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| << | < | > | >> |Pagina 9A qualche chilometro dall'uscita della superstrada apparve la città, i tetti e le guglie della chiesa appena visibili al di sopra di una lunga fila compatta di alberi di pino. Proprio al confine della città, c'era una vecchia stazione di servizio abbandonata, fatiscente, con le pompe annerite e coperte di ruggine e ciuffi d'erba che spuntavano dalle crepe come se il cemento fosse terra. La porta della stazione era stata divelta e, nonostante la giornata luminosa, l'interno appariva buio, tetro. Avevano portato via tutto, non erano rimasti che i muri. Provai a immaginarla, appena arrivata diciannove anni prima, ferma davanti alla pompa di questa stazione di servizio ad aspettare uno zoticone in tuta sporca di benzina che si puliva le mani con un lurido straccio arancione e si proteggeva gli occhi dalla luce abbagliante. Lei aveva i capelli castani ramati, raccolti sulla nuca con un foulard, gli occhi verdi e sul viso qualche leggera efelide. Aveva rivolto all'uomo un sorriso luminoso, la sua cosa più bella mi ha detto qualcuno. Ma l'immagine svanì rapidamente. Non riuscivo più a metterla a fuoco, a rivederla con la mente.Diciamo però che, mentre il benzinaio riempiva il serbatoio, lei era scesa dall'auto, aveva girato intorno alla stazione di servizio e si era diretta verso la toilette. Anche qui nessuna porta, solo il gabinetto, lo specchio annerito, il lavandino. Era strano pensare che in quello specchio si era riflesso il suo viso, come ora il mio. Se lo specchio avesse avuto una memoria e avesse fatto apparire le immagini passate, io avrei potuto avvicinare il mio viso al suo per vedere quanto si somigliavano, che cosa avevano di simile e che cosa di diverso. Capelli, bocca, occhi, mento. Ma anche così riuscivo comunque a vedere una somiglianza: nessuno dei due aveva idea di ciò che stava per accadere. «Ehi, io sono Lucy Rider» aveva detto a se stessa nello specchio. Oppure, provando quel suo sorriso e raddrizzando le spalle: «Lucy Rider, ciao». Mi guardai e dissi: «Ehi tu, sono Thomas». Ora lo specchio era talmente vecchio che quasi non rifletteva più le immagini. In realtà sembrava quasi un pezzo di latta, e io non riuscivo a distinguermi bene. Viso bianco, capelli castani, occhi verdi. Labbra, naso e orecchie che si potevano definire solo normali. Altezza media. Un americano di diciotto anni, un po' zoppicante. Un tipo dall'aria semplice. Girai intorno alla stazione di servizio fino a una cabina telefonica del tipo che non si vede più in giro, una scatola rettangolare di vetro, come quella che usava Superman. Il telefono funzionava ancora. Era di quelli a disco. Chiamai Anna. «Okay» dissi. «Direi che ci sono quasi.» «Stai chiamando dalla stazione di servizio?» «Da quello che resta» risposi. «È chiusa.» «Le cose cambiano, eh?» disse lei. «In diciotto anni...» Pensai alla strada che porta alla nostra fattoria, quando non c'erano altro che alberi, prima del cosiddetto sviluppo, e al fatto che qui stava accadendo esattamente il contrario: tornavano gli alberi. Immaginai che presto nulla avrebbe fatto supporre che qui una volta c'era una stazione di servizio. «Penso che dovrei entrare in città.» «Penso proprio di sì» disse lei. La città in cima alla collina ora sembrava lontana. Attraverso la folta vegetazione riuscivo a vedere quel che restava di un'insegna che un tempo doveva essere stata dipinta di rosso, verde e nero e che ora pendeva tutta da una parte, sbiadita e rovinata dalle intemperie. Diceva: BENVENUTI A ASHLAND, CAPITALE MONDIALE DEL COCOMERO! «Senti» dissi «me lo puoi ripetere?» «Che cosa?» «Perché lo sto facendo.» Avevo la bocca secca e dentro la testa sentivo il cuore che pulsava. «Perché è quello che fa un uomo» disse lei. «Un viaggio.» «E perché?» «Per trovare se stesso.» «E io sono un uomo.» «Esatto, sei un uomo.» «E tutto quello che mi hai raccontato... quello che è successo a mia madre qui a Ashland. Era tutto vero?» «Sì» disse. «Incredibile ma vero. Però è stato tanto tempo fa, Thomas. Le cose sono cambiate, ne sono certa.» «Sicuro» dissi io. Mi sentivo come un investigatore che lavora a un caso disperato con diciotto anni di ritardo. Il piano che