Copertina
Autore Immanuel Wallerstein
Titolo Dopo il liberalismo
EdizioneJaca Book, Milano, 1998, Di fronte e attraverso 451 , Isbn 978-88-16-40451-9
OriginaleAfter Liberalism [1995]
EdizioneThe New Press, New York, 1995
TraduttoreFederica Censolo
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe politica , economia , storia contemporanea , movimenti
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Indice


Ringraziamenti                           9

Introduzione
DOPO IL LIBERALISMO                     11

Parte prima

DAGLI ANNI NOVANTA IN POI:
POSSIAMO RICOSTRUIRE?                   19

Capitolo primo
La guerra fredda e il Terzo Mondo:
i bei tempi andati                      21

Capitolo secondo
Pace, stabilità e legittimazíone:
1990-2025/2050                          35

Capitolo terzo
Che cosa spera Africa?
Che cosa spera il mondo?                55

Parte seconda

LA COSTRUZIONE E IL TRIONFO
DELL'IDEOLOGIA LIBERALE                 77

Capitolo quarto
Tre ideologie o una?
La pseudobattaglia della modernità      79

Capitolo quinto
Il liberalismo e la legittimazione
degli Stati-nazione:
un'interpretazione storica              97

Capitolo sesto
Il concetto di sviluppo nazionale
(1917-1989): elegia e requiem          113

Parte terza

I DILEMMI STORICI DEI LIBERALI         129

Capitolo settimo
La fine di quale modemità?             131

Capitolo ottavo
Le insormontabili contraddizioni del
liberalismo: i diritti umani e i
diritti dei popoli nella gerarchia
del sistema mondiale moderno           149

Capitolo nono
La geocultura dello sviluppo o la
trasformazione della nostra geocultura?167

Capitolo declino
L'America e il mondo:
oggi, ieri e domani                    181

Parte quarta

LA MORTE DEL SOCIALISMO
O IL CAPITALISMO IN PERICOLO MORTALE?  211

Capitolo undicesimo
La rivoluzione come strategia e
tattica di trasformazione              213

Capitolo dodicesimo
Il marxismo dopo il crollo
dei regimi comunisti                   223

Capitolo tredicesimo
Il crollo del liberalismo              235

Capitolo quattordicesimo
Le agonie del liberalismo:
che cosa spera il progresso?           253

 

 

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Pagina 11

Introduzione
DOPO IL LIBERALISMO?


Il crollo del muro di Berlino e la conseguente dissoluzione dell'Unione Sovietica sono stati celebrati come la caduta dei comunismi e la crisi del marxismo-leninismo come forza ideologica nel mondo moderno. Ciò è senz'altro corretto. Tali eventi sono stati celebrati anche come il trionfo finale dell'ideologia del liberalismo. Ma questa è una distorsione della realtà. Anzi, furono proprio questi stessi eventi a segnare ancor di più il crollo del liberalismo e il nostro definitivo ingresso nel mondo del «dopo liberalismo».

Il presente libro è dedicato allo sviluppo di questa tesi. Si tratta di saggi scritti tra il 1990 ed il 1993, un periodo di grande confusione ideologica, in cui si cominciava a guardare ai nuovi disordini nel mondo con ansie e timori sempre crescenti e non più con l'ottimismo diffuso e ingenuo del passato.

Il 1989 è stato da molti considerato l'anno che ha segnato la fine del periodo 1945-1989, ovvero l'anno cruciale per la sconfitta dell'Unione Sovietica nella guerra fredda. In questo libro si dimostrerà che è più corretto considerare il 1989 l'anno conclusivo del periodo 1789-1989, l'era che ha visto il trionfo e il crollo, la nascita e, infine, il declino del liberalismo come ideologia globale - ciò che io chiamo geocultura - del sistema mondiale moderno. Il 1989 verrebbe dunque a segnare la fine di un'era politico-culturale, un'era dai successi tecnologici straordinari, in cui i motti della Rivoluzione francese erano visti dai più come un riflesso certo della verità storica da realizzarsi subito o in un futuro non lontano.

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Capitolo primo
LA GUERRA FREDDA E IL TERZO MONDO:
I BEI TEMPI ANDATI?


Dobbiamo già sentirci nostalgici? Temo di sì. Siamo usciti dall'era di egemonia degli Stati Uniti nel sistema mondiale (1945-1990) e siamo entrati in un'era postegemonica. Per quanto critica possa essere stata allora la situazione del Terzo Mondo, credo che quelli a venire siano tempi di gran lunga più difficili. Ci siamo lasciati alle spalle un periodo di speranze, senza dubbio di speranze andate spesso deluse, ma pur sempre di speranze. Quello che ci attende sarà un periodo di disordini, di lotte che nascono più dalla disperazione che dalla fiducia. Per usare un vecchio simbolismo occidentale che, date le circostanze, può sembrare fuori luogo, sarà come essere in purgatorio: non si sa dove si andrà a finire.

Articolerò il mio discorso in due parti: dapprima un esame del periodo appena trascorso, quindi una proiezione di ciò che, a mio avviso, ci attende insieme a un commento sulle alternative storiche che abbiamo di fronte.

Credo che le caratteristiche essenziali del periodo 1945-1990 si possano riassumere in quattro punti.

1) Gli Stati Uniti esercitarono un potere egemonico all'interno di un sistema mondiale unipolare. Questo potere, fondato su straordinari livelli di produttività nel 1945 e su un sistema di alleanze con l'Europa e il Giappone, raggiunse il culmine intorno agli anni 1967-1973.

2) Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica furono impegnati in un conflitto formale (ma non sostanziale) assai articolato e accortamente contenuto, in cui il ruolo dell'URSS fu di agente subimperialista degli Stati Uniti.

3) Il Terzo Mondo si impose all'attenzione svogliata degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e dell'Europa occidentale rivendicando i propri diritti con più determinazione e prima di quanto i paesi del Nord del mondo si aspettassero e desiderassero. La sua forza politica e insieme la sua grande fragilità era rappresentata dal credere e sperare nei due obiettivi che si era prefisso: l'autodeterminazione e lo sviluppo nazionale.

4) Gli anni Settanta e Ottanta furono un periodo caratterizzato da una stagnazione economica globale, dall'impegno da parte degli Stati Uniti di far fronte alla crisi che li aveva investiti e dalla sfiducia del Terzo Mondo nelle proprie strategie.

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2) Analogamente, i rapporti tra Stati Uniti e URSS nascondevano, sotto le apparenze, una realtà diversa. Agli occhi del mondo l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti apparivano nemici ideologici, serrati in una guerra fredda che si protraeva non dal 1945 soltanto ma dal 1917. Essi rappresentavano due visioni alternative del concetto di bene sociale, frutto di due interpretazioni discordanti della realtà storica. Strutturalmente si trattava di due paesi diversi e, sotto certi aspetti, profondamente differenti. Inoltre, entrambi ribadivano a gran voce la profondità di questo divario ideologico appellandosi a gruppi e nazioni affinché si schierassero da una parte o dall'altra. Si ricordi a questo proposito la famosa frase di John Foster Dulles: «La neutralità è immorale». Affermazioni analoghe furono fatte anche da leader sovietici.

Ciò nondimeno la realtà politica era alquanto diversa. Si era tracciata una linea in Europa, all'incirca dove le truppe americane e sovietiche si erano incontrate alla fine della seconda guerra mondiale. Ad est di questa linea si trovava la zona di influenza sovietica. Gli accordi presi a quell'epoca tra Stati Uniti e URSS sono noti a tutti e, del resto, piuttosto semplici. All'interno della propria zona di influenza, ovvero nell'Europa dell'Est, l'Unione Sovietica poteva fare ciò che voleva (cioè creare dei regimi satellite). A due condizioni. Prima di tutto l'impegno reciproco a mantenere la pace assoluta tra gli Stati dell'Europa e ad astenersi da qualunque tentativo di sovvertire o modificare i governi dell'altra zona. Secondariamente, l'URSS non doveva né sperare né ottenere aiuti per la ricostruzione da parte degli Stati Uniti. L'Unione Sovietica avrebbe potuto prendere ciò che poteva dai Paesi dell'Europa dell'Est, mentre il governo americano avrebbe concentrato le proprie risorse economiche (vaste ma non illimitate) nel resto dell'Europa.

