Autore Robert Walser
Titolo L'assistente
EdizioneAdelphi, Milano, 2022, Biblioteca 732 , pag. 240, cop.fle., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-459-3669-2
OriginaleDer Gehülfe [1908]
TraduttoreCesare De Marchi
LettoreElisabetta Cavalli, 2022
Classe narrativa svizzera












 

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Pagina 9

Una mattina alle otto un giovanotto stava davanti al portone di una casa appartata, graziosa all'aspetto. Pioveva. «Sono quasi sorpreso» pensò «di avere con me un ombrello». In effetti non aveva mai prima posseduto un ombrello. In una mano stesa verso terra stringeva il manico di una valigia marrone, delle più andanti. Davanti agli occhi dell'uomo, che evidentemente arrivava da un viaggio, era una targhetta smaltata con sopra scritto: C. Tobler, ufficio tecnico. Aspettò ancora un istante, come riflettendo a qualcosa di certo irrilevante, quindi pigiò il bottone del campanello elettrico, dopodiché venne ad aprirgli una persona, secondo ogni apparenza una serva, che lo fece entrare.

«Sono il nuovo impiegato» disse Joseph: così infatti si chiamava. La serva lo fece entrare e gli indicò come raggiungere da basso l'ufficio. Il padrone, disse, verrà subito.

Joseph scese una scala, fatta più per polli che per esseri umani, e sulla destra varcò senz'altro la soglia dell'ufficio tecnico. Dopo che ebbe atteso un po', la porta si aprì. Dal passo deciso sulla scala di legno e dal modo in cui la porta venne aperta, il giovane riconobbe subito il padrone. La sua comparsa non fece che confermare la certezza che l'aveva preceduta: non era infatti altri che Tobler, il direttore della casa, il signor ingegnere Tobler. Il quale sgranò gli occhi, pareva seccato e lo era davvero.

«Perché» disse guardando Joseph con severità «si presenta già oggi? Le avevo detto di venire mercoledì. Non sono ancora pronto. Aveva tanta fretta, lei? Eh?».

Per Joseph quell'«eh?» aveva un che di sprezzante. Un monosillabo tanto brusco non equivale precisamente a una carezza. Egli replicò che all'ufficio di collocamento gli avevano indicato di presentarsi oggi, lunedì, di buon'ora. Se era un malinteso, se ne scusava, ma lui non ce ne poteva niente.

«Vedi quanto sono cortese!» pensò il giovanotto, e senza volere sorrise intimamente del proprio contegno.

Tobler non parve propenso a volerlo subito scusare. Seguitò ancora a rimestare lo stesso argomento, col risultato che per l'indignazione la sua testa, già di per sé rossa, arrossì ulteriormente. Non «riusciva a capire», disse, gli «faceva specie» questo e quello, finché, una volta che il suo stupore per il disguido si fu placato, buttò lì a Joseph che poteva pure rimanere. «Ormai non posso mica mandarla via». «Ha fame?» aggiunse. Joseph, piuttosto impassibile, disse di sì. Ma subito si meravigliò della calma con cui aveva risposto. «Ancora sei mesi fa» pensò in un attimo «l'altisonanza di una domanda simile mi avrebbe intimidito, eccome!».

«Venga» disse l'ingegnere. Con queste parole precedette il suo nuovo impiegato su nella sala da pranzo, che si trovava a pian terreno. L'ufficio era nel sottosuolo. Una volta nella sala da pranzo e soggiorno, il padrone disse quanto segue:

«Si accomodi. Non importa dove. E mangi a sazietà. Qui c'è del pane. Se ne tagli quante fette vuole. Non faccia complimenti! Si serva quante tazze desidera. Caffè ce n'è a sufficienza. E qui c'è il burro. È lì apposta per essere spalmato. E qui c'è della marmellata, se è di suo gusto. Vuole anche delle patate arrosto?».

«Oh, perché no, volentieri» ebbe il coraggio di dire Joseph. Allora il signor Tobler chiamò Pauline, la serva, per dirle di preparare alla svelta quanto desiderato. Finita la colazione, da basso nello scrittoio, in mezzo a tavole da disegno e compassi e matite sparse tutt'intorno, tra i due uomini ebbe luogo a un dipresso la discussione seguente:

Per impiegato, disse ruvidamente Tobler, gli occorreva un cervello. Una macchina non gli serviva. Se Joseph intendeva passare le giornate lavorando senza metodo e senza sale, avesse la compiacenza di dirlo subito, in modo che fin da principio fosse chiaro con chi si aveva a che fare. Lui, Tobler, aveva bisogno di un intelletto, di una forza lavorativa autosufficiente. Se Joseph riteneva di non essere tale, facesse la cortesia, eccetera. Qui l'inventore tecnico si involse in ripetizioni.

«Ah,» disse Joseph «perché dovrei non avere un cervello, signor Tobler? Per quel che mi riguarda, credo e spero fermissimamente che sarò sempre in grado di fare ciò che lei riterrà di chiedermi. Del resto, so di essere quassù (casa Tobler si trovava in cima a una collina) per ora solo in prova. La natura del nostro accordo reciproco non le impedirà in alcun modo, se lo giudicherà necessario, di troncare all'istante il rapporto con me».