avevamo deciso io e Anna, era questo: guardarsi intorno, parlare con la gente, fare qualche domanda. Mi scusi, sì, buona sera, il nome di Lucy Rider le dice qualcosa? Sì, signora, proprio così: Rider. Quello che so è che venne via dalla zona di Birmingham dopo la morte della madre, su incarico del padre che l'aveva «ingaggiata» (un lavoro di ripiego, così sembra, per una figlia che non aveva troppe prospettive) per controllare le sue proprietà sparse nello stato. Per svolgere il suo lavoro finì per restare qualche tempo qui, a Ashland, dove poi è morta. Sì, signora: una donna graziosa, così mi hanno detto. Grazie, grazie davvero. Oh, un'altra cosa, signora. Ecco, si sa anche che il giorno in cui è morta ha dato alla luce un bambino, si chiama Thomas. Thomas Rider. In realtà è proprio lui che sto cercando. Sì, signora. Se lo vede, me lo faccia sapere. | << | < | > | >> |Pagina 12Loro parlavano e io ascoltavo. In piedi, sbalordito. Tutti avevano una storia da raccontare, ognuna leggermente diversa dall'altra. Solo una era sempre uguale chiunque fosse a raccontarla. Era la storia del Re dei cocomeri, una storia più vecchia delle parole con cui è stata scritta. Più vecchia della città, degli uomini che l'avevano costruita e anche degli indiani che vivevano lì prima di loro. Era una storia tramandata nel tempo dai primi uomini e dalle prime donne quando emettevano solo versi e che, arrivati qui, impararono a raccontarla con le parole come la raccontano ancora oggi. Così. «Una volta, tanto tempo fa, sotto questo sole, in questi campi, c'erano cocomeri dappertutto. Dovunque si guardasse, cocomeri. Non si poteva camminare senza doverne scavalcare qualcuno. Nessuno pensava a coltivarli, era come se crescessero da soli. Dicevano che si poteva osservare un viticcio crescere, si poteva davvero vederlo muoversi sul terreno come se stesse cercando qualcosa a cui aggrapparsi, che si poteva vedere un cocomero gonfiarsi come un pallone davanti ai propri occhi e che alcuni diventavano così grandi, così enormi che, una volta svuotati, i bambini potevano stare in piedi al loro interno. «Al culmine della stagione, quando il clima era caldo e umido, al mattino la gente si svegliava e scopriva che la casa era interamente avvolta dai viticci; si raccontava che più di un neonato ne era stato completamente ricoperto mentre dormiva vicino a una radura particolarmente rigogliosa. Per fortuna, alla maggior parte delle persone non era mai successo nulla di grave. Al mattino bastava tagliare i viticci avviluppati intorno alla casa, oppure strapparli via se si avvinghiavano intorno alle caviglie. «Naturalmente tutto questo accadeva tanto tempo fa. Questa leggendaria abbondanza ora non esiste più e nessuno sa bene perché. Comunque, a un certo momento della nostra storia, il cocomero diventò una coltura come un'altra, cominciò a essere piantato e raccolto, e venduto in città vicine e lontane. Così, per la sua grossezza e il suo gusto gradevole, l'ineguagliato cocomero di Ashland divenne famoso in tutto il mondo e questa zona fu sempre ritenuta benedetta in qualche misterioso modo da Dio, o da un dio, il nostro dio. Il cocomero era considerato un dono di questo dio e onorare il cocomero era come onorare Dio, tanto che fin dall'inizio gli uomini decisero di organizzare un festival, un evento annuale che ricorreva appena prima dell'inizio della raccolta. «Durante il festival il cocomero veniva celebrato in vari modi. Si cantavano canzoni, si dipingevano murales e l'uomo o la donna che aveva coltivato il cocomero più grosso riceveva l'omaggio di tutta la città. «Ma i maggiori onori venivano tributati alla stupefacente e inspiegabile fertilità della zona. Naturalmente il terreno e il sole contribuivano al grande mistero, al di là di ogni comprensione. Nessun mistero però su quale dovesse essere il primo passo: il seme del cocomero doveva essere piantato e coltivato. La fertilità era tutto, senza di essa la nostra sarebbe stata una città diversa. «Il futuro della città e quello del cocomero sembravano intrecciati in modo così stretto che nella nostra mente il seme del cocomero venne equiparato a quello che genera i bambini: un ragazzo che sarebbe diventato un agricoltore, una ragazza che sarebbe