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Pagina 24

L'Unione Sovietica può essere considerata una potenza subimperialista degli Stati Uniti in quanto servì a garantire ordine e stabilità all'interno della propria zona di influenza creando di fatto le condizioni perché gli Stati Uniti mantenessero l'egemonia sul mondo intero. La ferocia stessa di questa battaglia ideologica che, in sostanza, non fu poi così significativa, ebbe per gli Stati Uniti una grande importanza politica (che non mancò di avere anche per la leadership dell'Unione Sovietica). Vedremo più avanti in che modo l'URSS servì da scudo ideologico per gli Stati Uniti pure nelle vicende del Terzo Mondo.

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Pagina 35

Capitolo secondo
PACE, STABILITÀ E LEGITTIMAZIONE:
1990-2025/2050

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Pagina 37

I meccanismi della trasformazione sono le fasi cicliche, di cui le più significative sono due. I cicli di Kondratieff hanno approssimativamente una durata di cinquanta, sessant'anni. Le fasi A rappresentano, in sostanza, il periodo di tempo in cui si possono proteggere monopoli economici di particolare rilevanza; le fasi B sono, da un lato, i periodi di trasferimento geografico della produzione, i cui monopoli sono stati esauriti e, dall'altro, i periodi di lotta per il controllo di nuovi monopoli emergenti. I cicli egemonici più lunghi comportano una competizione tra due grandi Stati per assicurarsi il diritto di succedere alla precedente potenza egemonica divenendo così il luogo principale di accumulazione di capitale. Questo è un processo lungo, che alla fine richiede una forza militare tale da vincere una «guerra dei trent'anni». Una volta che si è venuta a creare una nuova egemonia, per mantenerla sono necessari finanziamenti massicci che, inevitabilmente, ne segnano il declino e scatenano le lotte per la successione.

Questo sistema di lenta ma continua ristrutturazione e ribilanciamento dell'economia-mondo capitalista è stato molto efficace. L'ascesa e il declino delle grandi potenze è abbastanza simile al processo di ascesa e declino delle imprese: i monopoli resistono per un lungo periodo ma il loro destino è quello di essere minacciati proprio da quei provvedimenti presi per mantenerli in vita. Le conseguenti «bancarotte» sono meccanismi di depurazione, che servono a liberare il sistema da quelle potenze ormai esaurite immettendone altre più dinamiche. In tutto questo processo, le strutture del sistema sono rimaste le stesse. Ogni monopolio di potere resiste per un certo tempo ma, analogamente a quanto accade per i monopoli economici, è minato proprio da quelle misure adottate per sostenerlo.

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Pagina 48

L'ottava differenza, che è anche la più profonda, tra l'ultima fase A del ciclo di Kondratieff e la prossima, è di carattere puramente politico: l'ascesa della democratizzazione e il declino del liberalismo. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che democrazia e liberalismo non sono sinonimi ma, in gran parte, contrari. Il liberalismo fu inventato in risposta alla democrazia. Il problema che diede origine al liberalismo fu quello di contenere l'energia delle classi pericolose, dapprincipio all'interno dei paesi del centro e successivamente all'interno dell'intero sistema mondiale. La soluzione liberale concedeva un certo accesso al potere politico e una certa fruizione della quota del surplus economico, a livelli che non minacciassero l'incessante accumulazione di capitale o il sistema di Stato che lo sosteneva.

Il tema essenziale dello Stato liberale sul piano nazionale e del sistema interstatale liberale sul piano mondiale, è stato il riformismo razionale, da attuarsi principalmente attraverso gli interventi dello Stato. La formula dello Stato liberale, così come era stata sviluppata negli Stati del centro durante il diciannovesimo secolo - suffragio universale e Stato di benessere - funzionò a meraviglia. Nel corso del ventesimo secolo una formula analoga venne applicata al sistema interstatale sotto forma di autodeterminazione delle nazioni e sviluppo economico nei paesi del Terzo Mondo. Si arenò, tuttavia, sull'incapacità di estendere lo Stato di benessere a tutto il mondo (come voleva, ad esempio, la Commissione Brandt). Era, infatti, impensabile poter attuare un simile programma senza compromettere il processo di accumulazione di capitale, al quale nessuno era disposto a rinunciare. Il motivo è alquanto semplice. Il successo di questo programma, applicato nei paesi del centro, dipendeva da una variabile nascosta: lo sfruttamento economico del Sud combinato al razzismo nei confronti del Sud. A livello mondiale questa variabile non esisteva, logicamente non poteva esistere.

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Pagina 55

Capitolo terzo
CHE COSA SPERA L'AFRICA?
CHE COSA SPERA IL MONDO?

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Pagina 66

Mi sono soffermato sull'aumento del prezzo del petrolio voluto daLl'OPEC non perché questa sia una causa primaria della crisi economica. Infatti non lo fu. Si trattò semplicemente di un processo intermedio che produsse degli effetti sulla stagnazione dell'economia-mondo. Ma fu assai evidente e, a studiaRNe nei particolari il meccanismo, lo si comprende meglio. Ci aiuta anche a capire gli anni Ottanta, quando il mondo non pensò più ai prezzi del petrolio man mano che questi scendevano nuovamente, senza arrivare, comunque, ai livelli del 1950. I prestiti-fatti in passato si ritorsero contro i governi negli anni Ottanta. I prestiti pareggiano la bilancia dei pagamenti nell'immediato presente, i guai vengono dopo, quando aumentano i costi per ripagare il debito come percentuale del reddito nazionale. Gli anni Ottanta cominciarono all'insegna della cosiddetta «crisi del debito» e terminarono con il cosiddetto «crollo dei regimi comunisti». I due fatti sono collegati.

Il termine crisi del debito fece la sua comparsa nel 1982 quando il Messico, un paese produttore di petrolio, annunciò la propria insolvibilità al debito e cercò di riavviare dei negoziati per trovare una soluzione. A dire il vero, la crisi del debito affiorò inizialmente nel 1980 in Polonia, un paese che aveva contratto forti debiti negli anni Settanta sotto il governo di Gierek e che, trovatosi ad affrontare i problemi connessi al pagamento del debito, pensò che una soluzione potesse essere quella di ridurre i livelli salariali. Il risultato fu Solidarnosc. Il governo del Partito Comunista polacco si trovò nei guai perché cominciò a mettere in pratica il rimedio studiato dal Fondo Monetario Internazionale, oltretutto senza che questo tipo di intervento gli fosse nemmeno stato richiesto da quest'ultimo. Il FMI iniziò a raccomandare a tutti i paesi che versavano in condizioni del genere (compresi gli Stati dell'Africa) di ridurre le spese (minori importazioni e meno benessere per la popolazione) e di aumentare le esportazioni congelando i salari o riducendoli o convertendo la produzione di beni destinati al consumo interno in qualunque genere si potesse vendere subito sul mercato mondiale). L'arma del FMI per costringere tutti i paesi ad adottare questa politica poco allettante era che, in caso contrario, nessuno avrebbe più ottenuto aiuti economici a breve termine da parte dei governi occidentali, con la prospettiva (data la crisi del debito) di un'ancor più grave insolvenza. Uno Stato africano dopo l'altro cedette alla pressione, ma nessuno fu così bravo come la Romania di Ceausescu, l'unico paese a saldare completamente l'enorme debito negli anni Ottanta, con grande gioia del Fmi e grande rabbia del popolo romeno.

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Pagina 69

Nel caso dell'Unione Sovietica, il problema generale di tutti gli Stati socialisti era costituito dalla contraddizione dell'accordo di Yalta che, come abbiamo spiegato, fu un accordo ben preciso. Ammetteva una battaglia retorica per quanto riguardava il lontano futuro, ma supponeva un accordo per il presente, che venne diligentemente rispettato. Per questo, entrambe le parti dovevano essere forti, tanto forti da controllare tutti i loro regimi satelliti e i loro alleati. La capacità dell'Unione Sovietica di fare la sua parte era ora compromessa sia dalle difficoltà economiche degli anni Ottanta sia, naturalmente, dal deterioramento della coerenza ideologica iniziato nel 1956 con il ventesimo Congresso del partito. I suoi problemi erano resi ancor più gravi dal keynesianismo militare degli Stati Uniti, che aumentò le sue pressioni sull'URSS inducendola a spendere fondi che essa non possedeva. Tuttavia, la questione più grave tra tutte non era la forza militare degli Stati Uniti, ma la crescente debolezza economica e politica dell'America. I rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica erano tenuti insieme come da un elastico teso. Se gli Stati Uniti allentavano la presa, il legame cessava di esistere. Il risultato fu il disperato tentativo di Gorbaciov di salvare la situazione forzando la fine della guerra fredda, distaccandosi dall'Europa dell'Est e rilanciando l'Unione Sovietica all'interno. Non fu possibile - almeno per il terzo punto - e l'Unione Sovietica non esiste più.

