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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 INTRODUZIONE 9 PRIMA PARTE - VERSO L'ANALISI DEL SISTEMA-MONDO 19 1. Etnicità e integrazione nazionale nell'Africa occidentale 20 2. Fanon e la classe rivoluzionaria 32 3. Intellettuali radicali in una società liberale 52 4. L'Africa in un mondo capitalista 59 SECONDA PARTE - L'ANALISI DEL SISTEMA-MONDO E LA SCIENZA SOCIALE 91 5. L'ascesa e la futura scomparsa del sistema capitalista mondiale: concetti per una analisi comparata 92 6. Modernizzazione: requiescat in pace 132 7. Sviluppo delle società o sviluppo del sistema-mondo? 138 8. L'Analisi del Sistema-Mondo 156 9. La tenuta del timone: metodo e unità d'analisi 178 10. Tempo e durata: la possibile via media, riflessioni su Braudel e Prigogine 189 11. I confini della ricerca sociale 199 12. La scienza sociale e la ricerca di una società giusta215 TERZA PARTE - ISTITUZIONI DELL'ECONOMIA-MONDO CAPITALISTA 235 13. Onde lunghe come processo capitalistico 237 14. Catene di produzione nell'economia-mondo precedente al 1800 (con Terence K. Hopkins) 250 15. La famiglia come istituzione dell'economia-mondo (con Joan Smith) 262 16. I tre casi di egemonia nella storia dell'economia-mondo capitalista 282 17. La cultura come campo di battaglia ideologico del sistema-mondo moderno 293 QUARTA PARTE - FRATTURE NEL SISTEMA-MONDO: RAZZA, NAZIONE, CLASSE, ETNICITÀ, GENERE 321 18. La costruzione del popolo: razzismo, nazionalismo, etnicità 322 19. Esiste l'India? 340 20. La formazione della classe nell'economia-mondo capitalista 346 21. La borghesia: concetto e realtà 355 22. Universalismo contro razzismo e sessismo: le tensioni ideologiche del capitalismo 376 QUINTA PARTE - RESISTENZA, SPERANZA, E DELUSIONE 387 23. 1968, rivoluzione nel sistema-mondo 388 24. La scienza sociale e la parentesi comunista, ovvero interpretazioni di storia contemporanea 408 25. L'America e il mondo: oggi, ieri e domani 421 26. Le agonie del liberalismo: che cosa spera il progresso? 453 27. Pace, stabilità e legittimazione: 1990-2025/2050 475 28. La fine di quale modernità? 497 Fonti 517 |
| << | < | > | >> |PaginaHo dedicato il mio più importante e influente lavoro, The Modern World-System, Volume I, a Terence K. Hopkins, come ringraziamento per la sua costante influenza sul mio lavoro. Nel 1974 ricordavo i precedenti vent'anni. Ma seguirono altri due decenni di amicizia e collaborazione. E anche adesso che non c'è più, desidero affermare che non è svanito, e che ha lasciato un'eredità che quelli che lo conobbero bene continuano ad amare. In un volume che contiene i miei scritti di circa trent'anni, ci sono molti altri riconoscimenti da fare pubblicamente. La mia formazione deriva dal Colombia College e dal suo programma educativo generale, nonché dal Dipartimento di Sociologia presso la Columbia, probabilmente il luogo più influente della sociologia mondiale negli anni '50, particolarmente attento alle teorie struttural-funzionaliste. I miei sforzi per sintetizzare conoscenze provenienti da molte aree rispecchiano certamente la tradizione educativa generale del Colombia College. Il mio rapporto con il corso di studi in sociologia è più complesso. Io essenzialmente sono, e sono stato fin dall'inizio, un eretico rispetto a quel modo di concepire le scienze sociali. Tuttavia, ho imparato moltissimo da ciò che allora era un'ortodossia, e che fu sempre un atteggiamento intellettuale serio. Non c'è dubbio che io porti il segno di questo apprendistato. | << | < | > | >> |Pagina 156Questo articolo nasce per rispondere alla richiesta di spiegare sinteticamente le premesse teoriche che caratterizzano l'«analisi del sistema-mondo». Penso si tratti del testo più illuminante che io abbia mai scritto sull'argomento. L'articolo spiega come mai io abbia concepito l'analisi del sistema-mondo più come un approccio che come una teoria, e come mai essa sia cruciale riguardo a ciò che in un saggio successivo avrei definito «l'impensato» delle scienze sociali del diciannovesimo secolo. L'analisi del sistema-mondo non è una teoria della realtà sociale o di una parte di essa. È piuttosto una critica dei metodi che, nel diciannovesimo secolo, hanno strutturato per tutti noi la nascente indagine della scienza sociale. Questo