Al signor Tobler parve opportuno dire che non si augurava si giungesse a tanto. Joseph non prendesse in mala parte, aggiunse, ciò che lui, Tobler, aveva testé detto. Soltanto aveva ritenuto di parlare schietto fin da principio, ed era sua opinione che fosse stato di vantaggio per entrambe le parti. Così ognuno sapeva con chi aveva a che fare, e tutto era per il meglio.

«Certo» confermò Joseph.

Dopo questo colloquio il superiore indicò al sottoposto il luogo dove «poteva» scrivere. Era questo uno scrittoio piuttosto angusto, stretto e troppo basso, con un tiretto in cui si trovavano la cassa dei valori bollati e qualche libriccino. Questo tavolo, ché tale era e non un vero scrittoio, era accosto a una finestra e al terreno del giardino. Più oltre si scorgeva in profondo il lago in tutta la sua estensione, e più lontano l'altra riva. Oggi tutto era velato perché continuava a piovere.

«Venga,» disse a un tratto Tobler, sorridendo delle proprie parole in un modo che a Joseph parve alquanto sconveniente «bisogna che anche mia moglie finalmente la veda. Venga con me, che la presento. E poi bisogna che veda la camera dove dormirà».

Lo condusse su al primo piano, dove venne loro incontro una figura femminile alta e snella. Era «lei». «Una donna comune,» avrebbe voluto pensare il giovane impiegato, ma aggiunse subito tra sé: «eppure no». La signora considerò il «nuovo» con ironica indifferenza, ma senza intenzione. Entrambe le cose, freddezza e ironia, sembravano in lei connaturate. Gli porse con negligenza, anzi con indolenza la mano, che lui afferrò inchinandosi alla «padrona di casa». Così la chiamò mentalmente, non già per elevarla, al contrario, per offenderla tosto in segreto. Ai suoi occhi quella donna si comportava davvero con troppa superbia.

«Spero che le piacerà qui da noi» disse ella con voce stranamente acuta e storcendo un poco la bocca.

«Sì, dillo pure! Bellissimo. Guardate un po' che gentilezza. Staremo a vedere». Così Joseph ritenne opportuno considerare tra sé quelle parole benevole. Quindi gli venne mostrata la sua camera, in alto nella torre dal tetto di rame, era in fondo una camera romantica e raffinata. Peraltro appariva luminosa, accogliente, ariosa. Il letto era lindo, oh sì, in una camera così si poteva abitare. Niente male. E Joseph Marti - questo il suo nome per esteso - posò sul parquet la valigia che aveva portato con sé.

Più tardi venne sommariamente iniziato ai segreti delle iniziative commerciali tobleriane e familiarizzato con le incombenze che avrebbe dovuto svolgere. Una sensazione singolare lo invase, capiva solo la metà. Ma cosa gli succedeva, pensò rimproverandosi: «Sono un impostore, un ciarlatano? Voglio imbrogliare il signor Tobler? Lui vuole un "cervello" e io, io oggi sono del tutto scervellato. Forse andrà meglio domattina o già questa sera».

Il pranzo gli piacque enormemente.

E di nuovo, con ansia, pensò: «Come? Me ne sto qui a mangiare con un gusto che forse da mesi non provavo, e dei maneggi commerciali di Tobler non ci capisco niente. Non è un furto? Il mangiare è magnifico, mi ricorda nettamente casa. Una minestra così la faceva mamma. Come sono sostanziose e succulente le verdure, e la carne poi! Dove si mangia così in città?».

«Mangi, mangi,» lo incitava Tobler «a casa mia si mangia gagliardamente, ha capito? Poi però si lavora».

Il signore vedeva bene che lui mangiava, replicò Joseph con una timidezza che quasi lo fece adirare. Pensò: «Mi inciterà ancora a mangiare tra otto giorni? Che vergogna rendermi conto di quanto mi piace questo cibo altrui. Saprò giustificare questo appetito indecoroso con un rendimento adeguato?».

Si servì un'altra volta di ogni portata. Sì, lui veniva dalle profondità della società umana, dagli angoli bui, silenziosi, meschini della grande città. Erano mesi che mangiava male.

Forse glielo si leggeva in faccia, pensò arrossendo.

Sì, un pochettino i Tobler lo notavano di certo. La moglie posò più volte su di lui uno sguardo quasi di compassione. I quattro figli, due femmine e due maschi, lo guardavano di traverso come un oggetto sconosciuto e strano. Quelle occhiate sfacciatamente interrogative e indagatrici lo avvilivano. Sono occhiate che richiamano l'appressarsi a qualcosa di estraneo, all'agio di quell'ambiente estraneo che per sé stesso costituisce un focolare, e alla sradicatezza di colui che ora se ne sta lì e ha il dovere di inserirsi alla svelta e di buon grado in quel confortevole quadretto estraneo. Sono occhiate che ti ghiacciano al solleone, che ti penetrano fredde nell'anima, fredde vi restano un attimo, e poi com'erano venute se ne vanno.