Il crollo dell'URSS ha creato difficoltà enormi, forse insormontabili, per gli Stati Uniti. Ha eliminato l'unica forma di controllo politico che l'America aveva sui suoi forti rivali economici: l'Europa e il Giappone. Se da un lato ha impedito che il debito degli Stati Uniti si ingrandisse ulteriormente, mettendo fine al keynesianismo militare, dall'altro ha finito col creare gravi problemi legati allo sviluppo economico, che gli Stati Uniti non hanno ancora del tutto risolto. E, sul piano ideologico, il crollo del marxismo-leninismo ha spazzato via l'ultima fiducia nelle riforme condotte dallo Stato come strumenti per realizzare uno sviluppo economico significativo nelle zone periferiche e semiperiferiche dell'economia-mondo capitalista. Questo è il motivo per cui altrove ho detto che il cosiddetto crollo dei regimi comunisti rappresenta, in realtà, il crollo del liberalismo come ideologia. Ma il liberalismo come ideologia dominante della geocultura (già indebolito nel 1968 e ferito a morte dagli eventi del 1989) è stato un pilastro politico del sistema mondiale, il principale strumento per «domare» le «classi pericolose» (dapprima la classe operaia nel diciannovesimo secolo, quindi le classi popolari del Terzo Mondo nel ventesimo secolo). Se non c'è fiducia nell'efficacia della liberazione nazionale, insieme ad una certa dose di marxismo-leninismo, le classi popolari del Terzo Mondo hanno pochi motivi per essere pazienti e finiranno col non esserlo più.

Infine, le conseguenze economiche della fine del keynesianismo militare sono state una pessima notizia anche per il Giappone e l'Est asiatico. La crescita di questi paesi negli anni Ottanta fu resa in gran parte possibile dalla loro capacità di concedere prestiti al governo americano e dalla capacità di prendere parte al processo, ora in letargo, delle acquisizioni di società di capitale. Così, il miracolo dell'Est asiatico, che è ancora un dato reale in termini relativi agli Stati Uniti, adesso è minacciato se lo valutiamo in termini assoluti.

Queste imponenti trasformazioni degli anni Ottanta furono caratterizzate in Africa (come in America Latina e nell'Europa dell'Est) dalla comparsa di due temi ricorrenti: il mercato e la democratizzazione. Prima di guardare al futuro, è necessario soffermarci un momento ad analizzare questi due concetti. La popolarità del «mercato» come «mantra» è l'equivalente della disillusione nello «Stato» come mantra. Il problema è che il mercato è portatore di due messaggi. Per alcuni, in particolare per i giovani elementi di un'élite di ex-burocrati e/o politici socialisti, rappresenta il grande grido della Francia prima del 1848: «Messieurs, enrichissez-vous!» E, così come questo è stato vero per qualcosa come cinque secoli, è possibile anche oggi che un piccolo gruppo riesca a trasformarsi in «nouveaux riches».

Ma, per la maggior parte della gente, rivolgersi ora al «mercato» non significa affatto che gli obiettivi sono mutati. Negli ultimi dieci anni, le popolazioni dell'Africa si sono rivolte al mercato esattamente per gli stessi motivi per cui prima si erano rivolte allo «Stato». Ciò che sperano di ottenere è l'elusiva pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno, ovvero lo «sviluppo». Ciò che esse veramente intendono per «sviluppo» non è altro che l'uguaglianza, cioè vivere negli stessi agi e comodità in cui vive la gente nei paesi del Nord, in particolare, cioè, vivere forse come la gente nei film americani. Ma questa è una profonda illusione. Né lo «Stato» né il «mercato» promuoveranno mai lo «sviluppo» egualitario in seno a un'economia-mondo capitalista, il cui principio-guida di un'incessante accumulazione di capitale richiede e genera una sempre maggiore polarizzazione del reddito reale. Poiché la gente è ragionevolmente intelligente e ragionevolmente consapevole, in capo a poco tempo svanirà quella sorta di incantesimo che faceva del «mercato» un toccasana, lasciando degli strascichi pesanti.

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Capitolo quarto
TRE IDEOLOGIE O UNA?
LA PSEUDOBATTAGLIA DELLA MODERNITÀ


La storia dei tempi moderni, in termini di storia delle idee o della filosofia politica, è nota a tutti. Possiamo brevemente narrarla cosi: nel corso del diciannovesimo secolo nacquero tre grandi ideologie politiche: il conservatorismo, il liberalismo e il socialismo. Da allora queste tre ideologie (in forma sempre diversa) sono sempre state in conflitto tra di loro.

Virtualmente tutti potrebbero essere d'accordo su due generalizzazioni riguardo questi conflitti ideologici. La prima è che ognuna di queste ideologie rappresenta una risposta al fatto che nuove concezioni collettive erano state forgiate sull'onda della Rivoluzione francese, secondo le quali per affrontare una nuova situazione si rendevano necessarie strategie politiche specifiche. La seconda è che nessuna di queste tre ideologie si è mai cristallizzata in una versione definitiva. Al contrario, ognuna sembrò fare la sua comparsa in tante forme quanti furono gli ideologi che le pensarono.

Senza dubbio c'è molta gente convinta che tra queste ideologie vi siano delle differenze sostanziali. Ma quanto più si analizzano da vicino i principi teorici o le lotte politiche vere e proprie, tanto più difficile sembra capire in cosa effettivamente consistano queste presunte sostanziali differenze. È difficile anche stabilire quante differenti ideologie esistano. Diversi teorici e leader politici sostengono che, in realtà, vi cono soltanto due e non tre ideologie, sebbene la coppia a cui si vuole ridurre il trio sia anch'essa oggetto di controversie. Vi sono cioè conservatori che non vedono nessuna differenza sostanziale tra liberalismo e socialismo, socialisti che affermano la stessa cosa riguardo a liberalismo e conservatorismo e, infine, liberali che sostengono che tra conservatorismo e socialismo non si può fare nessuna distinzione seria.

Tutto ciò è di per sé strano, ma la storia non si ferma qui. Il termine ideologia non è mai stato una parola che alla gente o ai gruppi piacesse usare parlando di sé. Gli ideologi hanno sempre negato di essere degli ideologi, eccetto Destutt de Tracy che pare abbia coniato il termine, che Napoleone non esitò ad usare contro di lui, dicendo che il realismo politico era da preferire all'ideologia (intendendo con ciò una dottrina teorica), un concetto, questo, condiviso da molti politici di allora e di oggi.

Mezzo secolo più tardi, in L'ideologia germanica, Marx usò questo termine per caratterizzare una visione del mondo limitata ed egoistica, che rappresentava la concezione di una classe (la borghesia). L'ideologia - sosteneva Marx - è destinata ad essere sostituita dalla scienza (rispecchiando le concezioni della classe operaia che era la classe universale).

Mannheim, nel periodo tra le due guerre mondiali, andò ancora oltre. Era d'accordo con Marx sulle natura limitata ed egoistica delle ideologie, ma incluse il marxismo nella lista delle ideologie di questo tipo. Voleva che alle ideologie subentrassero le utopie, che egli considerava il prodotto di intellettuali non appartenenti ad alcuna classe.

E dopo la seconda guerra mondiale, Daniel Bell espresse la stanchezza degli intellettuali di Mannheim che non credevano più nell'ideologia e nell'utopia. Quando Bell proclamò la fine dell'ideologia, pensava soprattutto al marxismo, che stava cedendo il passo ad una sorta di liberalismo garbato e non-ideologico, basato su una consapevolezza dei limiti della politica.