modo di fare ricerca si è trasformato in un insieme di assunti a priori quasi sempre incontestati. L'analisi del sistema-mondo afferma che l'effetto prodotto da questo tipo di indagine scientifica sulla società, praticato in tutto il mondo, è stato quello di limitare piuttosto che di sviluppare le problematiche più importanti e interessanti. Aderendo ai pregiudizi edificati dal diciannovesimo secolo, restiamo incapaci di adempiere alla funzione sociale di cui siamo investiti e di cui il resto del mondo ci ritiene responsabili, che è quella di conferire un significato razionale alle reali alternative storiche che stanno di fronte a noi. L'analisi del sistema-mondo è nata come una protesta morale - nella sua più ampia accezione - e politica. Tuttavia, è in base a pretese scientifiche, cioè relative alla possibilità di una conoscenza sistematica della realtà sociale, che l'analisi del sistema-mondo sfida il metodo di ricerca predominante. Si tratta, dunque, di un dibattito sui fondamenti della ricerca scientifica, e questo genere di dibattiti sono sempre difficili. In primo luogo, la maggior parte dei partecipanti è implicitamente coinvolta metodologicamente. In secondo luogo, appare piuttosto remota la possibilità che un qualsiasi test empirico di una certa affidabilità, o almeno semplicità, possa risolvere, o soltanto far luce sulla questione. Il dibattito deve essere spostato dal livello empirico verso un livello più complesso e olistico. Può una somma di teorie, derivanti da uno o da un altro insieme di premesse, interpretare la realtà in modo più soddisfacente delle descrizioni già disponibili? La riflessione porta a una serie di dubbi secondari. Le nostre «descrizioni» della realtà sono, con poche eccezioni, il risultato delle nostre premesse: «descrizioni» future possono naturalmente trasformare la nostra percezione della realtà. Possono le teorie, che sostengono oggi di comprendere la realtà, comprenderla realmente? E, infine, ma non meno importante, che significa comprendere la realtà in «modo soddisfacente»? Quest'ultimo criterio è qualcosa di più che un dettaglio estetico? Il dibattito sui fondamenti della ricerca rischia di arenarsi, non solo per queste motivazioni, ma anche a causa di un limite insito nelle parti contrapposte. Chi difende il punto di vista esistente deve «toglier via» le anomalie, cioè la nostra sfida presente. Chi si oppone, invece, si trova costretto a offrire «dati» convincenti, avendo molto meno tempo per accumularne di appropriatamente rilevanti, rispetto ai 150 anni circa di ricerca scientifica sociale tradizionale. Le questioni studiate dalla ricerca sociale sono per natura difficili da osservare empiricamente, pertanto i «dati» non possono essere accumulati rapidamente. Perciò una disputa sui fondamenti della ricerca può essere rappresentata, per analogia, come un campionato di pesi massimi, ma privo di arbitraggio e combattuto da due pugili sofferenti, ognuno con la mano sinistra legata dietro la schiena. Lo spettacolo può risultare divertente, ma è da considerarsi un incontro di pugilato? È da considerarsi scienza? E chi sarà il giudice? In un certo senso, saranno gli spettatori a giudicare - e probabilmente non attraverso l'osservazione dei pugili, ma lottando loro stessi a oltranza. Allora, perché preoccuparsi? Perché i pugili fanno parte degli spettatori, i quali sono ovviamente tutti pugili. Mettendo da parte le analogie, torniamo alla discussione sui fondamenti della ricerca. Propongo a questo punto di prendere in considerazione sette assunti comuni della ricerca sociale scientifica e di indicare ciò che reputo lacunoso in essi. In seguito esplorerò quando assunti alternativi (o comunque differenti) siano altrettanto o maggiormente plausibili e indicherò la direzione in cui questi altri assunti potrebbero condurci. | << | < | > | >> |Pagina 160La storia delle scienze sociali è piuttosto nota, almeno a grandi tratti. Un tempo, le scienze sociali non esistevano, o perlomeno esistevano solo dei «precursori». In seguito, passo dopo passo, nel diciannovesimo secolo, cominciarono a affermarsi una serie di nomi, di dipartimenti, di cattedre e di associazioni, che a partire dal 1945 (talvolta anche prima) furono cristallizzati nelle categorie in uso oggi. Contemporaneamente, altri «nomi» furono accantonati, quelli che ponevano a «oggetto di studio» «gruppi» eterogenei di problematiche. Cosa includessero allora, o cosa includano oggi, termini come «economia morale» o «Staatswissenschaft» non è del tutto chiaro. La confusione non nasce da un pensiero privo di ordine e coerenza, ma dal fatto che una «disciplina» può realmente definire sé stessa solo dopo un lungo percorso di pratica. Una pratica interrotta comporta una disciplina incompleta. La celebre suddivisione dell'antropologia in quattro parti (antropologia fisica, antropologia sociale o culturale, archeologia, e linguistica), ad esempio, è stata (e in un certo senso è ancora) una «pratica» piuttosto che una «dottrina». È diventata solo in seguito una dottrina, pensata e avallata da dottori e professori. A tutto questo si è poi aggiunto un livello di analisi, o un metodo di analisi, valido e coerente, oppure la suddivisione è avvenuta solo attraverso una segmentazione dell'oggetto di studio?Sappiamo che tutte queste suddivisioni per oggetto di studio derivano dall'ideologia liberale che ha imperato nel diciannovesimo secolo, e che ha affermato che stato e mercato, politica e economia, fossero campi separati (e del tutto autonomi) di analisi, ognuno con leggi («logiche») proprie. La società ha imposto la loro separazione, e così separatamente sono stati studiati nel mondo accademico. Finché sembravano esservi molte realtà che apparentemente non rientravano nel campo del mercato né in quello dello stato, queste realtà furono collocate in un calderone che fu denominato «sociologia». In questo senso, la sociologia è stata inventata per spiegare i fenomeni apparentemente «irrazionali» che l'economia e la scienza della politica non erano in grado di affrontare. Infine, finché sono sopravvissuti popoli al di là del mondo civilizzato - un mondo remoto, con cui era quasi impossibile comunicare - lo studio di questi popoli ha implicato norme speciali e specifici percorsi formativi, che hanno preso il nome, in un certo senso polemicamente, di antropologia. Sappiamo qual è 1'origine storica dei campi. Conosciamo i loro percorsi intellettuali, che sono stati complessi e variegati, soprattutto dal 1945 in poi. E sappiamo perché a un certo punto hanno incontrato difficoltà di «definizione». Nel momento in cui il mondo reale ha cominciato a evolversi, i confini tra «primitivo» e «civilizzato», «politico» ed «economico» hanno preso a crollare. La caccia alle cattedre è diventata una pratica comune. I cacciatori hanno cominciato a spostare i confini, senza peraltro abbatterli. Il problema che si presenta a noi oggi è se esista un qualsiasi criterio che possa essere usato per affermare, con una certa validità, l'esistenza di confini tra le quattro presunte discipline, ovvero tra l'antropologia, l'economia, la scienza della politica, la sociologia. L'analisi del sistema-mondo risponde con un inequivocabile «no» a questa domanda. Tutti i criteri presi in considerazione - livello di analisi, oggetto di studio, metodologia, assunti teorici - sono risultati fallaci nella pratica, e si sostiene che, lungi dallo stimolare la produzione di conoscenza, ne abbiano ostacolato 1'approfondimento. | << | < | > | >> |Pagina 175La scienza è la ricerca di leggi che riassumono nel modo più sintetico il significato delle cose, e come queste accadono. La scienza moderna non è figlia del diciannovesimo secolo. Essa risale almeno al sedicesimo, forse al tredicesimo, secolo. Ha avuto una brutta deviazione sul lato determinista dell'equazione, sul terreno della linearità e della concisione. Gli scienziati hanno messo sempre più campi dell'universo sotto il loro sguardo, e il mondo degli uomini è stato senza dubbio l'ultimo di questi campi. È in nome di questa tradizione che la scienza sociale nomotetica si è affermata. La metodologia adottata dalla scienza sociale nomotetica ha emulato i principi di base delle scienze naturali, che l'hanno preceduta affermandosi socialmente con successo: indagini empiriche sistematiche e precise, metodo teorico induttivo. Quanto più elegante, tanto più avanzata la scienza. Naturalmente, le applicazioni pratiche seguono. Le scienze sociali nomotetiche sono state caratterizzate da insufficienze - se paragonate alle scienze fisiche - ma sono state sostenute dalla