«Bene. Ora al lavoro» esclamò Tobler. E i due si alzarono da tavola e scesero - il padrone per primo - nell'ufficio per mettersi, come suonava l'ingiunzione, a lavorare.

«Lei fuma?».

Sì, a Joseph fumare piaceva.

«Prenda un sigaro spuntato da quel pacchetto celeste! Fumi pure durante il lavoro. Lo faccio anch'io. Ecco. E adesso guardi qua, questi, ma li guardi attentamente, sono i documenti per l'"orologio-réclame". Sa far bene di conto? Be', tanto meglio. Ora in primo luogo bisogna... ma cosa fa? Giovanotto, la cenere va nel portacenere. Fra le mie quattro mura mi piace che ci sia ordine... Dunque, in primo luogo bisogna, prenda una matita, bisogna, diciamo, fare un prospetto, calcolare l'esatto ricavo della nostra attività. Si sieda qui, le fornirò subito i dati necessari. E veda di prestare attenzione, non mi piace ripetere le cose due volte».

«Sarò in grado?» pensò Joseph. Era già molto che nel fare un lavoro difficile fosse permesso fumare. Senza il sigaro adesso lui avrebbe francamente dubitato della dirittura del suo cervello.

Mentre l'impiegato scriveva, il principale di quando in quando guardava da sopra le sue spalle il foglio su cui egli andava scrivendo, e intanto passeggiava su e giù per l'ufficio stringendo tra i bei denti bianchissimi un sigaro lungo e curvo e dettando una quantità di numeri, che una mano impiegatizia oggi ancora un poco fuori esercizio tracciava lesta sulla carta. Il fumo azzurrino ben presto avvolse interamente le due figure intente al lavoro, fuori delle finestre il tempo sembrava schiarirsi, ogni tanto Joseph gettava un'occhiata oltre il vetro e avvertiva il mutamento che pian piano si compiva nel cielo. Di là dalla porta il cane abbaiò. Tobler uscì un momento a calmare l'animale. Passate due ore, la signora Tobler mandò un figlio a chiamare per il caffè del pomeriggio. Era apparecchiato fuori nel capanno del giardino, disse il ragazzino, perché il tempo si era messo al bello. Il padrone prese il cappello dicendo a Joseph che andasse a bere il caffè, poi avrebbe messo in bella copia quanto aveva scritto alla svelta: ne avrebbe senz'altro avuto fino a sera.

Quindi uscì. Joseph lo vide scendere giù per la ripida pendenza del giardino. Che figura imponente, pensò; rimase ancora un bel pezzo lì dov'era, poi raggiunse il bel capanno verniciato di verde per il caffè.

Durante lo spuntino la signora gli domandò: «Lei era senza occupazione?».

«Sì» rispose Joseph.

«Da tanto?».

Lui riferì, ed ella sospirò ogni volta che egli parlava di certe persone e condizioni umane deplorevoli. Lo faceva a fior di labbra e trattenendo in bocca più del necessario ogni sospiro, quasi a deliziarsi di quel suono e di quella sensazione.

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Pagina 43

Avrebbe continuato ad almanaccare così, se alla Tobler non fosse di colpo venuta l'idea, che subito manifestò, di «andare in gondola sul lago stasera». Era una sera così bella, disse, e quanto ai pochi soldi che costava, non era nemmeno il caso di parlarne. Dato che il gioco era finito proprio allora, nessuno ebbe da eccepire alla proposta, nemmeno Tobler, che borbottando acconsentì. Joseph, da quel factotum che era, fu mandato in paese perché prendesse una bella barca a tre sedili e poi, senza farsi trattenere perché doveva fare alla svelta, visto che cominciava ad annottare, venisse lungo la riva fino in prossimità della villa. Laggiù, in una specie di porticciolo, sarebbero saliti a bordo. L'impiegato si era già messo in cammino. Tobler, quanto a lui, disdegnò di essere della partita. Né si poteva prendere in barca l'anziana industriale, sicché la Tobler decise di portare i bambini. La signorina si dichiarò pronta, non solo ad andare con loro, ma a dare il suo contributo remando; al che la padrona di casa andò a prepararsi per la gita.