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Pagina 84

Riassumendo, si erano sviluppati tre atteggiamenti verso la modernità e la «normalizzazione» del cambiamento: circoscrivere il più possibile il pericolo; realizzare la felicità dell'umanità nella maniera più razionale possibile o dare impulso al progresso lottando in maniera energica contro le forze che vi si ponevano duramente. Fu nel periodo 1815-1848 che i termini conservatorismo, liberalismo e socialismo cominciarono ad essere impiegati per designare ciascuno di questi tre atteggiamenti.

Faccio notare che ciascuno di essi si poneva in opposizione a qualcos'altro. Per i conservatori, questo qualcos'altro era la Rivoluzione francese. Per i liberali era il conservatorismo (e l' Ancien Régime, che essi parevano voler far rivivere). E per i socialisti era il liberalísmo, che rifiutavano. È questo tono fondamentalmente critico e negativo, intrinseco alla definizione di ideologia, che spiega perché vi furono così tante versioni di ciascuna di esse. Per quanto riguarda ciò per cui esse si battevano, ognuna formulò diverse proposte, anche contraddittorie. L'unità vera di ogni gruppo ideologico era da ricercare solo in ciò contro cui esse lottarono. Non si tratta di un particolare irrilevante, perché fu questa negatività ad accomunare le tre ideologie per circa centocinquant'anní, almeno fino al 1968, una data sul cui significato ritorneremo.

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Pagina 94

La conseguenza delle alleanze liberal-socialiste fu la nascita di una sorta di liberalismo socialista. La conseguenza delle alleanze liberal-conservatrici fu una sorta di liberalismo conservatore. In sostanza, alla fine abbiamo due varietà di liberalismo. Le alleanze tra conservatori e socialisti, più improbabili, originariamente non furono altro che strategie transitorie. Ma si sarebbe tentati di chiedersi se i vari «totalitarismi» del ventesimo secolo non rappresentino una forma più duratura di quest'alleanza, nel senso che essi istituirono una forma di tradizionalismo che era sia populista che sociale. Se cosí fosse, questi totalitarismi sarebbero un'altra maniera ancora per il liberalismo di rimanere al centro della scena, come l'antitesi di un dramma manicheo. Dietro questa facciata di aspra opposizione al liberalismo, il punto centrale della politica di questi regimi era la stessa fiducia nel progresso, da realizzarsi attraverso la produttività, che era stata il vangelo dei liberali. Possiamo, quindi, concludere che anche il conservatorismo socialista (o il socialismo conservatore) fu, in un certo senso, una variante del liberalismo, la sua forma diabolica. Nel qual caso, non sarebbe forse corretto concludere che dal 1789 è esistita una sola vera ideologia, il liberalismo, che si è manifestata in tre versioni principali?

Ovviamente quest'affermazione deve essere spiegata in termini storici. Il periodo 1789-1848 è caratterizzato da una grande battaglia ideologica tra un conservatorismo, che alla fine non riuscì nell'intento di raggiungere una forma compiuta, e un liberalismo alla ricerca di un'egemonia culturale. Il 1848-1914 (o 1917) rappresenta un periodo in cui il liberalismo dominò la scena senza essere contrastato da una seria opposizione, mentre il marxismo stava tentando di costituire, senza tuttavia riuscirvi pienamente, un'ideologia socialista come polo indipendente. Si potrebbe osservare (e quest'affermazione sarebbe la più controversa) che il periodo 1917-1968 (o 1989) rappresentò l'apoteosi del liberalismo a livello mondiale. A questo proposito, sebbene il leninismo rivendicasse di essere un'ideologia che si opponeva violentemente al liberalismo, in realtà ne stava diventando una delle sue incarnazioni.

Al di là delle ideologie?


Possiamo ora andare finalmente al di là delle ideologie, ovvero al di là della dominante ideologia liberale? Ci si è posti esplicitamente questa domanda, e ripetutamente, sin dai tempi della rivoluzione mondiale del 1968. Contro cosa era diretta la protesta dei rivoluzionari del Sessantotto se non contro il liberalismo, non solo come ideologia, ma anche come l'ideologia che, tra le tre, fu al servizio dell'economia-mondo capitalista?

Molti di coloro che si confrontarono nel 1968, espressero le loro istanze sotto forma di un discorso maoista o in qualche altra variante del marxismo. Ma questo non impedì loro di fare dei marxisti uno stesso fascio con i liberali, rifiutando sia il marxismo sovietico ufficiale che i grandi partiti comunisti del mondo industrializzato. E quando, dopo il 1968, gli elementi più «conservatori» cercarono di rispondere ai rivoluzionari del Sessantotto, si diedero il nome di «neoliberali».

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Capitolo quinto
IL LIBERALISMO E LA LEGITTIMAZIONE
DEGLI STATI-NAZIONE:
UN'INTERPRETAZIONE STORICA


Il cemento ideologico dell'economia-mondo capitalista dal 1789 al 1989 fu il liberalismo (insieme allo scientismo, ad esso correlato anche se non una sua derivazione). Le date sono assai precise. La Rivoluzione francese segna l'ingresso sulla scena politica mondiale del liberalismo come significativa opzione ideologica. La caduta del comunismo nel 1989 ne segna l'uscita.

La plausibilità di queste affermazioni dipende, ovviamente, da ciò che intendiamo per essenza del liberalismo. In questo senso i dizionari ci sono di poco aiuto come, del resto, la letteratura esistente in materia, in quanto il «liberalismo» è sempre stato un termine controverso. Non è solo che si è prestato a diverse definizioni - il che è tipico di qualunque concetto politico di una certa rilevanza - è anche che queste definizioni erano talmente differenti tra loro che spesso si è finiti con l'attribuire a questo termine significati addirittura opposti. Tanto per citare uno degli esempi più comuni e più ovvi: quando negli Stati Uniti i Presidenti Reagan e Bush nelle loro diatribe politiche inveivano contro il liberalismo, in Europa accadeva spesso che invece si scrivesse di loro in termini di «neoliberali».

A dire il vero, qualcuno sarebbe tentato di dire che questo capovolgimento linguistico deriva dal fatto che dovremmo considerare il liberalismo politico e il liberalismo economico come due posizioni intellettuali distinte o, addirittura, come due correnti di pensiero distinte. Come mai, allora, abbiamo usato lo stesso termine per entrambe? E come dobbiamo considerare la categoria del liberalismo culturale? La controcultura hippy è liberale? E i libertari? Si potrebbe continuare ma sarebbe solo una divagazione.

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Primo, non era possibile fornire su scala mondiale il terzo elemento dei «compromessi storici» nazionali - la solidarietà nazionale - che aveva tenuto a freno le lotte di classe. Questo terzo elemento era stato il suggello finale dei programmi nazionali liberali per il suffragio e la creazione dello stato di benessere nell'Europa occidentale e nel Nordamerica. Un nazionalismo mondiale è, in linea di principio, assolutamente impossibile, in quanto non c'è nessuno contro cui professarlo. Secondo e più importante, il trasferimento di reddito necessario per la creazione dello stato di benessere nei paesi del centro fu possibile perché l'ammontare complessivo trasferito non era così cospicuo da minacciare l'accumulazione di capitale su scala mondiale. Questo non sarebbe stato vero se si fosse dovuto moltiplicare i trasferimenti in tutto il mondo, soprattutto data la natura intrinsecamente polarizzante dell'accumulazione di capitale.

Doveva passare del tempo prima che i popoli del mondo si rendessero pienamente conto che, in pratica, era impossibile eliminare il divario tra Nord e Sud su scala mondiale. A dire il vero, il periodo dopo il 1945 creò inizialmente un'aura di entusiasmo che fu molto corroborante. La decolonizzazione portata avanti nel mondo, insieme all'incredibile espansione dell'economia-mondo e ai vantaggi spiccioli che ne derivarono, fecero si che si considerasse con ottimismo la trasformazione riformista (resa ancor più dolce dal fatto che le strategie riformiste erano mascherate dalla retorica rivoluzionaria). È importante notare che, in questo periodo, il cosiddetto blocco socialista servì da foglia di fico al capitalismo mondiale, contenendo il malcontento aggressivo e proclamando la promessa, per dirla con le indimenticabili parole di Kruscev, che «noi vi seppelliremo».