certezza che la scienza sia cumulativa e unilineare. Nei nostri dubbi sui precedenti assunti, era implicita - dovrebbe essere chiaro - un'altra visione della scienza. Se rifiutiamo l'utilità della distinzione nomotetico-idiografico, allora solleviamo dubbi sull'utilità della scienza di tipo newtoniano. Noi non facciamo ciò, come hanno fatto gli idiografici, sulla base della peculiarità dell'indagine sociale (gli esseri umani come attori riflessivi). Noi dubitiamo della sua utilità proprio per le scienze naturali (e, infatti, sono emerse negli ultimi due decenni delle spinte in direzione di una scienza naturale non lineare, in cui i processi stocastici risultassero centrali). In particolare, nei termini di ciò che abbiamo definito scienze sociali storiche, mi chiedo se il metodo che va dal concreto all'astratto, dal particolare all'universale, non dovrebbe essere invertito. Forse le scienze sociali storiche devono cominciare dall'astratto e muoversi in direzione del concreto, per giungere a un'interpretazione coerente dei processi dei sistemi storici particolari che rendano plausibilmente conto del particolare e concreto cammino storico da essi percorso. Il determinato non è semplice, ma complesso, anzi molto complesso. E, naturalmente, nessuna situazione è più complessa dei lunghi periodi di transizione, quando vengono meno i più semplici vincoli. La storia e le scienze sociali hanno assunto la loro attuale forma dominante, nel momento in cui è trionfata pienamente e senza alternative la logica del nostro presente sistema storico. Esse sono figlie di questa logica. Adesso, però, viviamo in un lungo periodo di transizione in cui le sue contraddizioni impediscono al sistema la continua revisione dei suoi ingranaggi. Viviamo in un periodo di reale scelta storica. E questo periodo è incomprensibile sulla sola base degli assunti del sistema. L'analisi del sistema-mondo è un richiamo alla costruzione di una scienza sociale storica che si senta a proprio agio con le incertezze della transizione, che contribuisca alla trasformazione del mondo, illuminando le scelte, senza la necessità di credere all'inevitabile trionfo del bene. L'analisi del sistema-mondo è un richiamo a schiudere quelle barriere che ci impediscono di esplorare molte zone del mondo reale. L'analisi del sistema-mondo non è un paradigma della scienza sociale storica. È un richiamo a una discussione sul paradigma. | << | < | > | >> |Pagina 189Sia Braudel che Prigogine hanno influenzato il mio modo di trattare le questioni epistemologiche, e specialmente le questioni di tempo e durata. Sono stato colpito dalla misura in cui ognuno di essi ha cercato di tracciare una ristretta via media tra le suddivisioni epistemologiche standard degli attuali sistemi di conoscenza. Ho pensato, quindi, che fosse di grande rilevanza costruire un «terzo non escluso». Se i dibattiti epistemologici sono senza dubbio eterni, ci sono momenti in cui sembrano arricchirsi di un'intensità maggiore. L'ultimo decennio del ventesimo secolo è uno di questi momenti di sperimentazione. Si dice che la scienza sia vittima di violenti attacchi, e con essa la razionalità, la modernità, e la tecnologia. Alcuni la definiscono crisi di civiltà, della civiltà occidentale - o anche fine del concetto stesso di mondo civilizzato. Quando i sostenitori dei concetti intellettuali prevalenti sembrano farsi prendere dal panico, invece di ignorare i loro critici o rispondere loro con calma e (suggerirei) razionalmente, allora forse è il momento di fare un passo indietro per arrivare a una fredda valutazione del dibattito in corso. Per almeno due secoli, la scienza è stata incoronata come la via legittima, persino come l'unica via legittima, per il raggiungimento della verità. All'interno delle strutture di conoscenza, questa visione è stata sanzionata dalla convinzione che esistessero «due culture» - quella della scienza e quella della filosofia (o della letteratura) - che si pensava fossero tra loro incompatibili, e che venivano disposte in una scala gerarchica. Come risultato, le università del mondo hanno sempre separato queste due culture in due facoltà distinte. Sebbene le università abbiano asserito formalmente che le due facoltà erano ugualmente importanti, il mondo della politica e quello dell'economia