Erano già in attesa all'imbarcadero sotto villa Tobler, sulle grandi lastre di pietra di un vecchio argine ormai in disuso, quando finalmente la barca con Joseph ai remi arrivò. Tutti cominciarono a salire a bordo. Prima la Tobler, di modo che gli altri le passassero, l'uno dopo l'altro, i bambini. I due maschi cominciarono con le monellerie, e vennero redarguiti perché la loro eccitazione inconsulta era pericolosa, ragion per cui si calmarono. Le bambine erano tranquille e si tenevano con le manine al bordo della barca. Da ultimo montò Joseph, che fino all'ultimo aveva tenuta ferma l'imbarcazione a una catena sferragliante. E poi a un tratto partirono: Joseph remava, operazione che padroneggiava bene, ma si procedeva adagio, pure nessuno pretendeva che si procedesse più in fretta. Come si era fatto fresco d'un tratto il mondo. La Tobler badava ai bambini, li esortava a comportarsi bene, a non fare movimenti bruschi, altrimenti poteva capitare una gran disgrazia e tutti loro sarebbero annegati senza misericordia. Tutti e quattro i bimbi ascoltavano queste strane parole restando fermi, anche i maschi, che adesso, lì nel cuore della notte e al largo tra il mormorio dell'acqua, seduti in quella barca che scivolava silenziosa, cominciavano ad avere un po' di paura. La signora Tobler sussurrò che era proprio bello, e che buona idea aveva avuto, così le sembrava, di proporre quella gita. Era un piacere, veramente, e suo marito avrebbe fatto meglio a venire con loro. Ma, aggiunse, per quel genere di cose lui proprio non aveva sensibilità. Che frescura, che bellezza!

Descrivendo una certa distanza dalla poppa nuotava, nell'acqua scura e luccicante, Leo, il loro cagnone. Lo chiamarono. I bambini lo chiamarono usando dei vezzeggiativi. Accanto a sé la Tobler aveva il suo ombrellino. Un cappello piumato le adornava la bella testa oblunga. Le sue mani e le braccia erano fasciate da lunghi guanti bianchi. La signorina parlava senza sosta. Ma la Tobler, che per solito non sprezzava quegli scambi di parole, rispondeva distratta a monosillabi. Pareva che in lei qualcosa di simile a una gioiosa fantasticheria della natura togliesse valore e importanza alle consuete occorrenze quotidiane e a tutti i loro discorsi. I suoi grandi occhi rilucevano belli e tranquilli intanto che la barca scivolava sull'acqua. Non era stanco di remare?, domandò aJoseph. Oh no, cosa andava a pensare, rispose lui. La signorina avrebbe voluto mettersi a vogare anche lei, ma la signora non la lasciò, allegando che altrimenti la barca avrebbe preso troppa velocità. Non ce n'era proprio bisogno, anzi, più adagio si remava più sarebbe durata la gita comunque breve, e così le piaceva, era tanto bello.

È una signora di estrazione veramente borghese; cresciuta in un ambiente lindo e operoso, in luoghi nei quali utilità e posatezza sono le doti somme. Ha avuto pochi piaceri romantici nella sua vita, e proprio per questo li ama e li apprezza nel profondo dell'anima. Le cose che deve tenere scrupolosamente celate al marito e al mondo onde non passare per un'«oca esaltata», non pertanto sono morte, anzi continuano a vivere una vita propria nell'angustia e nel silenzio. Un giorno arriverà una piccola occasione a salutare e a chiedere con gli occhi spalancati, ed ecco che ciò che era mezzo dimenticato torna vivo e caldo, ma solo per poco. Colui che può con il suo amore e la sua avidità del piacere presentarsi in pubblico, poiché le sue condizioni glielo consentono facilmente e di buon grado, si ottunde assai presto nell'anima e nel cuore spegnendo tutto ciò che prima vi ardeva. No, questa signora non ha il senso del colore o d'altro, non capisce per nulla le leggi della bellezza, ma proprio perciò sente il bello delle cose. Non ha mai avuto il tempo di leggere un libro pieno di alti pensieri, anzi non si è mai chiesta neppure una volta che cosa sia nobile e che cosa vile, ma ora l'alto pensiero viene da lei, e un sentimento più profondo, attratto dalla sua ignoranza, viene lui a inumidirle con l'ala bagnata la coscienza.

Sì, era fresco e buio tutt'intorno al lento procedere della barca. Il lago era calmissimo. Il silenzio e la calma si univano al sentire umano e alla nerezza impenetrabile della notte. Dalla riva lampeggiavano le sparse luci e provenivano alcuni rumori, tra cui una squillante voce maschile, e ora dalla spiaggia sul lato opposto si udì il suono caldo di una fisarmonica. I suoni di questa musica si avviticchiavano con sinuosità di fiore o d'edera all'oscuro corpo olezzante della quiete lacustre di quella notte estiva. Ogni cosa pareva ricevere particolare soddisfazione, appagamento e significato. La profondità si univa al liquido insondabile. La signora toccò l'acqua con la mano, disse qualcosa, ma come parlando all'acqua sotto di lei. Come li sosteneva quella bella acqua profonda. A un certo punto un'altra barca, occupata soltanto da un uomo, passò vicinissima a quella dei Tobler. La signora gettò un grido sommesso di sorpresa, anzi quasi di spavento. Nessuno aveva visto appressarsi l'imbarcazione, che sembrò balzare accanto a loro da una lontananza ignota, o dal profondo. Il cielo era interamente coperto di stelle. Come tutto s'alzava e reggeva e ruotava. La Tobler disse di avere un po' di brividi e si allargò sulle spalle uno scialle che aveva portato con sé. Joseph, guardandola, ebbe l'impressione che sorridesse nel buio, ma non avrebbe saputo distinguere esattamente. Dov'è il nostro Leo, domandò lei. Là, là. Ci viene dietro a nuoto, esclamò Walter, il fanciullo.

