita, e sentivo la contrazione del muscolo scoperto e il calore del sangue sulla guancia, di continuo. Ma se dicevo a un medico, a mamma o a qualcun altro: - Ehi, guarda questa ferita aperta che ho sulla faccia, dovrei andare in ospedale, - loro dicevano: - Aho, non hai nessuna ferita sulla faccia, sicuro che ci vedi bene? - Eppure ogni volta che mi guardavo allo specchio, eccola lí, e sentivo sempre il calore del sangue sulla guancia, e ogni volta che ci passavo sopra la mano le dita sprofondavano in quella che sembrava gelatina bollente con dentro ossa, tendini e cose varie. E sembrava sempre che la guardassero tutti. Sembrava che mi squadrassero in modo buffo, e io pensavo: «Dio santo, hanno davvero il voltastomaco, la vedono, devo andare a nascondermi, levarmi di torno». Invece forse mi squadravano perché sembravo spaventatissimo e sofferente e mi tenevo la mano sulla faccia e barcollavo ovunque e di continuo come un ubriaco. All'epoca, però, sembrava proprio vera. Strano, strano, strano. Subito prima di diplomarmi - o forse un mese prima, forse - la faccenda si era messa davvero male, nel senso che quando toglievo la mano dalla faccia vedevo sulle dita il sangue, i pezzetti di tessuto e cose varie, e sentivo pure l'odore del sangue, come rame e metallo rovente arrugginito. Cosí una sera che i miei erano usciti ho preso ago e filo e ho cercato di cucirmi la ferita da solo. Ho sentito un male boia perché naturalmente non avevo una goccia di anestetico. È stato brutto anche perché ovviamente, adesso lo so, non c'era davvero nessuna ferita da cucire. Mamma e papà non sono stati per niente contenti quando rientrando a casa mi hanno trovato ricoperto di sangue vero e con una caterva di punti tutti storti e malfatti di filo arancione sgargiante bello spesso sulla faccia. Erano davvero sconvolti. E poi i punti erano troppo profondi - a quanto pare avevo affondato incredibilmente l'ago - e quando in ospedale hanno cercato di tirare via i punti, sotto è rimasto impigliato un po' di filo che dopo ha fatto infezione, cosí mi è toccato tornare in ospedale dove per togliere tutto, spurgare e ripulire hanno dovuto farmi una ferita vera. Quando si dice l'ironia della sorte. E poi mi sa che facendo i punti cosí profondi devo aver infilato l'ago dentro qualche nervo della guancia mettendolo fuori uso, e adesso certi pezzi di faccia mi si intorpidiscono senza motivo, e la bocca pende un poco sul lato sinistro. So per certo che pende e che ho questa bella cicatrice, qui, perché non si tratta solo di guardarmi allo specchio, vederla e sentire che c'è; gli altri, anche se con estremo tatto, mi dicono che la vedono anche loro.

Fatto sta che secondo me quell'anno se ne sono accorti tutti che ero un soldatino pieno di problemi, me compreso. Dopo tante chiacchiere e consultazioni abbiamo deciso di comune accordo che forse era nel mio interesse rinviare l'ingresso alla Brown University del Rhode Island, dove sarei dovuto andare subito dopo, e frequentare invece un anno post-diploma in un'ottima, prestigiosa e costosissima scuola di specializzazione che si chiama Phillips Exeter Academy opportunamente situata nella mia cittadina. E cosí ho fatto. In apparenza è stato un periodo pieno di soddisfazioni, solo che ero ancora sulla Terra, e le cose andavano sempre meno bene per me sulla Terra in quel periodo, anche se la faccia era guarita e avevo piú o meno smesso di avere l'allucinazione della ferita sanguinolenta, a parte alcuni flash davvero brevi in cui con la coda dell'occhio vedevo specchi e cose varie.

