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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE 7 di Edoarda Masi IL MOVIMENTO SOCIALE DEL 1989 E LE RADICI STORICHE DEL NEOLIBERISMO CINESE 15 I. Le condizioni storiche del movimento 19 sociale del 1989 e le spiegazioni antistoriche del «neoliberismo» II. Gli anni Novanta: i tre stadi del 55 pensiero e i loro problemi principali III. Globalizzazioni alternative e 99 la questione del moderno Note 124 IL PENSIERO CINESE CONTEMPORANEO E 133 LA QUESTIONE DELLA MODERNITÀ Note 187 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Sembra che il ventesimo secolo sia finito un po' in anticipo, precisamente nel 1989, sebbene da allora la storia abbia proseguito il suo corso. Agli eventi di quell'anno a Pechino seguì la disintegrazione dell'Unione Sovietica e dell'Europa orientale e l'avvio del processo politico ed economico che ha portato il neoliberismo a dominare il mondo. La società cinese non subì la disintegrazione dell'Unione Sovietica e dell'Europa orientale, pertanto la trasformazione sociale in Cina fu caratterizzata da una certa continuità. Dovendo riassumere questo processo in maniera semplice e perciò incompleta, potremmo dire che la società cinese ha promosso il processo di espansione del mercato conservando il sistema di potere politico statale, e che sotto la guida della politica statale è diventata parte attiva nel sistema economico mondiale. Questa combinazione di continuità e discontinuità ha definito la natura del neoliberismo cinese. Il neoliberismo dipende senz'altro dal potere economico e dalla forza della politica nazionale e sovranazionale, ma per rendere egemonico il proprio discorso ha potuto contare anche su un apparato teorico e su una teoria economica formalizzati. Gli aspetti apolitici, o persino antipolitici del neoliberismo (o il suo metodo antistorico e l'antagonismo verso l'ideologia socialista tradizionale) non oscurano affatto la sua solida connessione con la politica economica statale. Senza queste premesse politiche, il neoliberismo non avrebbe potuto utilizzare il mito della «transizione» per nascondere la realtà della disoccupazione, la scomparsa della sicurezza sociale, l'aumento del numero dei poveri e altri aspetti della divisione sociale. La nozione di «transizione» – che presuppone un rapporto necessario tra l'attuale sistema di disuguaglianza e un ideale ultimo — rappresenta il non detto fondamentale e la premessa del discorso contemporaneo sulla società cinese. Per questa ragione, è del tutto fuori luogo usare l'argomento dell'ingerenza statale per evitare di riconoscere l'egemonia del neoliberismo. Lo stato ha usato la liberalizzazione economica per superare la propria crisi di legittimità, e in questo processo ha preso forma il ruolo egemonico del neoliberismo cinese. A livello teorico, le espressioni neoautoritarismo, neoconservatorismo, liberismo classico, politiche rigorose di mercato e di modernizzazione, nonché le diverse narrazioni storiche, come ad esempio le definizioni di nazionalismo che più si avvicinano al discorso della modernizzazione, hanno tutte un rapporto di qualche tipo con la costituzione del neoliberismo. Le successive sostituzioni (o le contraddizioni) di questi termini tra di loro stanno a indicare i cambiamenti nella struttura del potere tanto nella Cina contemporanea quanto nel mondo in generale. Il neoliberismo, in quanto ideologia e ordine del discorso dominante, non ha alcuna capacità di descrivere gli attuali rapporti sociali ed economici, ma non ne è neanche del tutto separato. In quanto ideologia sovrapposta alla politica nazionale, che si tratti dell'opinione degli intellettuali o dei valori diffusi dai media, il neoliberismo usa concetti attinenti a quelli di «transizione» e «sviluppo» per rimediare alle sue contraddizioni interne. Pertanto, il modo più efficace per rivelare le contraddizioni interne del neoliberismo consiste nello stabilire i nessi storici tra il suo discorso teorico (che include termini quali libero mercato, sviluppo, globalizzazione, benessere diffuso, diritti di proprietà) e l'effettivo sviluppo sociale. Ciò permetterà di chiarire i rapporti complessi tra il discorso e l'effettiva pratica del neoliberismo. È evidente che in parti diverse del mondo contemporaneo, quali Stati Uniti, Europa occidentale, Russia o Cina il neoliberismo ha radici e configurazioni sociali proprie. Date queste differenze nelle condizioni storiche, non si possono trarre conclusioni convincenti riguardo al neoliberismo se lo si considera ad un livello meramente astratto. Uno degli obiettivi di questo saggio è quello di esporre attraverso un'analisi storica i particolari fattori interni e internazionali, compresa la situazione ideologica e l'atmosfera nell'opinione pubblica cinese e mondiale, che hanno fatto sì che il neoliberismo diventasse discorso egemonico. Saranno anche analizzate le diverse forme del liberismo cinese e le loro contraddizioni interne, oltre agli sviluppi teorici e alle pratiche critiche nate intorno al neoliberismo. Le pratiche critiche e i movimenti sociali che