Monta, alzati, profondità! Sì, eccola montare cantando dalla superficie dell'acqua e formare un altro grande lago nello spazio tra cielo e lago. Non ha contorni, e non c'è occhio che possa cogliere ciò che essa raffigura. E canta, ma in suono che nessun orecchio intende. Distende le lunghe mani umide, ma non c'è mano che possa porgerle la mano. Sull'uno e l'altro lato della navicella notturna si drizza in alto, ma non c'è sapienza esistente che lo sappia. Nessun occhio vede nell'occhio della profondità. L'acqua si perde, il vitreo abisso si spalanca, e ora la navicella sembra procedere sicura e quieta suonando sott'acqua...

Dobbiamo ammettere che Joseph si era lasciato trasportare un po' troppo dalle sue fantasie. Quasi non avvertì che il viaggio era finito quando già si era toccata terra, o meglio urtato un grosso palo che sporgeva dall'acqua non lontano dall'argine di sbarco. Tobler, che era lì vicino, gridò al suo sottoposto che poteva fare un po' più di attenzione. Non capiva in che razza di paese Joseph avesse imparato a remare e pilotare. Ma non era successo niente di grave, tutti sbarcarono sani e salvi. Passarono il resto della notte in una bella birreria all'aperto, affollata, dove Tobler si imbatté in certi conoscenti, un controllore di treno con la moglie, con i quali si affaccendò in generose conversazioni. L'allegra mogliettina del ferroviere raccontò delle sue galline e delle uova e del vivace commercio di questi due fruttuosi articoli. Si rise molto. Tobler presentò Joseph agli astanti nella sua qualità di «mio impiegato». Una ragazza francese, commessa di grande magazzino, passò trotterellando davanti alla compagnia. «Une jolie petite française» disse la moglie del controllore, evidentemente divertita di poter ripescare dalla memoria qualche parola francese. È sempre così nei paesi di lingua tedesca: la gente si compiace di dare a vedere che capisce il francese.

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Questo Johannes Fischer aveva risposto all'annuncio «Per capitalisti» scrivendo che sarebbe con ogni probabilità passato presto a Bärensweil allo scopo di esaminare le invenzioni da brevettare.

Che calligrafia delicata, femminile quasi, aveva quell'uomo. La scrittura di Tobler, viceversa, sembrava tracciata col bastone da passeggio. Le persone in possesso di una calligrafia leggera e sottile facevano subito presagire grandi ricchezze. Quasi tutti i capitalisti scrivevano come quell'uomo: con precisione e al contempo con una certa negligenza. La calligrafia corrispondeva interamente a una postura del corpo elegante e disinvolta, a un tentennare quasi impercettibile del capo, a un movimento calmo ed eloquente della mano. Era allungata, codesta scrittura, ne emanava una tal quale freddezza: chi scriveva così era certo l'opposto di un temperamento focoso. Quelle poche parole: brevi e garbate nello stile. Gentilezza e concisione si estendevano persino al formato minuto della candidissima carta da lettera. Addirittura profumato si presentava in assenza questo signor Johannes Fischer. Purché non arrivasse oggi. Tobler se ne sarebbe vivamente dispiaciuto, anzi c'era anche caso che s'infuriasse e desse in escandescenze. Del resto aveva dato disposizione di mostrare e spiegare tutto con ordine a quel signore, e soprattutto aveva raccomandato a Joseph di non lasciarlo ripartire in nessun caso, cercando di trattenerlo finché Tobler non fosse rientrato. Poteva anche essere che a quel forestiero evidentemente distintissimo si riuscisse a offrire una tazza di caffè, non era affatto detto che fosse cosa troppo al di sotto della sua dignità. Un capanno grazioso come quello che Tobler aveva nel giardino doveva essere per chiunque, anche per una persona altolocata e di rango, oggetto di tranquilla contemplazione e di piacere. Arrivasse pure alla svelta questo capitalista, c'era bene, pensò Joseph, di che accoglierlo.

Eppure Joseph era un po' in ansia.

D'altronde si stava davvero bene lì, quando il principale era via. Un principale come quello, fosse pure la persona più affabile del mondo, rimaneva comunque un motivo di preoccupazione costante. Se era di buon umore, si aveva sempre paura che sopravvenisse qualcosa a turbare la gaiezza del padrone mutandola nel suo opposto. Se era astioso e pungente, si aveva l'obbligo più che ingrato di sentirsi un malandrino e di considerarsi causa involontaria del malumore. Se era calmo ed equilibrato, si aveva il compito di non arrecare il minimo danno a quell'essere misurato, ché non si sentisse leso da una screpolatura o da un graffietto. Se il padrone era di umore scherzevole, ci si mutava immediatamente in un barboncino e bisognava imitare questa allegra bestiola afferrando al volo lazzi e sconcezze. Se era benevolo, ci si sentiva un miserabile; se era grossolano, ci si vedeva in obbligo di sorridere.