non hanno esitato a manifestare una netta preferenza. Hanno pesantemente investito nel campo scientifico e per la maggior parte hanno tollerato a stento il campo umanistico. La convinzione che la scienza sia qualcosa di diverso dalla filosofia, e anche ad essa contrapposta, la cosiddetta spaccatura tra le due discipline, è dunque relativamente nuova. Essa emerge alla fine di un processo di secolarizzazione della conoscenza che è proprio dell'attuale sistema-mondo. Come la filosofia, alla fine del Medioevo, aveva spodestato la teologia quale modello di ricerca della verità, così la scienza ha preso il posto della filosofia alla fine del diciottesimo secolo. Io dico «scienza», ma mi riferisco a un tipo particolare di scienza: quella che io associo a Newton, Francis Bacon, e Descartes. La meccanica newtoniana pose una serie di premesse e di assunti che hanno ottenuto nel mondo moderno uno status canonico: i sistemi sono lineari; sono determinati; e tendono all'equilibrio. La conoscenza è universale e può essere espressa in ultima analisi in forma di leggi semplici e generali. Inoltre, i processi fisici sono reversibili. Quest'ultima affermazione è quella che sembra maggiormente controintuitiva, poiché suggerisce che le relazioni fondamentali non cambiano mai, e che, pertanto, il tempo è irrilevante. Questa proposizione, allora, è importante per la validità delle altre parti del modello newtoniano. Pertanto, secondo. questo modello, «tempo e durata» non possono essere fattori rilevanti o significativi, o almeno non tali che gli scienziati possano costruirne una teoria. Ma ora ecco che un fisico come Ilya Prigogine affronta l'argomento, e uno scienziato sociale come me ne parla. Com'è possibile? Per comprendere ciò, dobbiamo prendere in considerazione la storia dei dibattiti epistemologici nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo. | << | < | > | >> |Pagina 194A questo punto, per comprendere meglio il dibattito, occorre fare un riepilogo di questa controversia. La storia delle scienze naturali negli ultimi due secoli è differente da quella delle scienze sociali. La scienza newtoniana ha seguito fermamente una traiettoria, a partire dal diciassettesimo secolo, sia come costruzione intelettuale, sia come ideologia, per l'organizzazione dell'attività scientifica. All'inizio del diciannovesimo secolo, grazie a Laplace, essa ricevette uno status canonico. Molti dei suoi seguaci sentivano che la grande teoria scientifica era alla fine, e che tutto ciò che rimaneva al lavoro scientifico era la possibilità di mettere ordine su alcune questioni minori di scarsa rilevanza, e di continuare a utilizzare la conoscenza teorica per propositi pratici.Tuttavia, come sappiamo, o come dovremmo sapere, la produzione teorica (proprio come la storia) non ha mai fine, poiché tutta la nostra conoscenza, se può sembrare valida oggi, in una prospettiva cosmica non può che essere transitoria, poiché è strettamente connessa alle condizioni sociali da cui è stata appresa e costruita. In ogni caso, la scienza newtoniana si scontrò con quelle realtà fisiche che non riusciva a spiegare e, alla fine del diciannovesimo secolo, quando Poincaré dimostrò che era impossibile risolvere il problema dei tre corpi, si trovò in seria difficoltà, sebbene molti scienziati non fossero ancora pronti a riconoscerlo. È solo durante gli anni Settanta che la posizione della meccanica newtoniana, come paradigma per tutta l'attività scientifica, si incrina quasi ovunque, ed è solo in questo momento che si può parlare, all'interno delle scienze naturali, di un movimento intellettuale significativo in grado di mettere in forse l'approccio dominante e sostanzialmente mai discusso. Questo movimento assume diversi nomi. Per segnalare i suoi propositi, può essere definito «studio della complessità». Uno dei personaggi centrali di questa nuova opposizione è stato Ilya Prigogine, che ricevette il Premio Nobel per i suoi studi sulle strutture dissipative. Utilizzerò qui il suo recente saggio, La Fin des Certitudes, sottotitolato Temps, Chaos, et les Lois de la Nature (Prigogine, 1996), in cui ha sintetizzato le sue posizioni. Se possiamo considerare la longue durée come simbolo del tema centrale di Braudel, allora possiamo analogamente considerare «il flusso del tempo» (un'espressione che Prigogine riprende da Arthur Eddington, anche se oggi viene associata a lui) come simbolo del tema centrale di Prigogine. Prigogine inizia il suo saggio, riproducendo le conclusioni che (con Isabelle Stengers) aveva già precedentemente espresso in La Nouvelle Alliance. 