Negli anni Sessanta il trionfalismo ancora impediva un giudizio sobrio della realtà capitalista. La rivoluzione mondiale del 1968, nonostante tutta la sua euforia, introdusse la prima nota di realismo. Questa rivoluzione, come dimostreremo, si protrasse per vent'anni culminando nel crollo del comunismo nel 1989. Sul piano della storia mondiale, il 1968 e il 1989 costituirono un unico grande evento, che significò la disintegrazione dell'ideologia liberale e la fine di un'era durata due secoli.

Quale fu la nota di realismo introdotta dal 1968? Fu esattamente l'argomento che stiamo trattando, cioè che la storia del sistema mondiale era stata per più di un secolo la storia del trionfo dell'ideologia liberale e che i movimenti antisistemici della vecchia sinistra si erano trasformati in quelli che ho chiamato dei «liberal-socialisti». I rivoluzionari del Sessantotto presentarono la prima seria sfida intellettuale al modello trimodale dell'ideologia - conservatrice, liberale e socialista - asserendo che si era predicato solo il liberalismo e che il liberalismo era il «problema».

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I politici e i commentatori dei paesi del centro sono talmente presi dalla loro retorica da credere che qualcosa chiamato comunismo sia crollato e sembrano ciechi di fronte al fatto che, in realtà, si tratta del crollo della promessa liberale. Le conseguenze non tarderanno a farsi sentire, dato che il liberalismo come ideologia dipendeva, infatti, da una visione «illuminata» (opposta a ristretta) degli interessi delle classi elevate. Ciò, a sua volta, dipendeva dalla pressione delle forze popolari che era sia energica che contenuta nella forma. Questa pressione contenuta dipendeva a sua volta dalla credibilità del processo per i ceti più bassi. È tutto collegato. Se si perde la credibilità, la pressione perde la sua forma contenuta e questo fa si che venga meno la disponibilità da parte delle classi elevate di accordare concessioni.

Un certo insieme di ideologie era venuto a formarsi a seguito della nuova mentalità prodotta dalla Rivoluzione francese. La rivoluzione mondiale del 1848 innescò un processo storico che portò al trionfo del liberalismo come ideologia e all'integrazíone delle classi operaie. La prima guerra mondiale rinnovò la questione: il processo si ripeté ma non poté essere completato. La rivoluzione mondiale del 1968 dipanò il consenso ideologico e il ventennio che seguì vide il crollo della credibilità del liberalismo, di cui la caduta del comunismo nel 1989 rappresenta il culmine.

Siamo entrati in una nuova era in termini di mentalità. Da un lato vi è un appello appassionato alla democrazia. Questo appello, tuttavia, non è la realizzazione del liberalismo bensì il suo rifiuto. È fuori discussione che l'attuale sistema mondiale non sia democratico perché il benessere economico non è equamente distribuito e perché il potere politico, di fatto, non è equamente ripartito. È la disintegrazione sociale e non il cambiamento progressivo ad essere considerato, oggi, un fatto normale. Inoltre, dove c'è disintegrazione sociale, la gente cerca protezione.

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Capitolo sesto
IL CONCETTO DI SVILUPPO NAZIONALE
(1917-1989): ELEGIA E REQUIEM

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La storia del periodo 1917-1989 merita sia un'elegia che un requiem. L'elegia è per il trionfo dell'ideale wilsoniano-leninista dell'autodeterminazione delle nazioni. In questi settant'anni il mondo è stato in gran parte decolonizzato e i paesi al di fuori dell'Europa sono stati integrati nelle istituzioni politiche formali del sistema interstatale.

Questa decolonizzazione fu in parte octroyée (accordata) e in parte arrachée (presa). Questo processo ha richiesto un'incredibile mobilitazione politica che ha risvegliato le coscienze dei paesi di tutto il mondo. Sarà molto difficile far ritornare il genio nella lampada. Infatti, il problema principale è come contenere la diffusione endemica del micronazionalismo ovvero il fenomeno di piccole entità che rivendicano la loro identità di popolo e, quindi, il diritto all'autodeterminazione.

Fin dagli inizi, tuttavia, fu chiaro che tutti miravano all'autodeterminazione soprattutto per aprirsi la strada verso la prosperità e fin da subito ci si rese conto che questo era un cammino difficile. Come abbiamo detto, tale processo prese la forma della ricerca dello sviluppo nazionale. Questa ricerca si trovò per ìungo tempo relativamente più a proprio agio con la dottrina leninista che con quella wilsoniana, come del resto la battaglia per la decolonizzazione era relativamente più vicina all'ideologia wilsoniana.

Il processo avvenne in due fasi - dapprima la decolonizzazione (o un equivalente cambiamento politico) quindi lo sviluppo economico - e ciò significa che la metà wilsoniana del programma aspettava sempre la sua realizzazione leninista. La prospettiva dello sviluppo nazionale servi come legittimazione delle strutture del sistema mondiale. In questo senso, il destino dell'ideologia wilsoniana dipendeva da quello dell'ideologia leninista. Per dirla in maniera più cruda e meno garbata, la dottrina leninista fu la foglia di fico della dottrina wilsoniana.

Oggi la foglia di fico è caduta e l'imperatore è nudo. Tutto il gridare al trionfo della democrazia che si è fatto qua e là nel mondo nel 1989, non nasconderà ancora a lungo l'assenza di possibilità concrete per una trasformazione economica dei paesi periferici all'interno della struttura dell'economia-mondo capitalista. Cosi, non saranno i leninisti a cantare il requiem per il leninismo ma i wilsoniani. Sono questi ultimi a trovarsi in una situazione imbarazzante e a non avere alternative politiche credibili. Questo ha trovato confertna nei dilemmi senza soluzione del Presidente Bush durante la crisi del Golfo Persico. Ma la guerra del Golfo è stata solo l'inizio della storia.

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Capitolo settimo
LA FINE DI QUALE MODERNITÀ?

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E fu esattamente nel momento storico in cui agli occhi delle classi dominanti le due modernità non erano mai apparse così divergenti e persino in conflitto l'una con l'altra, che l'ideologia ufficiale (la geocultura dominante) le proclamò identiche. Le classi dominanti intrapresero una massiccia campagna educativa (attraverso la scuola e l'esercito) per persuadere le classi pericolose all'interno del paese di questa identità. L'intento era quello di convincere le classi pericolose a ridimensionare le loro istanze di modernità della liberazione perché investissero, invece, le loro energie nella modernità della tecnologia.

Sul piano ideologico, questo era ciò su cui verterono le lotte di classe del diciannovesimo secolo. E nella misura in cui i movimenti socialisti ed operai cominciarono ad accettare il ruolo centrale e addirittura prioritario della modernità della tecnologia, uscirono perdenti dalla lotta di classe. Diedero la loro fedeltà agli Stati in cambio di concessioni assai modeste (sebbene reali) nella conquista della modernità della liberazione. E quando scoppiò la primaguerra mondiale, il senso della superiorità della lotta per la modernità della liberazione era andato, infatti, smorzandosi, man mano che i lavoratori di ciascun paese europeo andavano raccogliendosi attorno alla sacra bandiera e all'onore nazionale.

La prima guerra mondiale segnò il trionfo dell'ideologia liberale nei paesi dell'Europa e del Nordamerica, le zone del centro del sistema mondiale, ma segnò anche il punto di rottura tra centro e periferia nel sistema mondiale. Le potenze europee avevano appena portato a termine le ultime conquiste degli ultimi trent'anni del diciannovesimo secolo, che iniziò la ritirata dell'Occidente.

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Nel 1968 questa conveniente confusione concettuale riguardo le due modernità venne messa in discussione, in maniera clamorosa ed energica, da una rivoluzione mondiale che si concretizzò principalmente, ma non certo esclusivamente, nel fenomeno delle rivolte studentesche. Negli Stati Uniti e in Francia, in Cecoslovacchia e in Cina, in Messico e in Tunisia, in Gennania e in Giappone, si ebbero insurrezioni (dove, a volte, non mancarono i morti) che, per quanto presentassero differenze dovute alle diverse realtà locali, erano, tuttavia, accomunate dagli stessi temi fondamentali: la modernità della liberazione è tutto e non è stata conquistata, la modernità della tecnologia è un tranello ingannevole. I liberali di qualunque specie - i liberali liberali, i liberali conservatori e, soprattutto, i liberali socialisti (ovvero la vecchia sinistra) - non erano degni di fiducia e, anzi, costituivano l'ostacolo principale alla liberazione.