La casa intera era diversa quando il padrone non c'era. Anche sua moglie pareva un'altra, e i bambini, soprattutto i due maschi, gli si leggeva in faccia il piacere per l'assenza del padre severo. Veniva meno un motivo di timore, quando Tobler era via. E altresì un motivo di tensione e di gravità.

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Joseph entrò in una delle case nuove, che conferivano un aspetto singolare a quel luogo quasi di campagna, salì le scale fino al terzo piano, si fermò, per decoro riprese fiato e si spolverò un po' gli abiti, quindi suonò. La porta si aprì, e la donna che apparve sulla soglia, vedendo l'assistente, gettò un grido soffocato di sorpresa.

«È lei, Joseph? È lei? Venga».

La donna, porgendogli la mano, trasse Joseph in camera sua. Qui lo guardò piuttosto a lungo negli occhi, tolse dalla testa del giovane che stava lì impacciato il cappello e sorridendo disse:

«Quant'è che non ci vediamo. Si sieda».

Dopo un istante disse:

«Vieni, Joseph, vieni. Siediti qui alla finestra. E ora raccontami. Devi dirmi come hai fatto a vivere un bel pezzo senza scrivermi manco una parolina e senza venirmi manco una volta a trovare. Bevi? Dimmelo pure. Ho ancora un resto di vino nel fiasco».

Lo trasse a sé alla finestra, e lui cominciò a raccontarle della fabbrica di tessuti elastici, della sterlina inglese, del periodo di leva e della ditta Tobler. Da basso, sul prato di periferia, una frotta di bambini giocava e strillava nella luce del sole serale. Di quando in quando si udiva il fischio ravvicinato di una locomotiva, o la voce di un ubriaco che cantava e berciava, uno di quei compari che la domenica sera si distinguevano urlando suoni osceni e per così dire roventi.

Il nome e la storia della donna, che adesso stava ascoltando il giovane conoscente, sono semplicissimi.

Si chiamava Klara ed era figlia di un carpentiere. Per caso era originaria della stessa regione di Tobler e ne conosceva abbastanza la giovinezza. Aveva ricevuto una rigida educazione cattolica, ma dal momento in cui si affacciò al mondo le sue idee cambiarono completamente, ed essa si diede alla lettura di scrittori liberali come Heine e Börne. Lavorò in uno studio fotografico, dapprima come ritoccatrice, poi al ricevimento e alla contabilità; il principale si innamorò di lei, e lei gli si diede, non senza pensare alle conseguenze di quel gesto spregiudicato, anzi affrontandolo risoluta e a viso aperto, e fu molto felice. Abitava ancora nella casa paterna, una sorella più giovane era frattanto morta di consunzione. Al lavoro andava ogni giorno e tornava a casa in ferrovia, un'ora e un quarto di viaggio. Fu a quell'epoca che ebbe le prime visite di Joseph. Trovava gradevole quel giovane allora neppure ventenne e le piaceva stare a sentire i suoi sfoghi giovanilmente immaturi.

Si viveva allora in un mondo e in un tempo singolari. Con il nome di «socialismo» si era insinuata nelle menti e avvinghiata ai corpi, anche a quelli d'uomini anziani e vissuti, alla maniera d'un rampicante rigoglioso, un'idea insieme sconcertante e suadente, di modo che chiunque avesse nome di poeta o scrittore, chiunque fosse giovane e avventato nel decidere e nell'agire affannava intorno a quell'idea. Giornali pieni di slancio e carattere spuntavano come fiori dai colori fiammanti e di profumo inebriante dalla tenebra degli spiriti intraprendenti e si presentavano all'opinione pubblica stupita e compiaciuta. Gli operai e i loro interessi, allora, trovavano accoglienza più rumorosa che seria. Si organizzavano spesso cortei in testa ai quali marciavano anche donne agitando alte nell'aria delle bandiere rosso-sangue o nere. Chiunque fosse scontento dello stato e dell'ordine del mondo si univa speranzoso e lieto a quell'appassionato movimento di idee e sentimenti, e ciò che il gusto dell'avventura di una certa genia di urlatori, schiamazzatori e fanfaroni riusciva a ottenere, era per un verso di esaltare boriosamente il movimento e per l'altro di abbassarlo nello squallore quotidiano: cosa che ben vedevano i nemici di quel «pensiero» con una sorta di sorriso divertito e beffardo. Il mondo intero, l'Europa e gli altri continenti, si diceva allora fra gli spiriti giovani e immaturi, quell'idea raccoglieva e univa gli uomini in una adunanza gioiosa, ma solo chi lavora ha il diritto, eccetera.

Joseph e Klara a quel tempo vennero investiti da quel bel fuoco, fors'anche nobile, che a loro comune giudizio nessun getto d'acqua o calunnia avrebbe potuto spegnere, e che, alla maniera d'un cielo rosseggiante, si stendeva su tutto il globo rotante della terra. Entrambi amavano, come allora andava di moda, l'«umanità».