1. I processi irreversibili (associati al flusso del tempo) sono reali come i processi reversibili descritti dalle leggi tradizionali della fisica; non possono essere interpretati solo come approssimazioni alle leggi fondamentali. 2. I processi irreversibili giocano un ruolo costruttivo in natura. 3. L'irreversibilità richiede un'estensione della dinamica. (1996, p. 32). Secondo Prigogine, la meccanica newtoniana descrive sistemi dinamici stabili. Come, per Braudel, l' histoire événementielle descriveva una parte, ma solo una piccola parte, della realtà storica, così, per Prigogine, i sistemi dinamici stabili sono una parte, ma solo una piccola parte, della realtà fisica. Nei sistemi instabili, quando le condizioni iniziali, che sono sempre e necessariamente particolari, variano di poco, producono risultati molto differenti. Fondamentalmente, l'impatto delle condizioni iniziali non è stato analizzato all'interno della meccanica newtoniana. Come, per Braudel, gli effetti della longue durée sono più visibili in un'ottica macroscopica, cioè opposta alle strutture microscopiche, così, per Prigogine, «è nella fisica macroscopica che diventa più evidente l'importanza dell'irreversibilità e delle probabilità» (1996, p. 51). Infine, come, per Braudel, «gli eventi sono polvere», così, per Prigogine, «quando ci occupiamo di interazioni transitorie, gli effetti diffusi sono insignificanti» (1996, p. 51). Per Prigogine, la situazione diventa quasi opposta nella longue durée di Braudel: «In breve, è nell'interazione persistente che questi effetti diffusi diventano dominanti» (1996, p. 62). Per Braudel, ci sono tempi sociali multipli. Solo quando si fa riferimento alla durata molto lunga (che, ripeto, per lui «se esiste, può essere solo il tempo dei saggi») si possono formulare leggi universali di una qualche veridicità. Questa scienza sociale nomotetica, come la meccanica newtoniana, presume l'ubiquità dell'equilibrio. Anche questo punto viene preso di mira da Prigogine: Mentre le leggi di natura sono universali quando ci occupiamo di equilibrio o di argomenti simili, esse diventano specifiche, e dipendenti da processi irreversibili, quanto più ci allontaniamo dall'equilibrio... Lontano dall'equilibrio... l'oggetto si fa soggetto attivo (1996, 75). Prigogine non era imbarazzato dall'idea di una natura attiva. Piuttosto, era vero il contrario: «È perché... siamo sia 'attori' che 'spettatori' che riusciamo ad apprendere qualcosa dalla natura» (1996, pp. 173-4). C'è, comunque, un'importante differenza tra Braudel e Prigogine: il punto da cui partono. Braudel doveva lottare contro l'approccio dominante nella storia, che ignorava la struttura, ovvero la durata. Prigogine doveva lottare contro l'approccio dominante nella fisica, che ignorava le situazioni di non-equilibrio, e le conseguenze dell'unicità delle condizioni iniziali, ovvero il tempo. Pertanto, Braudel affermava l'importanza della longue durée e Prigogine l'importanza del flusso del tempo. Ma, come Braudel non voleva passare dall' histoire événementielle alla très long durée, come si passa dalla padella alla brace, ma posizionarsi in una possibile via media, così Prigogine non aveva alcuna intenzione di rinunciare al tempo reversibile, per ritrovarsi nella condizione peggiore di impossibilità di ordine e spiegazione. La possibile via media di Prigogine si può definire caos determinista: Di fatto, le equazioni sono leggi tanto deterministiche quanto newtoniane. Nonostante ciò, esse danno risalto al comportamento che ha un alone di incertezza (1996, p. 35). Forse, sarebbe meglio dire che ha qualcosa in più di un semplice alone, visto che aggiunge anche che le probabilità sono «intrinsecamente incerte» (1996, p. 40). Questo è il motivo per cui parlo di questa posizione come una possibile via media. È certamente una posizione centrale: | << | < | > | >> |Pagina 388La rivoluzione mondiale del 1968 ha giocato un ruolo centrale nella mia analisi del sistema-mondo moderno, in quanto momento fondamentale