Io stesso mi trovai coinvolto nelle mobilitazioni studentesche in Ameríca, alla Columbia University, e di quella «rivoluzione» due cose mi sono rimaste impresse nella memoria. La prima è l'esaltazione genuina degli studenti che stavano scoprendo, attraverso il fenomeno di liberazione collettiva, ciò che sentivano come un processo di liberazione personale. La seconda era la profonda paura che quest'eruzione liberatoria evocava tra il professorato e l'amministrazione e, in particolare, tra coloro che si consideravano gli apostoli del liberalismo e della modernità, che videro in queste rivolte un rifiuto irrazionale degli ovvi benefici della modernità della tecnologia.

La rivoluzione mondiale del Sessantotto divampò per poi smorzarsi o, piuttosto, per essere poi repressa. A distanza di due anni si era già conclusa ovunque, tuttavia ebbe un impatto enorme sulla geocultura, poiché indebolì il ruolo dell'ideologia liberale come dottrina dominante nella geocultura del sistema mondiale e riaprì quelle questioni che il trionfo del liberalismo nel diciannovesimo secolo aveva chiuso o relegato ai margini del dibattito pubblico. Ancora una volta la destra e la sinistra del mondo si allontanavano dal centro liberale. Sotto molti aspetti il cosiddetto nuovo conservatorismo era identico al vecchio conservatorismo della prima metà del diciannovesimo secolo che pareva essere resuscitato e, analogamente, la nuova sinistra era, sotto molti aspetti, la rinascita del radicalismo degli inizi del diciannovesimo secolo che, mi preme ricordare, a quell'epoca era ancora simbolizzato dal concetto di «democrazia», un termine di cui, più tardi, si sarebbero appropriati gli ideologi centristi.

Il liberalismo non scomparve con il Sessantotto ma perse il ruolo che aveva avuto come ideologia propria della geocultura. Gli anni Settanta videro la gamma ideologica ridursi nuovamente ad una triade vera e propria, dissolvendo l'ambiguità che era regnata dal 1850 circa fino agli anni Sessanta, quando le tre ideologie rappresentavano, di fatto, tre varianti del liberalismo. Il dibattito sembrò tornare indietro preticamente di centocinquant'anni, con l'unica differenza che il mondo si era evoluto in due sensi: da un lato la modernità della tecnologia aveva operato una trasformazione delle strutture sociali mondiali che minacciava di destabilizzare i pilastri sociali ed economici dell'economia-mondo capitalista e, dall'altro, la storia ideologica del sistema mondiale era ora un ricordo che incideva sulla capacità attuale delle classi dominanti di mantenere la stabilità politica all'interno del sistema mondiale.

Esaminiaino per primo il secondo cambiamento. Qualcuno di voi può essere sorpreso che si ponga una così grande enfasi sul fatto che il 1968 rappresentò una svolta. Si potrebbe pensare: non è invece il 1989, anno simbolo del crollo dei regimi comunisti, una data più significativa nella storia del sistema mondiale moderno? Il 1989 non ha forse rappresentato la fine della sfida socialista al capitalismo e, quindi, la realizzazione finale dell'ideologia liberale ovvero la sottomissione delle classi pericolose e l'accettazione universale delle virtù della modernità della tecnologia? Direi di no, assolutamente no!

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Ecco quindi che oggi, e per i prossimi quaranta o cinquant'anni, il sistema mondiale si trova in una grave crisi morale e istituzionaie. Per tornare al nostro discorso iniziale sulle due modernità, ciò che si sta alla fin fine verificando è una chiara e manifesta tensione tra la modernità della tecnologia e la modernità della liberazione. Tra il 1500 e il 1800, le due modernità sembravano procedere di pari passo, tra il 1789 e il 1968 il conflitto latente fu tenuto sotto controllo dal tentativo, peraltro riuscito, dell'ideologia liberale di far credere che le due modernità fossero identiche. Ma dopo il 1968 la maschera è caduta: tra le due modernità vi è ora lotta aperta.

Ci sono due segnali culturali principali che ci permettono di ravvisare il conflitto tra le due modernità. Il primo è la «nuova scienza», la scienza della complessità. Negli ultimi dieci anni moltissimi fisici e matematici si sono ad un tratto allontanati dall'ideologia newtoniana-baconiana-cartesiana, che aveva rivendicato per almeno cinque secoli di essere la sola espressione di scienza possibile. Con il trionfo dell'ideologia liberale nel diciannovesimo secolo, la scienza newtoniana venne gelosamente custodita come verità universale.

I nuovi scienziati non mettono in discussione la validità della scienza newtoniana bensì la sua universalità. In sostanza, essi sostengono che le leggi della scienza valgono per una realtà particolare e ristretta e che per comprendere la realtà scientificamente è necessario allargare grandemente il nostro campo di riferimento e i nostri strumenti di analisi. Da qui i nuovi termini, oggi cosi di moda, come caos, biforcazione, logica incoerente, frattali e, soprattutto, la direzione del tempo. Il mondo naturale e tutti i suoi fenomeni si sono storicizzati. La nuova scienza è dichiaratamente non lineare. Ma la modernità della tecnologia si reggeva sul pilastro della linearità. Di conseguenza, la nuova scienza incentra il dibattito sulla questione della modernità della tecnologia o, quantomeno, sulla forma con cui classicamente è stata spiegata.

L'altro indicatore culturale del conflitto tra le due modernità è il movimento del postmodemismo, che si è manifestato principalmente nelle scienze umanistiche e sociali. Il termine postmodernismo, spero che ormai sia chiaro, non significa affatto postmodemo, bensì è una maniera di rifiutare la modernità della tecnologia a favore della modernità della liberazione.

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Capitolo nono
LA GEOCULTURA DELLO SVILUPPO
O LA TRASFORMAZIONE
DELLA NOSTRA GEOCULTURA?

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Esaminiamo, allora, le critiche culturali antisistemiche mosse al nostro attuale sistema e alla sua geocultura nel corso di cinque secoli. Negli ultimi venticinque anni la critica si è concentrata, con estremo vigore, su quattro questioni centrali: il materialismo, l'individualismo, l'etnocentrismo e la distruttività dell'impulso di Prometeo. Ciascuna di queste critiche è stata molto forte ma nessuna è risultata effettivamente persuasiva.

1) La critica al materialismo è stata assai ovvia. La ricerca della ricchezza, del benessere e dei vantaggi materiali ci ha generalmente portati, anzi, obbligati a trascurare altri valori, quelli che a volte chiamiamo valori spirituali. Questa è stata la conseguenza dell'inesorabile tendenza verso la secolarizzazione degli Stati e di tutte le maggiori istituzioni sociali. Tale secolarizzazione è stata una delle basi essenziali su cui si fondava il sistema degli Stati, che ha fornito la struttura entro la quale poteva avvenire l'incessante accumulazione di capitale. E infatti, l'incessante accumulazione di capitale, tratto distintivo del nostro sistema storico, rappresenta la quintessenza del materialismo.

Storicamente questa critica ha dato origine a due ordini di problemi. Da un lato, era stata tendenzialmente mossa nell'interesse di vecchie classi privilegiate che stavano per essere spodestate da nuove classi privilegiate. Di conseguenza, spesso si trattava di tutto meno che di una critica sincera, nel senso che non era realmente antimaterialista ma, sostanzialmente, una questione di decidere di chi sacrificare l'agnello. Oppure veniva utilizzata non come una critica dei potenti bensì dei deboli, le cui proteste andavano assumendo connotati vagamente anarchici. Fini così per diventare un modo per accusare le vittime.

Dall'altro, una critica antimaterialista ha senso solo se si afferma che il materialismo è esagerato. Soddisfare quelli che sono stati definiti i «bisogni primari» (e anche qualcosa di più) non è un atteggiamento materialista ma una questione di sopravvivenza e dignità umana. L'antimaterialismo non è mai riuscito a persuadere i poveracci e, in un sistema gerarchico basato su differenze offensive riguardo l'accesso al capitale, non è stato una dottrina molto convincente nemmeno per i quadri medi, che hanno un'idea approssimata di ciò che accade al vertice.