Però, sí, tutto sommato le cose andavano sempre peggio per me in quel periodo, anche se a scuola me la cavavo benissimo con il mio programmino post-diploma e tutti dicevano: - Per la miseria, sei davvero uno studente modello, dovresti andare dritto all'università, che aspetti? - A me era chiarissimo che non dovevo andare dritto all'università, ma non potevo mica dirlo a quelli dalla Exeter, perché i motivi per non andarci non c'entravano niente col far quadrare le equazioni a Chimica o interpretare le poesie di Keats a Letteratura. C'entravano col fatto che ero un soldatino pieno di problemi. A questo punto non è che muoia dalla voglia di fornire un resoconto lungo e sanguinolento di tutte le belle nevrosi che all'incirca in quel periodo cominciarono a spuntarmi dentro al cervello, tipo foruncoli grigi e grinzosi, ma certe cose le dirò. Tanto per cominciare, vomitavo un casino, avevo sempre la nausea, specie la mattina appena sveglio. Ma poteva scattare in ogni momento, bastava solo che ci pensassi; se mi sentivo bene, di punto in bianco pensavo: «Ehi, non ho nemmeno un po' di nausea». E scattava subito, manco avessi un grosso interruttore di plastica lungo il tubo che collega il cervello alla pancia e all'intestino deboli e infiammati, ed ecco che vomitavo nel piatto della cena o sul banco di scuola o sul sedile della macchina, o nel letto, o dove capitava. Era davvero paradossale per tutti gli altri, e profondamente sgradevole per me, come chiunque abbia avuto davvero problemi di stomaco capirà benissimo. La cosa è andata avanti un pezzo, e io sono dimagrito un casino, il che non era un bene perché ero già magrissimo e senza un filo di forze. E poi ho dovuto fare un casino di accertamenti allo stomaco che contemplavano squisiti beveroni al bario, farsi appendere a testa in giú per le radiografie e via dicendo, e una volta mi hanno prelevato pure il midollo spinale, che è la cosa piú dolorosa che abbia mai fatto in vita mia. Io coi prelievi di midollo ho chiuso per sempre.

Poi c'era quella faccenda di piangere senza motivo, che non era dolorosa ma era molto imbarazzante e anche abbastanza spaventosa perché non riuscivo a controllarla. Succedeva che mi mettevo a piangere senza motivo, dopodiché mi prendeva come la paura di mettermi a piangere o che una volta cominciato a piangere non sarei piú riuscito a smettere, e quello stato di paura aveva la gentilezza di azionare un altro interruttore bianco lungo il tubo tra il cervello foruncoloso e gli occhi infiammati, e giú a piangere ancora peggio, come quando spingi uno skateboard senza mai fermarti. Era molto imbarazzante a scuola, e incredibilmente imbarazzante in famiglia, perché i miei pensavano che fosse colpa loro, che avessero fatto qualcosa di male. Sarebbe stato incredibilmente imbarazzante anche con gli amici, solo che all'epoca in realtà non avevo tutti questi amici. Che era un vantaggio, piú o meno. Ma c'erano anche tutti gli altri. Adottavo tutta una serie di trucchetti per il «problema del pianto». Quand'ero in mezzo agli altri e gli occhi diventavano tutti infiammati e pieni di acqua salata rovente fingevo di starnutire, o ancora piú spesso di sbadigliare, essendo due cose che giustificano le lacrime agli occhi. A scuola dovevano pensare che fossi il piú grande morto di sonno del mondo. Peccato che sbadigliare non giustifica per davvero il fatto che le lacrime scorrano lungo le guance piovendo in grembo o sul banco o facendo delle grinze bagnate come tante stelline sui fogli dei compiti in classe e roba varia, e poi sono pochi quelli che hanno gli occhi superrossi per aver soltanto sbadigliato. Perciò quei trucchetti non dovevano funzionare benissimo. È strano ma anche ora, qui sul pianeta Trillafon, ripensando a tutto questo sento scattare l'interruttore e sento gli occhi riempirsi piú o meno di lacrime, la gola bruciare. Brutta storia. C'era anche il fatto che all'epoca non sopportavo il silenzio, non lo sopportavo davvero. Questo perché quando non c'erano rumori esterni i peletti dei miei timpani o che so io producevano un rumore tutto loro, per tenersi in allenamento o cose simili. Era come un ronzio forte, scintillante, metallico, sfavillante che chissà perché mi metteva davvero una fifa blu e mi faceva quasi impazzire quando lo sentivo, come una zanzara dentro l'orecchio a letto in una notte d'estate ti fa quasi impazzire quando la senti. Avevo cominciato a cercare il rumore piú o meno come una falena cerca la luce. Dormivo con la radio accesa, guardavo una quantità incredibile di televisione a tutto volume, tenevo il fidato Walkman della Sony sempre acceso a scuola e ogni volta che giravo a piedi o in bici (quel Walkman della Sony è stato di gran lunga il miglior regalo di Natale che abbia mai ricevuto). Certe volte parlavo perfino da solo quando non avevo altri rumori a disposizione, il che doveva sembrare una bella mattana a chi mi sentiva, e immagino che fossi davvero matto fradicio, ma non come immaginavano loro. Non è che pensassi di essere due persone che possono avere un dialogo, o che sentissi le voci da Venere o cose simili. Sapevo di essere un'unica persona, ma quella persona unica era un soldatino pieno di problemi che non sopportava né la sostanza né le implicazioni del rumore prodotto dall'interno della sua testa.

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