di superamento dell'egemonia del liberalismo nella geocultura del sistema-mondo moderno. Questo saggio è servito da documento di base per una conferenza del 1988 che celebrava e approfondiva il 1968. Ho cercato in quell'occasione di porre una serie di tesi e domande, che avrebbero potuto in seguito essere usate per andare avanti nell'analisi del sistema-mondo e della direzione da questo intrapresa. TESI E QUESITI Tesi 1: Il 1968 fu una rivoluzione nel e del sistema-mondo La rivoluzione del 1968 fu una rivoluzione. Fu un'unica rivoluzione. Essa fu caratterizzata da dimostrazioni, disordini e violenze in numerose zone del mondo per un periodo di almeno tre anni. Le sue origini, le sue conseguenze e i suoi insegnamenti non possono essere adeguatamente analizzati facendo riferimento alle circostanze particolari delle manifestazioni locali di questo fenomeno globale, per quanto i fattori locali possano aver condizionato i dettagli delle lotte politiche e sociali in ciascun luogo. In quanto evento storico, il 1968 è da lungo tempo terminato. Tuttavia, esso è stato uno dei grandi eventi formativi nella storia del sistema-mondo moderno, quel genere di eventi che definiamo spartiacque. Questo significa che le realtà ideologico-culturali di quel sistema-mondo sono state definitivamente cambiate da quell'evento, esso stesso cristallizzazione di alcune tendenze strutturali da tempo presenti nel funzionamento del sistema. ORIGINI Tesi 2: La principale protesta del 1968 era rivolta contro l'egemonia americana nel sistema-mondo (e contro il tacito consenso sovietico) Nel 1968 il mondo si trovava ancora nel mezzo di quelli che in Francia sono stati chiamati i «trenta gloriosi» anni, la fase della straordinaria espansione dell'economia-mondo capitalistica che seguì la fine della seconda mondiale. O, se si vuole, il 1968 seguì di poco il primo significativo indizio dell'avvio di una lunga fase di stagnazione economica mondiale, vale a dire le serie difficoltà patite dal dollaro americano nel 1967 (difficoltà che, a partire da allora, non sono mai cessate). Gli anni compresi tra il 1945 e il 1967 sono stati un periodo di indiscussa egemonia statunitense nel sistema-mondo, egemonia il cui fondamento risiedeva nell'enorme superiorità dell'efficienza produttiva degli Stati Uniti in ogni settore dopo la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti tradussero questo vantaggio economico in un dominio politico e culturale su scala mondiale intraprendendo dopo il 1945 quattro principali iniziative politiche. Essi costruirono intorno a sé un «sistema di alleanze» con l'Europa occidentale (e con il Giappone) definito come leadership del «mondo libero», e investirono nella ricostruzione economica di queste zone (il Piano Marshall e così via). In questo modo gli Stati Uniti cercarono di assicurarsi il ruolo di Europa occidentale e Giappone quali principali acquirenti economici e di garantire la loro stabilità politica interna e la loro subalternità politica internazionale. | << | < | > | >> |Pagina 391Tesi 3: La protesta subordinata, ma in fin dei conti più appassionata, del 1968 fu rivolta contro i movimenti antisistemici della «vecchia sinistra»Il diciannovesimo secolo vide la nascita di due principali varietà di movimenti antisistemici - i movimenti sociali e quelli nazionali. I primi posero l'accento sull'oppressione del proletariato a opera della borghesia e i secondi sull'oppressione dei popoli diseredati (e delle «minoranze») a opera dei gruppi dominanti. Entrambi i tipi di movimenti cercarono di conseguire, in termini generali, l'«eguaglianza». In realtà, entrambi impiegarono i tre termini dello slogan rivoluzionario francese - «libertà, eguaglianza e fratellanza» - in modo virtualmente intercambiabile. | << | < | > | >> |Pagina 393La collera degli Students for a Democratic Society (Sds) americani nei confronti del «liberal», dei soixante-huitards nei confronti del Pcf (per non dire dei socialisti) e degli Sds tedeschi nei confronti della Spd fu ancor più intensa, poiché essi si sentivano profondamente traditi. Era questo il vero significato di un altro degli aforismi del 1968: «Non fidarsi mai di nessuno che abbia più di trent'anni». La sua dimensione generazionale aveva a che fare non tanto con il livello individuale, quanto con