2) La critica dell'individualismo deriva dalla critica del materialismo. Un sistema che tiene in alta considerazione i valori materiali sostiene la corsa al successo che diviene una lotta di tutti contro tutti. Alla fine, ciò conduce ad una visione dal mondo assolutamente egocentrica, al massimo temperata da una qualche fedeltà verso la famiglia nucleare (il risultato di questa situazione di mortalità umana). I critici hanno magnificato, al posto dell'individualismo, la «società», il «gruppo», la «comunità» e, spesso, la «famiglia» e, alcuni di loro, hanno parlato del primato di tutta l'umanità.

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3) La terza è la critica dell'etnocentrismo e, in particolare, della sua manifestazíone più comune e più virulenta all'interno del capitalismo storico, ossia l'eurocentrísmo, la cui altra faccia fu il razzismo. I critici hanno sottolineato che la versione estrema dell'eurocentrismo è il razzismo, che porta alla discriminazione sociale e alla segregazione di gruppi giudicati «inferiori». Ma i critici sono andati oltre. L'eurocentrismo - sostengono - ha anche una faccia sofisticata, una faccia più «liberale»: è la faccia dell'universalismo.

Gli europei hanno imposto i loro specifici valori al resto del mondo spacciandoli per valori universali, e hanno fatto questo in maniera che fossero garantiti i loro interessi materiali e il loro dominio. Infatti, l'ultima, più sofisticata forma di universalismo etnocentrico è stato il concetto di meritocrazia, che ha decretato che la «corsa al successo» fosse condotta in maniera equa ma che ha ignorato il fatto che i concorrenti cominciano la gara da diversi punti di partenza che sono determinati socialmente e non geneticamente.

Questa critica è stata molto efficace ma viziata dalle conseguenze di una tattica molto elementare del divide et impera attuata dai potenti. Poiché gli attacchi contro l'etnocentrismo hanno sollevato del fumo, la linea che separa chi è considerato superiore da chi è inferiore è sempre stata fluttuante, arrivando ad includere entro la classe al vertice alcuni dei più accaniti contestatori che hanno, dunque, modificato la rotta. Poiché vi è una costante polarizzazione demografica all'interno del sistema mondiale, non è stato difficile spostare la linea di demarcazione, se non altro per mantenere più o meno stabile la percentuale delle persone al vertice. Ma sul piano politico questo ha significato che ogni generazione di contestatori doveva virtualmente ricominciare daccapo.

4) Infine, la critica più recente ma, sotto molti aspetti, più signfflcatíva, è quella dell'impulso di Prometeo. La corsa all'accumulazione di capitale non ha portato solo al progresso tecnologico (che presupponiamo neutro nella peggiore delle ipotesi e virtuoso nella migliore) ma anche ad un'enorme distruttività. Alle preoccupazioni per la corrosività sociopsicologica del capitalismo storico, presentata in termini di «alienazione» e «anomia», si sono aggiunte quelle per la corrosività geofisica del capitalismo storico in termini di ecologia.

Oggi si ammette che l'autodistruttivítà del capitalismo storico è stata enorme e sta aumentando ad un ritmo rapido. Ma anche questa critica ha avuto i suoi limiti, in termini di recuperabilità delle proteste. L'alienazione e l'anomia sono state trasformate nella merce della terapia e l'ecologia in quella del disinquinamento e del riciclaggio. Anziché eliminare dal profondo le cause della distruzione, cerchiamo di rattoppare il tessuto strappato.

La sfida odierna, in quest'epoca di transizione verso un nuovo sistema storico, è di prendere le quattro critiche del capitalismo storico - critiche profonde che, tuttavia, non sono state formulate in maniera sufficientemente persuasiva - e trasformarle in un modello positivo di ordine sociale alternativo, che non cada nelle stesse trappole in cui sono caduti i critici (parziali) del passato. Dobbiamo essere radicali, cioè dobbiamo andare alle radici della questione e dobbiamo offrire un programma reale di ricostruzione totale. Un progetto di questo tipo richiede almeno una cinquantina d'anni. È un progetto mondiale, che non può essere realizzato localmente e parzialmente, per quanto gli interventi locali debbano avere una parte importante in questo processo di ricostruzione. E, inoltre, richiede il pieno utilizzo dell'immaginazione umana. Ma è possibile.

È possibile, ma niente affatto certo. Il trionfalismo rischia di annientare i nostri sforzi. Ciò che dobbiamo cercare è la giusta combinazione tra lucidità e fantasia, e potremmo trovarla nei posti più impensati, in qualunque angolo del mondo.

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Capitolo undicesimo
LA RIVOLUZIONE COME STRATEGIA
E TATTICA DI TRASFORMAZIONE


La Rivoluzione francese è stata un fallimento? E la Rivoluzione russa? Queste sono due domande che un tempo sarebbero sembrate assurde. Oggi non lo sono più. Ma quale risposta si può dare?

[...]

Nella dottrina marxista, tuttavia, il concetto di rivoluzione è strettamente legato ad una teoria lineare di progresso. Victor Kiernan, a mio avviso, coglie assai bene questo aspetto quando afferma che rivoluzione significa un «balzo cataclismico» da un tipo di produzione ad un altro. Tuttavia, come accade spesso, non è sufficiente definire un concetto, è necessario confrontarlo con delle alternative e, come sappiamo, per tornare alla tradizione marxista (ma non solo), l'altemativa a «rivoluzione» è «riforma».

Nei dibattiti sviluppatisi intorno alla fine del diciannovesimo e nel ventesimo secolo, la contrapposizione tra rivoluzione e riforma si pose in termini di cambiamento aggregativo lento contro cambiamento rapido, di cambiamenti su piccola scala contro cambiamenti su vasta scala, di cambiamento reversibile contro cambiamento irreversibile, di miglioramento (che rappresenta un cambiamento prosistemico) contro trasformazione (che costituisce un cambiamento antisistemico) e di cambiamento inefficace contro cambiamento efficace. Naturalmente, in ognuna di queste antinomie ho barato un po', dando a ciascuna la caratterizzazione utilizzata nel discorso rivoluzionario.

[...]

In ogni caso, come ora ci appare chiaro, i risultati sono stati estremamente diversi. La rivoluzione messicana oggi non sembra aver prodotto effetti estremamente rivoluzionari. E quella cinese? I rivoluzionari russi sono ora un ricordo storico e, in Russia almeno per ora, un ricordo neanche tanto onorato. La prima domanda che pare ragionevole porci è, pertanto, se il cosiddetto percorso rivoluzionario sia, in pratica, stato più o meno efficace del percorso delle riforme. Naturalmente possiamo sempre passare in rassegna, con la stessa impostazione critica, le conquiste ottenute attraverso le riforme socialdemocratiche. In che misura il Partito Laburista è stato effettivamente in grado di trasformare la Gran Bretagna? E il Partito Socialdemocratico svedese? Negli anni Novanta, quando non vi è praticamente nessuno che dalla Cina alla Svezia al Messico non parli la lingua del «mercato», ci si potrebbe chiedere, peraltro legittimamente, se centocinquanta o duecento anni di tradizione rivoluzionaria siano serviti a qualcosa.

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Bicchiere mezzo vuoto o bicchiere mezzo pieno? Forse stiamo ponendo la domanda sbagliata. La questione è se nel diciannovesimo e ventesimo secolo sono esistite strategie storiche alternative che, in retrospettiva, possono apparire plausibili e che avrebbero potuto essere più efficaci. Ne dubito. Per molti versi, riscrivere la storia sulla base di una simulazione può essere un esercizio sciocco. Mi sembra, però, che i movimenti alternativi che, in realtà, si presentarono in ognuno di questi casi, non abbiano combinato niente perché erano ovviamente meno efficaci dal punto di vista dei non-beneficiari del sistema e che l'insieme delle riforme realizzate dai movimenti dominanti abbia avuto un certo valore, anche se nessuno di questi tre paesi è riuscito a realizzare l'utopia postcapitalista. Anzi, semmai il contrario.