Passavano ore e ore, fino a notte inoltrata, nella stanzina abitata da Klara nella casetta paterna, parlando di scienze e di cose di cuore, e Joseph, per quanto timido fosse generalmente nei suoi rapporti umani, era quello che parlava di più, com'era in fondo giusto, dal momento che l'amica era per lui una persona superiore, una maestra innanzi alla quale lui enumerava ed esponeva i propri pensieri più o meno come una lezione di scuola mandata a mente. Com'erano belle quelle serate. Quando s'avviava per andare a casa, la donna, allora non più d'una ragazza, gli faceva lume dall'alto della scala e con voce soave gli diceva addio e buona notte. Come le lucevano gli occhi, mentr'egli piegandosi indietro la guardava un'ultima volta.

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Gli abitanti di Bärenswil o Bärensweil sono gente bonaria, ma al contempo alquanto subdola o, come forse suona l'espressione esatta, simulatrice. Più o meno tutti sono dei furbi di tre cotte, hanno tutti, chi più chi meno, delle proprietà nascoste o segrete che consentono loro di guardare al mondo con una tal quale smaliziata scaltrezza. Sono schietti e morali e non privi d'orgoglio, sono avvezzi da secoli a una sana libertà civile e politica. Ma alla schiettezza accoppiano una certa apparenza di astuzia e di mondanità e amano cercar con gli occhi altre e sempre nuove accortezze. Si vergognano tutti un po' della loro robusta rettitudine naturale, e ognuno di essi preferisce essere «cattivo come un cane» piuttosto che tonto come un allocco che si lascia menare per il naso. I bärenswilesi non si lasciano menare facilmente per il naso, ne sia avvisato chiunque ci voglia provare. Sono paste d'uomini se li si rispetta, ché hanno in corpo una buona dose d'onore, stante che da secoli, eccetera. Però hanno anche vergogna della loro bontà come di quasi ogni altra manifestazione di sentimento. Ridono coi molari, mentre altri uomini e nazioni ridono con le labbra; chiacchierano più con le orecchie ritte che con lingua disinvolta; tacciono volentieri, ma a volte si mettono a vantarsi come dei veri marinai, manco fossero tutti venuti al mondo con una parlantina da osteria. Dopodiché tacciono per quattro settimane intere. In genere si conoscono perfettamente, calcolano dove risiedono i loro pregi e dove i difetti, e propendono sempre per lasciar sfolgorare in pubblico le loro debolezze piuttosto che le qualità, di modo che nessuno venga a sapere quanto sono accorti. Così riescono a combinare affari ancor migliori. Nei dintorni si dice, e non senza fondamento, che siano rozzi come diavoli, ma tra loro si trovano sempre un paio di maldicenti, e per via di queste poche eccezioni i bärenswilesi devono sentirsi dire più d'una parolina insolente e ingiusta. Hanno molta fantasia, e gran voglia di farne uso; gli sconvenienti tra loro se ne vantano spesso oltre il lecito, sicché hanno cattiva nomea nel resto del Paese. Ma soprattutto, caro padron Tobler, sono freddi e lucidi, una razza che pare fatta apposta per fare affari modesti ma sicuri e pure con successo. Le case che abitano sono pulite come loro stessi, le strade che costruiscono sono un pochino scabre, proprio come loro, e la luce elettrica che la sera illumina le vie del loro paese è pratica, anch'essa esattamente come loro. E in mezzo a gente così doveva cascare padron Tobler.

Il signor ingegnere Tobler!

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Eppure tutt'e quattro le stagioni hanno un loro suono e odore. La primavera, a vederla, si crede di non averla mai veduta così, mai così speciale. D'estate il rigoglio estivo appare ogni anno nuovo e incantevole. L'autunno non lo si era mai guardato bene prima d'ora, solo quest'anno, e d'inverno l'inverno è tutto nuovo, tutto, tutto diverso da un anno fa o da tre. Sì, anche gli anni hanno una loro nota e un loro profumo. Aver passato l'anno in questo e quel luogo vuol dire averlo visto e vissuto. Luoghi e anni sono legati tra loro, e i fatti e gli anni allora? Ciò che uno ha vissuto dà a un decennio un colore nuovo, a maggior ragione e tanto più rapidamente un anno breve. Un anno breve? Joseph non è per nulla soddisfatto di questa espressione. Or ora, ritto davanti alla villa, sovrappensiero, ha detto: «Che anno è questo, come è lungo e pieno».

E questa lunghezza, per lui, non era passata rapida, solo quando vi pensò gli parve che avesse avuto ali, penne e levità di piume. Si era a metà novembre, ma a ben considerare, lui già nel maggio aveva mostrato al mondo questo viso e questi modi e questi pensieri. Era, come diceva la sua amica Klara, cambiato poco.