quello delle organizzazioni antisistemiche. Non credo sia un caso che la principale rivolta nel blocco sovietico abbia avuto luogo in Cecoslovacchia, un paese con una lunga e solida tradizione terzinternazionalista. I leader della Primavera di Praga combatterono la loro battaglia nel nome del «comunismo dal volto umano», cioè contro il tradimento rappresentato dallo stalinismo. E non credo sia un caso che la principale rivolta nel Terzo Mondo si sia svolta in Messico, il paese dove più a lungo un movimento di liberazione nazionale era stato ininterrottamente al potere, o che rivolte di particolare rilevanza siano avvenute a Dakar e a Calcutta, due città con radicate tradizioni nazionaliste.[...] Tesi 4: La controcultura fu parte dell'euforia rivoluzionaria, ma non fu politicamente centrale nel 1968 Quella che alla fine degli anni Sessanta venne chiamata «controcultura» fu una componente assai visibile dei vari movimenti che parteciparono alla rivoluzione del 1968. Per controcultura intendiamo generalmente un comportamento anticonformista, non-borghese e dionisiaco nella vita quotidiana (sessualità, droghe, abbigliamento) e nelle arti. Si ebbe un enorme aumento di questo genere di comportamenti associati direttamente all'attivismo nel «movimento». Il festival di Woodstock negli Stati Uniti rappresentò una sorta di momento culminante simbolico di questa controcultura legata al movimento. | << | < | > | >> |Pagina 395Tesi 5: I movimenti rivoluzionari rappresentanti la «minoranza» o gli strati più poveri non sono più tenuti ad assumere, non assumono più una posizione subordinata rispetto ai movimenti rivoluzionari che rappresentano presunti gruppi di «maggioranza»Il 1968 fu la tomba ideologica dell'idea del «ruolo guida» del proletariato industriale. Questo ruolo guida era stato a lungo sfidato, ma mai in precedenza in modo così imponente e così efficace. Nel 1968 esso venne infatti messo in discussione sulla base dd fatto che il proletariato industriale era, e sarebbe strutturalmente sempre rimasto, solo una delle componenti della classe lavoratrice mondiale. | << | < | > | >> |Pagina 406NOTA CONCLUSNAUno dei principali motivi di insoddisfazione espressi nel corso della rivoluzione del 1968 era che l'immenso sforzo sociale compiuto dai movimenti antisistemici nei precedenti cento anni aveva generato un beneficio globale estremamente ridotto. In realtà, sostenevano i rivoluzionari, nei termini della trasformazione del mondo non si erano fatti grandi passi in avanti rispetto ai nostri antenati. La critica era severa, senza dubbio salutare, ma anche ingiusta. Le condizioni della rivoluzione sistemico-mondiale del 1968 erano del tutto diverse da quelle della rivoluzione sistemico-mondiale del 1848. È difficile dire, retrospettivamente, in che modo, dal 1848 al 1968, i movimenti antisistemici avrebbero potuto agire in modo diverso da come in realtà fecero. La loro strategia era probabilmente l'unica strategia realistica che avevano a disposizione, e i loro fallimenti potrebbero essere stati già scritti nei vincoli strutturali al cui interno essi necessariamente operarono. I loro sforzi e la loro devozione furono enormi. E i rischi che essi prevenirono, e le riforme che essi imposero, probabilmente hanno bilanciato i misfatti commessi e la misura in cui le loro modalità di lotta rafforzarono lo stesso sistema contro il quale stavano lottando. Ciò che conta, tuttavia, non è la critica rivolta ai movimenti antisistemici mondiali dopo averne visto i risultati. La vera rilevanza della rivoluzione del 1968 non sta tanto nella sua critica al passato quanto nelle questioni che essa ha sollevato sul futuro. Anche se la precedente strategia dei movimenti della «vecchia sinistra» era stata, per quell'epoca, la migliore strategia possibile, rimaneva ancora aperta la questione relativa alla sua utilità nel 1968. Sotto questo aspetto le argomentazioni dei nuovi movimenti erano solide.
I nuovi movimenti tuttavia non hanno offerto una strategia
alternativa pienamente coerente. Una strategia alternativa coerente deve ancora
essere elaborata. Ciò richiederà ancora dieci o vent'anni. Non è un motivo per
scoraggiarsi: è invece l'occasione per un duro lavoro collettivo, intellettuale
e politico.
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