diventata una donna e si sarebbe presa cura dell'agricoltore, nessuno dei due migliore o peggiore dell'altro. Questi uomini e queste donne avrebbero continuato a svolgere il lavoro di quelli che avevano coltivato la terra per tanto tempo, prima di andarsene. A che cosa somiglia, infatti, il ventre rigonfio di una donna quando è appesantito dalla vita che le cresce dentro? «Era per questa ragione che un maschio vergine era considerato una maledizione. Se un maschio raggiungeva l'età della virilità ancora vergine, era giudicato una minaccia per la prosperità di Ashland, e così ogni anno ne veniva scelto uno perché fosse sanato. Era un sacrificio vero e proprio. Il sacrificio della sua verginità. «L'uomo veniva individuato grazie all'intervento di una vecchia donna, un'abitante della palude, che lo riconosceva fissandolo negli occhi e annusandolo. Un uomo ancora vergine non è completo e, guardandolo a lungo, si riesce a vedere attraverso di lui come fosse una lastra di vetro. Quella donna ne era capace. «Gli uomini del villaggio venivano esaminati a uno a uno e si sceglieva il più vecchio fra quelli che non erano ancora stati con una donna. L'ultimo giorno del festival, al tramonto, l'uomo veniva condotto su un carro davanti a tutta la popolazione. Era il re. La scorza di un cocomero come corona, e per scettro un viticcio secco e avvizzito. La gente lo osservava e lo acclamava fra grandi risate. Poi, al tramonto, gli accendevano intorno un cerchio di fuoco e lentamente la gente si affollava intorno, rimanendone però fuori. «L'uomo restava solo dentro al cerchio di fuoco, in attesa. A quel punto le tre donne prescelte, vestite di un semplice abito di cotone bianco, raggiungevano di nascosto una capanna nei campi poco lontani. Al centro della capanna c'era un sacchetto pieno di semi di cocomero, puliti ed essiccati, duri e scuri come sassolini. Ma uno dei semi era d'oro. Ciascuna donna infilava la mano nel sacchetto, prendeva una manciata di semi e la mostrava alle altre. Quella che aveva il seme d'oro usciva dalla capanna e, da sola, attraversava il cerchio di fuoco, prendeva l'uomo per mano e i due si ritiravano in un luogo appartato nei campi. Sotto i raggi della luna, l'uomo piantava il suo seme dentro di lei, cosa che poi la donna doveva testimoniare raccontando davanti a tutti quanto era successo. Si pensava che in questo modo il futuro della città e della coltura da cui essa dipendeva fosse assicurato almeno per un altro anno e, dal quel giorno in poi e per tutto l'anno seguente, l'uomo, che per la prima volta aveva donato se stesso a una donna, era riconosciuto e chiamato il Re dei cocomeri. «Ma se fosse esistito un uomo vergine e non fosse stato sacrificato, allora il dono che ci era stato dato ci sarebbe stato tolto e i nostri cocomeri sarebbero avvizziti sotto il sole implacabile e noi non avremmo avuto più nulla. Così è e così è sempre stato, ancora prima che ci fossero le parole per scriverlo.» | << | < | > | >> |Pagina 42Al Speegle si muoveva lentamente come se ogni passo fosse stato segnato in precedenza su una mappa e lui avesse qualche problema a ricordare la direzione esatta. Nonostante dovesse avere quasi settant'anni, aveva una massa di capelli castani (la testa di un giovanotto) e un bel viso senza età da attore televisivo. Denti forti e bianchi, spalle larghe e un modo di fare rassicurante. Mi piacque subito. La storia della «farmacia» e dell'intera tradizione farmacologica è piuttosto interessante. Perciò, prima di parlare di sua madre, vorrei dire qualche parola su questo argomento, visto che lei è qui e non mi capita spesso di poter parlare di queste cose con qualcuno... i miei figli hanno lasciato il nido da tempo e hanno mogli i cui interessi si limitano a rimuovere la polvere e a coltivare il pomodoro perfetto. È un soggetto affascinante, soprattutto vista la scarsa considerazione che la maggior parte delle persone ha per i farmacisti. È sorprendente quanta gente ci giudica alla stregua di medici falliti. O di falliti e basta. Quante persone sanno che fin dall'inizio dei tempi nell'arte della guarigione c'è sempre stata la distinzione fra i compiti del medico e quelli dell'erborista, che riforniva il medico del materiale grezzo per fare i medicamenti? Molto poche. I medici-sacerdoti egiziani erano divisi in due classi: quelli che visitavano il malato e quelli che restavano nel tempio e preparavano i rimedi per guarirlo. È difficile immaginare un sacerdote egiziano trattato, o anche solo considerato, come lo sono oggi i suoi discendenti. E che dire della Cina? Senza i farmacisti non ci sarebbe la medicina orientale. Punto. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, specialmente in questo paese, il livello della classe farmaceutica si è drasticamente abbassato. Benjamin Franklin, il padre della farmacia... americana almeno... si rivolta nella tomba. Lei sa che noi farmacisti una volta preparavamo davvero le pillole? Proprio così, e anche i cataplasmi, le pozioni e i cachet. Adesso non più, siamo diventati solo gli addetti a un dispensario. Ma la professione ha nobili origini e questo significherà pure qualcosa, credo. Io so molte cose di tanta gente. Un farmacista sa molte più cose di quanto la gente possa credere: segreti, grandi e piccoli... la medicina che uno prende per stare bene o quella che assume per stare ancora meglio... io so tutto. Sotto molti aspetti un farmacista è la variante moderna di un antico stregone. È questa la ragione per cui la mia posizione è più elevata rispetto agli altri... in farmacia voglio dire. Guardo tutti dall'alto in basso, o piuttosto è la gente che è costretta ad alzare gli occhi per guardarmi. Non che io volessi diventare un farmacista. Fin da piccolo ho sempre desiderato diventare pilota di linea. Ero solo un bambino e ai bambini, si sa, queste cose piacciono molto. Non ho mai smesso di desiderare di volare su quei grandi aerei. Mai. La mia camera era tappezzata di manifesti di DC-9 e simili... e quanti modellini ho costruito! È stato il sogno della mia vita. Ma mia madre mi sconsigliò, in verità me lo proibì. Non era una cosa sensata, diceva. Sosteneva che dovevo fare il farmacista, figuriamoci! Ed eccomi qua. Perché non mi ha fatto fare quello che volevo? Che male c'era? Non l'ho mai perdonata e non ho perdonato me stesso per aver rinunciato al mio sogno. Però non voglio generalizzare, questo non vale per tutti. No. Ancora adesso ai bambini direi: ascoltate vostra madre. Lucy Rider. Penso che la sua bellezza fosse quasi drammatica. Con il termine «drammatica» voglio dire che sembrava una stella del cinema, il suo viso era di una tale perfezione e la sua espressione così radiosa, che quando uno la guardava capiva subito che innamorarsi di lei non era solo possibile, era obbligatorio. Una necessità del cuore. Ma qui, in questa città, la sua bellezza era sprecata. È stato questo il dramma. Sarebbe stato altrettanto drammatico, per fare un esempio, vedere... mmhm... Einstein fare il contabile, oppure Bach scrivere motivetti musicali per la pubblicità di un analcolico. Voglio dire che la sua bellezza era una sorta di talento così grande che sarebbe bastato a soddisfare il mondo intero. | << | < | > | >> |Pagina 88Quando ho sentito che cosa aveva intenzione di fare, le ho detto: Lucy, tu stai per aprire una scatola senza sapere che cosa c'è dentro. Lei ha risposto che sapeva che ci sarebbero state conseguenze. Ha detto: Non mi farò vedere per qualche settimana. Per lei è stato duro perché era una persona molto socievole, sempre in giro a parlare con le persone, cercando di fare quello che poteva per aiutarle, e loro aiutavano lei. Scomparirò per qualche settimana, ha detto. Io ho pensato che fosse ottimista. La gente non dimentica tanto facilmente, ho detto. Da queste parti ancora combattiamo per qualcosa che è cominciato più di cent'anni fa. Allora non dovevi dire dimentica, ma perdona. È stato in quel momento che ho capito perché ero stata tanto triste così a lungo. Non perché ero sola, anche se lo ero davvero. Non perché volevo un lavoro migliore, anche se era vero. Era colpa del Sud. Io odio il Sud, lo odio ancora. Odio le sue lunghe estati calde, gli alberi di pino e i posti dove prima crescevano... quegli orrendi centri commerciali e i locali 7-Eleven e i fast food. Odio i posti dove per cent'anni non succede niente, posti come Ashland, e odio quei pazzi che ci vivono. Non parlarmi del «fascino del Sud» o della sua ospitalità: la odio perché è solo un modo di mascherare il disprezzo. Odio le storie che ci raccontiamo a vicenda su come era tatto bello prima e mammina e papino e la terra e la bandiera e la guerra e Cristo... guarda, credo di odiare anche lui. Non farmi andare avanti. È come vivere in una bella casa con un cadavere nello scantinato. Capisci che cosa voglio dire? Se ti abitui all'odore e alle mosche, allora va bene. Quello che stava succedendo a tua madre poteva succedere solo lì. Me lo dice il cuore. Ma lei non lo sapeva. Non sapeva in che guaio si era cacciata. Uno non può distruggere da solo una cosa così importante come il festival e aspettarsi di essere perdonato. Il fatto strano è che, anche se ero la sua migliore amica e lei la mia, una piccola parte di me diceva che Lucy aveva esagerato. Ero abituata al festival da una vita e, per quanto odiassi questa città, il festival mi sarebbe mancato. Mi sarebbe mancato perché era qualcosa che conoscevo. Capivo perché Lucy aveva fatto quello che aveva fatto, eppure anche per me era difficile da accettare. Comunque, il piano era rintanarsi in casa fino a quando avremmo capito che poteva uscire e riprendere la solita vita. Ma quel momento non è mai arrivato. Servivo i caffè allo Steak & Egg e ascoltavo i clienti dire che tutto sarebbe cambiato e sarebbe cambiato in peggio, poi tornavo da lei per portarle da mangiare e le dicevo ancora no, Lucy, ancora no. Sentirlo le faceva molto male, la demoralizzava. Era diventata pallida e aveva le occhiaie. Voleva uscire per vedere le persone che pensava le fossero amiche, ma la gente diceva di lei le cose più orribili... non potevo nemmeno riferirgliele tanto erano orribili. Gli uomini poi, vecchi e giovani, erano i peggiori. Ridacchiavano e dicevano che Iggy li aveva tirati fuori dai guai. Erano gli unici a voler credere che era stato proprio Iggy. Una volta ho chiesto a tua mamma: Che cosa è successo veramente? A me puoi dirlo. Ma lei ha scosso la testa e ha sorriso. La verità non le sarebbe mai uscita di bocca. Così il tempo passava e non succedeva niente di nuovo, a parte il fatto che Lucy diventava ogni giorno più grossa. Ormai doveva essere di almeno sei mesi. Una notte si è sentita così male che ho pensato che stesse per succedere qualcosa. Lo ha pensato anche lei e ha detto che voleva andare all'ospedale, quello di Kingston, così ho preso il telefono per chiamare, ma non si sentiva nessun segnale. In casa non funzionava più nemmeno un apparecchio telefonico. Ci siamo guardate e lei ha capito che cosa era successo, l'ho capito anch'io. Allora ho detto: Lucy... e lei: Non ci pensare, va tutto bene, ha detto, io sto bene. Dobbiamo fare da sole. Sono sicura che ce la facciamo. Non ho bisogno di un dottore, non lo voglio. Sto bene. Aveva cambiato idea, in meno di un secondo. Quando vedeva che una strada era chiusa, ne prendeva un'altra, tua madre era fatta così. Ha detto che aveva letto un sacco di cose sui bambini, su come funzionavano le cose e che era normale che a una venisse voglia di vomitare. Sul comodino c'era una pila di libri e anch'io ne ho guardati un paio... è stato un bene farlo. Lucy ha detto che sarebbe andata da un dottore se ci fosse stato un problema, ma che per migliaia di anni le donne avevano avuto figli senza bisogno del dottore e che la maggior parte dei bambini scivolavano fuori da soli. Ha detto che ero io la sua ostetrica. Era piena di speranza, quella ragazza. Gliel'ho detto e lei mi ha risposto: Speranza... era una delle cose dentro la scatola. Però io sentivo che dovevo chiedere aiuto a qualcuno. Così sono andata da Al. | << | < | > | >> |Pagina 120Edmund Rider (il padre di mia madre e, in un certo senso, anche il mio) era fieramente contrario alla verità e dimostrava una spiccata propensione a eludere le domande e a rimandare le risposte. Non ho mai creduto a una sola parola di quello che diceva. Io ero diverso da lui e, anche da bambino, vedevo il mondo semplicemente per quello che appariva, per quello che era. Ero bravo in matematica. Mi piaceva l'idea che ci fosse una sola risposta corretta a una domanda e che tutte le altre fossero sbagliate. Ma a lui questo genere di realtà non bastava, per lui un mondo così era semplicemente il punto