E il mondo, cambia? No. L'aspetto invernale può rovesciarsi sul mondo estivo, dall'inverno può farsi la primavera, ma la faccia del mondo è rimasta immutata. Mette e depone maschere, corruga e spiana la bella fronte spaziosa, sorride o si corruccia, ma resta immutato. Ama il belletto, si tinge ora sgargiante ora opaco, ora è acceso e ora smorto, non è mai lo stesso, cambia sempre un poco ma rimane pur sempre ugualmente vitale e irrequieto. Lampeggia lampi dagli occhi e tuona con voce stentorea il suo tuono, piange pioggia a catinelle e sospinge sulle sue labbra un sorriso di neve pulita e luccicante, ma nei lineamenti del volto non si altera punto. Solo di quando in quando gli attraversa la calma superficie il fremito d'un terremoto, una grandinata, una inondazione o un'eruzione vulcanica, oppure sussulta e rabbrividisce internamente di struggimenti e spasimi cosmici e terreni, ma rimanendo immutato. Immutate restano le contrade, benché le vedute di città si estendano e arrotondino, tuttavia levarsi in volo e cercare altri luoghi, da un'ora all'altra, nemmeno le città possono farlo. Fiumi e torrenti scendono da millenni per lo stesso corso, possono insabbiarsi ma non precipitarsi improvvisi fuori dai loro letti alla levità dell'aria aperta. L'acqua deve aprirsi una via per grotte e canali. Scorrere e scavare è sua antichissima legge. E i laghi posano dove da tempo immemorabile posano. Non balzano verso il sole e non giocano a palla come i fanciulli. Talvolta si sollevano sconvolgendo con sibili rabbiosi le acque e le onde, pure né si mutano un giorno in nubi né in cavalli selvatici una notte. Ogni cosa dentro e sulla terra ubbidisce a belle leggi rigorose, come gli uomini.

Intorno a casa Tobler si era dunque fatto inverno.

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Otto giorni dopo dovette tornare in città, per consegnarsi agli arresti. Aveva da scontare due giorni di arresto per non aver preso parte alle esercitazioni autunnali. Si presentò in caserma all'ora indicata, gli ritirarono i documenti militari e lo condussero in carcere. Qui stavano una quindicina di uomini più e meno giovani, seduti sulle brande su cui avevano allargato i loro cappotti; tutti squadrarono il nuovo arrivato. Ogni sorta di cattivi odori ristagnavano in quello stanzone, che con la finestra inferriata si affacciava sul piano stradale. «Almeno ho da fumare» pensò Joseph, e cominciò a sistemarsi alla meglio su una delle brande. In breve tutti i reclusi gli rivolsero la parola in variegata successione. Erano uomini d'ogni risma che avevano da scontare punizioni simili a quella dell'assistente. Tutti quanti imprecavano. O si trattava di un alto ufficiale che l'aveva fatta grossa, o di una risposta per le rime data a un qualche funzionario statale o civile. Le facce di tutti quei quindici o sedici uomini esprimevano noia, appetito di libero movimento e insofferenza dell'apatia regnante in quello stanzone. C'erano dei ragazzi lì rinchiusi da settimane, uno, un mungitore, addirittura da mesi.

Qui accanto al figlio dell'albergatore che aveva viaggiato in America c'era il tappezziere, accanto al muratore e al manovale il fattorino, accanto al mungitore di vacche il ricco mercante ebreo, accanto al fabbro il fornaio. Nessuna di quelle quindici persone assomigliava all'altra, tutte però si assomigliavano nel modo di imprecare e di darsi buon tempo. La presenza di persone colte e benestanti si spiegava con la legge che escludeva la commutazione della detenzione in pena pecuniaria, sicché qui regnava un'eguaglianza di trattamento che nella vita libera e indomita si cercherebbe a lungo senza risultato.

A un certo punto si organizzò un gioco che, come parve a Joseph, stava regolarmente all'ordine del giorno. Si chiamava «del battiprosciutto» e consisteva nella somministrazione di pacche alquanto brutali della mano aperta sul fondoschiena di chi era designato a porgere il medesimo ai colpi spietati. Uno che non partecipava al gioco doveva chiudere gli occhi della vittima in modo che questa non potesse sapere da chi venivano i colpi e le busse. Se ciononostante riusciva a indovinare chi lo aveva percosso, era libero, mentre colui che era stato scoperto era tenuto, volente o nolente, a curvarsi prendendo lo scomodo posto dell'altro finché non gli toccava, dopo brevi o reiterati sforzi, la sorte di indovinare a sua volta.

Si giocò intensamente per un'ora buona, finché le mani furono stanche di picchiare. Dopo qualche tempo arrivò il mangiare, santo cielo, era proprio vitto carcerario, niente fagioli, rape o cavolfiore, nemmeno un piccolo filetto di maiale, ma zuppa con un pezzo di pane, sciapo pane secco accompagnato da un sorso d'acqua. Anche la zuppa era acquosa, e per di più i cucchiai erano alquanto disgustosamente fissati con una catenella alle gamelle, come se a qualcuno potesse venire in mente di rubarli, e non se ne vedeva il motivo. Ma era pratica, quella catenella, e insieme militaresca e offensiva, e del resto i carcerati non erano lì per essere lusingati, blanditi e accarezzati. «Ad azione spregevole pena spregevole»: questo era come se stesse scritto, chiaro e gelido, sulle gavette.

Due giorni di tedio e di vuoto!

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