Detto ciò, il risultato finale è assai deludente, in considerazione dell'incredibile energia sociale che fu investita nell'attività rivoluzionaria nel ventesimo (e diciannovesimo) secolo. Condivido la sensazione dei rivoluzionari del Sessantotto che la vecchia sinistra, in tutte le sue varianti, era in quel momento divenuta «parte del problema». Da allora, tuttavia, la sinistra del mondo è andata avanti. La rivoluzione mondiale del 1968 ha avuto ovunque un impatto enorme su tutte quelle forze che si ritengono antisistemiche. Il nostro metodo di analisi rivela sei conseguenze principali che desidero qui riassumere per punti:

1) La strategia a due tempi - prima la presa di potere e poi la trasformazione della società - non è più una verità assiomatica (per la maggior parte della gente) ma una proposizione da verificare.

2) L'ipotesi organizzativa secondo cui l'attività politica dello Stato sarebbe più efficace se incanalata attraverso un singolo partito coesivo non è più ampiamente accettata.

3) Il concetto secondo cui l'unico conflitto che conti all'interno del capitalismo è quello tra capitale e lavoro mentre gli altri conflitti, quelli basati sulla discriminazione razziale, etnica, sessuale e dei sessi sono conflitti secondari, derivati o atavici, non è più totalmente credibile.

4) L'idea che la democrazia è un concetto borghese che blocca l'attività rivoluzionaría, ha ceduto il passo all'idea che la democrazia può essere un concetto profondamente anticapitalista e rivoluzionario.

5) L'idea che un aumento della produttività è il requisito indispensabile della costruzione socialista è stata sostituita dalla preoccupazione per gli effetti del produttivismo in termini di ecologia, qualità della vita e la conseguente mercificazione di ogni cosa.

6) La fiducia nella scienza come prima pietra per la costruzione di utopie ha ceduto il passo allo scetticismo verso la scienza classica e lo scientismo popolare, privilegiando una forma di pensiero in termini di una più complessa relazione tra determinismo e libero volere, tra ordine e caos. Il progresso non è più un fatto ovvio.

Nessuna di queste sei revisioni alle nostre premesse è del tutto nuova. Tuttavia, la rivoluzione del Sessantotto, mettendo in discussione la legittimazione della vecchia sinistra, ha trasformato i dubbi, che una piccola schiera di persone nutriva, in un revisioniamo assai più diffuso, in una vera e propria «rivoluzione culturale».

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Credo sia giunto il momento in cui sarebbe necessario definire, con una certa chiarezza, una strategia alternativa a quella, ormai defunta, della «rivoluzione» e credo che questa ridefinizione sia un compito collettivo che spetta al mondo intero. Posso qui suggerire alcune linee d'azione, che potrebbero essere elementi di questa strategia ma che non rappresentano una strategia completa.

1) La prima è un ritorno ad una tattica tradizionale. Ovunque, in ogni posto di lavoro, dovremmo premere per avere di più, cioè far si che una quota maggiore di plusvalore venga trattenuta dalla classe operaia. Un tempo questo concetto appariva ovvio ma, in seguito è stato trascurato per una serie di ragioni: la paura dei partiti nei confronti del sindacalismo e dell'economismo; le tattiche protezioniste dei lavoratori nelle aree ad alto reddito; le strutture dello Stato dominate dai movimenti che agiscono secondo la logica dei datori di lavoro. Allo stesso tempo, dobbiamo fare pressione per ottenere una piena internalizzazione dei costi da parte di tutte le imprese.

[...]

2) La seconda è una maggiore democrazia ovunque, in ogni struttura politica ad ogni livello, il che significa una maggiore partecipazione popolare e un processo decisionale più aperto.

[...]

3) La terza è che la sinistra del mondo deve risolvere la propria questione riguardante il dibattito tra universalismo e particolarismo.

[...]

4) La quarta è che dobbiamo pensare al potere dello Stato come ad una tattica, da utilizzare ogni volta che possiamo e per qualunque scopo immediato, senza investire in esso e senza rafforzarlo. Soprattutto, dobbiamo evitare di manovrare il sistema, a qualunque livello. Dobbiamo smettere di essere terrorizzati dall'idea del crollo politico del sistema.

[...]

In sostanza, dobbiamo diventare, nella nostra sfera d'azione, persone pratiche, coerenti e costanti, discutere le nostre utopie e andare avanti. Poiché l'attuale sistema mondiale finirà col crollarci addosso fra una cinquantina d'anni, dobbiamo avere un'altemativa sostanziale da offrire, un'alternativa che sia una creazione collettiva. Solo allora avremo la possibilità di realizzare nella società civile mondiale un'egemonia in senso gramsciano e, di conseguenza, la possibilità di vincere la lotta contro coloro che cercano di cambiare tutto perché tutto resti uguale.

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Capitolo dodicesimo
IL MARXISMO DOPO IL CROLLO
DEI REGIMI COMUNISTI


Il marxismo... è inevitabilmente destinato
a scomparire, prima o poi, anche in quanto
teoria... in retrospettiva (e solo in
retrospettiva) sarà possibile dire, dalla
maniera in cui scomparirà, di che sostanza
era fatto.
                      (Balibar, 1991, 154)
Marx è stato dichiarato morto regolarmente e altrettante volte è stato resuscitato. Come ogni ideologo della sua statura, merita di essere riletto soprattutto alla luce delle realtà attuali. Oggi non è solo Marx che sta morendo ancora una volta ma, insieme a lui, anche tutta una serie di Stati che si sono etichettati come marxisti-leninisti e che, nel loro insieme, stanno crollando. Alcuni ne gioiscono, altri no, ma pochi cercano di fare un bilancio accurato e intelligente dell'esperienza.

Vorrei ricordare subito che il marxismo non è la summa delle idee e degli scritti di Marx ma un insieme di teorie, analisi e strategie per l'azione politica, senza dubbio ispirate al pensiero di Marx e divenute una sorta di dogma. Questa versione del marxismo, che è poi quella dominante, fu il prodotto di due partiti storici che lo costruirono, in parallelo e successivamente in maniera congiunta pur senza giungere mai a collaborare. Questi due partiti furono il Partito Socialdemocratico tedesco (specialmente prima del 1914) e il Partito Bolscevico, che sarebbe poi diventato il Partito Comunista dell'Unione Sovietica.

[...]

Ciò che è morto è il marxismo come teoria della modernità, una teoria che era stata elaborata accanto alla teoria della modernità del liberalismo, alla quale, per la verità, si ispirò ampiamente. Ciò che ancora non è morto è il marxismo come critica della modernità e della sua manifestazione storica, l'economia-mondo capitalista. Ciò che è morto è il marxismo-leninismo come strategia riformista. Ciò che ancora non è morto è l'impulso antisistemico, in termini popolari e «marxiani», a cui si ispirano le reali forze sociali.

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Capitolo tredicesimo
IL CROLLO DEL LIBERALISMO


Gli anni 1989-1991 segnano una svolta decisiva nella storia contemporanea. Su questo siamo quasi tutti d'accordo. Ma una svolta rispetto a cosa e verso che cosa? Il 1989 è l'anno della cosiddetta fine dei cosiddetti regimi comunisti. Gli anni 1990-1991 sono i confini temporali della cosiddetta guerra del Golfo Persico.

I due eventi, pur essendo strettamente connessi, presentano tuttavia caratteri profondamente distinti. La fine dei regimi comunisti segna la fine, la guerra del Golfo l'inizio di un'era. L'una conclude, l'altra dischiude un'epoca. L'una invita alla ri-valutazione, l'altra alla valutazione. L'una è la storia di speranze andate deluse, l'altra di timori ancora latenti.

Tuttavia, come ci ricorda Braudel, «gli eventi sono polvere», persino i grandí eventi, e non hanno alcun significato se non li collochiamo nei ritmi delle congiunture e negli andamenti di lunga durata. Ma questo è più facile a dirsi che a farsi, perché dobbiamo decidere quali sono le conjonctures e le strutture più rilevanti.

Cominciamo dalla fine dei regimi comunisti. Ho detto che ciò rappresenta la fine di un'era, ma di quale era? Dobbiamo analizzarla come la fine del periodo postbellico 1945-1989, o come la fine del periodo comunista 1917-1989, o come la fine dell'epoca rivoluzionaria francese 1789-1989 o come la fine dell'ascesa del sistema mondiale moderno, cioè il periodo 1450-1989? Ciascuna di queste ipotesi può fornire una chiave di lettura.

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