di inizio per poter tessere i suoi racconti di prodigi fasulli. Però nonno usava questa sua capacità soprattutto a fin di bene: per vendere case. Non mentiva mai riguardo a cose importanti, come per esempio sull'impianto idraulico o sulla presenza di termiti, oppure sul fatto che la casa era costruita in una golena. Lui mentiva sull'anima della casa, sul suo passato. Chi era vissuto lì, che cosa era successo, perché era stata costruita? Erano queste le storie che inventava e raccontava, storie così affascinanti che uno comprava la casa non perché fosse una casa straordinaria, ma perché voleva far parte della storia straordinaria che lui gli aveva raccontato.Qualche volta mi portava con sé e io lo ascoltavo mentre parlava, frastornato come può esserlo un ragazzino di otto, nove, dieci anni nel sentire storie del genere. Eccolo mentre vende una storia a una coppia giovane e simpatica: «Forse avete sentito parlare della grande migrazione dei monaci tibetani di qualche anno fa, quando... No?! Okay, è una storia lunga, ve la racconto in breve. Nel sessantuno, sessantadue... improvviso attacco cinese. Carri armati, aerei, bum bum, ammazzateli tutti. Un centinaio di monaci tibetani fuggirono dal paese, che naturalmente sarebbe il Tibet. Ma non cercarono di scappare di nascosto, non erano mica contrabbandieri, si vestirono... anzi meglio, si acconciarono come i componenti di un circo viaggiante. Erano veramente flamboyant. Finsero di essere domatori di leoni, conducenti di elefanti, mangiatori di fuoco, equilibristi sul filo e ognuno di loro si mise in tasca un sacchetto di terra tibetana, la madrepatria. Le guardie di confine cinesi... non sono poi così sveglie come potreste credere... li fecero passare senza intoppi. «Si stabilirono proprio qui, a Birmingham, in Alabama. Come arrivarono qui e perché scelsero proprio questa città... be', è un mistero. Però, forse, non del tutto. Esistono alcune interessanti affinità di longitudine fra il Tibet e Birmingham e altre anche di latitudine... ma non sono uno scienziato, controllate pure. All'inizio fu questa la ragione per cui vennero qui, ma poi furono conquistati dalla bellezza di questa città, sdraiata ai piedi degli Appalachi. E chi non lo sarebbe? Io lo sono, sempre... sono affascinato dalla bellezza di Birmingham. «Per farla breve, questa casa, questa strada, tutta questa zona, per circa sei anni fu abitata esclusivamente da monaci tibetani. Dovunque uno guardasse: monaci. Ellen, mia moglie... è mancata qualche anno fa, dieci... sembra impossibile che siano già passati dieci anni... Ellen, dicevo, li conosceva, portava loro sempre i biscotti... ecco che tipo di donna era Ellen. Adesso non ci sono più... Ellen, i monaci... non c'è più nessuno, ma la gente dice che questa zona è benedetta. Devono avere ragione, perché qui non accade mai niente di brutto. Nessun delitto, nessun divorzio, i bambini giocano per la strada e non gli succede niente. Questo da quando arrivarono qui i monaci e poi se ne andarono. A un certo punto si sparsero per il mondo, quei monaci, e chissà dove si trovano ora, ma in ogni metro quadrato, dico in ogni metro quadrato di ogni casa di questa zona c'è un sacchetto di terra tibetana. C'è più Tibet in questa piccola città che nel resto del mondo, fatta eccezione, naturalmente del Tibet. Anche la luce che filtra attraverso le finestre sembra avere una luminosità speciale, non vi sembra? Un momento, guardate. Guardate! E poi i tassi di interesse non potrebbero essere più convenienti».
Mio nonno era molto conosciuto, addirittura famoso in certi ambienti, non
solo a Birmingham. Una volta fece un intervento al Convegno nazionale degli
agenti immobiliari e scriveva regolarmente articoli per il bollettino mensile
dell'associazione. Diceva cose del tipo: «Un agente immobiliare non vende case,
vende sogni». Oppure: «La vostra risorsa maggiore è la magia». Non diceva mai:
«Mentite. Inventatevi qualsiasi cosa e vedrete che funzionerà», ma era proprio
questo che lui faceva. Certe volte quando tornavamo a casa in macchina, lo
guardavo e mi chiedevo da dove veniva un uomo così, un uomo capace di dire
certe rose. E come avevo fatto io a venire da lui.
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