prendono di mira il neoliberismo comprendono un certo numero di elementi chiave che sono in contraddizione tra loro – alcuni radicali, altri moderati e altri ancora conservatori. È mia opinione che il compito principale delle forze progressiste nella Cina contemporanea sia quello di evitare che queste critiche prendano una direzione conservatrice (inclusi i tentativi di ritornare al vecchio sistema) e di premere affinché questi elementi si trasformino in una forza orientata all'ampliamento della democrazia e della libertà, sia in Cina che nel mondo. Sarebbe necessario spiegare in che modo le riforme economiche realizzate tra il 1978 e il 1989 hanno rappresentato una trasformazione su una scala così estesa che definirle «rivoluzionarie» non è poi esagerato. Questo breve saggio non può cogliere tutto lo spettro dei risultati ottenuti e delle relative crisi interne nel periodo considerato, così come non può fornire una descrizione dettagliata della crescita del movimento sociale del 1989, poiché ogni aspetto particolare richiederebbe l'apporto di esperti e una meticolosa analisi dei fatti. Quel che mi propongo di fare in questa sede è soltanto ricostruire e comprendere l'orizzonte storico delle sfide che la Cina deve affrontare, attraverso un'analisi preliminare delle basi del movimento sociale del 1989. | << | < | > | >> |Pagina 19Il movimento del 1989 ha avuto una profonda influenza non soltanto in Cina ma in tutto il mondo. Sia in Cina che all'estero, tanto nella propaganda ufficiale quanto nelle analisi e nei resoconti scritti per il pubblico straniero, la gran parte del dibattito relativo a questo evento si è concentrata sul movimento studentesco e sulle deliberazioni degli intellettuali, oppure sui processi decisionali della politica ad alto livello. Persino le analisi della cosiddetta società civile si sono concentrate soprattutto su realtà economiche come la Stone Company o sul ruolo svolto dai «gruppi» di intellettuali pechinesi durante questo movimento. Il movimento del 1989, tuttavia, è stato un esempio di mobilitazione sociale su larga scala, spontanea e diffusa ovunque, a dimostrazione delle sue origini socialmente molto più estese di quelle riconducibili a qualsivoglia organizzazione. In realtà, il movimento illuminista per la liberazione intellettuale degli anni Ottanta ha contribuito notevolmente alla dissoluzione della vecchia ideologia, fornendo anche il materiale grezzo per la ribellione. Tuttavia, gli intellettuali come categoria, non solo non hanno saputo indicare obiettivi sociali concreti, ma non hanno neanche mai capito l'ampiezza della mobilitazione sociale in atto. In parte perché, come movimento intellettuale critico verso le pratiche del socialismo di stato, il pensiero sociale degli anni Ottanta non poteva percepire né comprendere le contraddizioni sociali tipiche del tempo. Non poteva neanche capire le tendenze socialiste proprie del profondo movimento sociale né trascendere i limiti intellettuali imposti dall'ideologia della guerra fredda. Bisogna distinguere tra due concezioni del socialismo: il «socialismo» della vecchia ideologia di stato, caratterizzato da un sistema di monopolio statale, e il movimento per la sicurezza sociale prodotto da questo sistema di monopolio statale e dall'espansione del sistema dell'economia di mercato, un movimento caratterizzato dall'opposizione al monopolio e dalle richieste di democrazia sociale. Nel contesto internazionale successivo alla guerra fredda e nel clima di riflessione sulle pratiche «socialiste», questo movimento volto al mantenimento della sicurezza sociale, così profondamente radicato nelle contraddizioni della società, avverso al monopolio e desideroso di democrazia, non è stato compreso appieno. La mia personale analisi del movimento sociale del 1989 si fonda sui seguenti tre punti: Primo: tra la metà degli anni Ottanta e il 1989 sono apparsi in Cina numerosi movimenti studenteschi (incluso il movimento del 1986 che ha portato alle dimissioni di Hu Yaobang), che furono però di piccole dimensioni, e non portarono ad ampie mobilitazioni sociali. Come mai allora, data questa condizione, il movimento studentesco sorto in occasione della morte di Hu Yaobang (il 15 aprile 1987) ha visto una così ampia partecipazione e mobilitazione a tutti i livelli della società e su scala nazionale? E poi, come mai, a partire dall'inizio di maggio dello stesso anno, organi nazionali di informazione come la Televisione centrale, The People's Daily, l'agenzia di stampa Nuova Cina, Guangming Daily e simili diedero ampio spazio al movimento? Ciò stava ad indicare un «periodo di libertà di stampa» all'interno degli organi di propaganda dello stato, raro nella storia della Cina contemporanea, il quale a sua volta ha svolto un ruolo di primo piano nel promuovere la mobilitazione dell'intera nazione e della societa. Secondo: che rapporto c'era tra le richieste del movimento studentesco e quelle degli altri settori della società? Sollevo questa questione dal momento che quello del 1989 non è stato solo un movimento studentesco, ma un ampio movimento sociale — che ha visto partecipare lavoratori, singoli imprenditori, quadri dello stato, insegnanti e altri gruppi sociali. Persino funzionari dell'apparato centrale del Partito, del Congresso Nazionale del Popolo e dei vari organi del Comitato Consultivo Nazionale del Popolo (compresi dei «portavoce» come The People's Daily, l'agenzia di stampa Nuova Cina e Guangming Daily) vi presero parte. In generale, si può affermare che a parte le classi contadine, che non parteciparono direttamente, tutti gli altri livelli della società — specialmente la popolazione delle medie e grandi città — furono coinvolti in questo movimento. Non è difficile capire perché parteciparono gli intellettuali, i lavoratori e altri gruppi sociali, ma bisogna chiedersi come mai nello stesso tempo si palesò una lotta dello stato contro lo stato o, più precisamente, emersero delle contraddizioni nel funzionamento dello stato (contraddizioni nate tra l'apparato statale nel suo insieme e alcuni dei suoi settori costitutivi, in seguito a rapporti di potere, conflitti di interesse e valori differenti). Terzo: come mai venne criticato il processo di riforma se la società, a vari livelli, sosteneva la riforma? Chi, o che tipo di situazione sociale, era l'oggetto delle critiche? Quali fattori erano costitutivi dell'ideologia della mobilitazione sociale? Per poter rispondere a queste domande occorre anzitutto riassumere brevemente il processo delle riforme in Cina dopo il 1978. Le riforme sociali avvenute tra il 1978 e il 1989 possono esser divise in due fasi: le riforme nell'agricoltura del periodo tra il 1978 e il 1984 e le riforme nei centri urbani, avvenute successivamente. | << | < | > | >> |Pagina 179IL PENSIERO CRITICO NELL'EPOCA DEL CAPITALISMO GLOBALEGli eventi più importanti della fine del ventesimo secolo sono stati il fallimento del socialismo in Europa orientale e il riorientarsi della Cina verso il mercato globale mediante le «riforme socialiste». Questi eventi hanno posto termine al conflitto che nella guerra fredda ha visto opporsi due diverse ideologie. Questo crocevia della storia ha ispirato profezie di ogni tipo sul ventunesimo secolo: questo secolo sarà l'epoca di una nuova rivoluzione produttiva, sarà il secolo in cui i problemi della sovrappopolazione e del tenore di vita verranno finalmente risolti, sarà un'epoca di rinascimento religioso e culturale, e ancora un'epoca che vedrà l'attività economica trovare un nuovo centro di gravità sulle rive del Pacifico. Samuel Huntington ha sostenuto, nel suo Lo scontro delle civiltà, che il conflitto tra i popoli del mondo contemporaneo non avverrà più su basi ideologiche o economiche, ma culturali. Nella politica mondiale lo stato-nazione sarebbe ancora l'attore primario, ma i conflitti significativi sarebbero quelli che oppongono popoli e stati appartenenti a civiltà diverse. Il conflitto fra le civiltà diventerebbe quindi il fattore dominante della politica mondiale. Non intendo discutere tali previsioni in questa sede (altri hanno già sollevato il problema della possibilità che nel contesto della politica mondiale gli stati pongano i valori culturali al di sopra degli interessi economici e politici). Voglio semplicemente sollevare un problema diverso. Nell'epoca successiva alla guerra fredda, la Cina e altri paesi socialisti sono diventati attori primari, se non addirittura i più dinamici, nel mercato capitalista mondiale, al punto che l'Asia potrebbe essere in procinto di abbandonare una posizione che nel precedente sistema capitalista mondiale è stata tradizionalmente periferica, e diventare il centro economico del nuovo ordine mondiale capitalista. In queste circostanze, come dovremmo valutare le contraddizioni interne al modo di produzione capitalista nel ventunesimo secolo? Per esempio, quali saranno i rapporti fra il capitale statale, quello privato e quello estero nel corso della conversione della Cina a un regime di mercato? Quali rapporti si stabiliranno tra le classi emergenti e gli altri gruppi sociali? E tra le popolazioni urbane e quelle rurali? Tra le regioni costiere ad alto sviluppo e il loro hinterland arretrato? Tutti questi rapporti sociali vanno collocati nel contesto del mutamento dei rapporti produttivi, e in particolare nel contesto dei loro stessi rapporti con il mercato. Il quesito fondamentale da porsi riguarda il modo in cui questi cambiamenti radicali modificheranno a loro volta tanto la società cinese quanto il mercato mondiale capitalista. Nell'epoca del capitalismo multinazionale, si può ancora sostenere che questi «rapporti interni» abbiano qualche rilevanza? Riprendo a questo proposito il monito di Max Weber, il gigante della teoria liberale, il quale sosteneva che il principio di razionalità del capitalismo moderno avrebbe condotto inevitabilmente a un sistema in cui alcuni esercitano il proprio dominio sugli altri. In un contesto del genere, nulla, sosteneva lo stesso Weber, sarebbe stato in grado di estirpare la speranza fiduciosa nel socialismo. Che rilevanza possono ancora avere queste parole, oggi che il movimento socialista tradizionale ha prodotto una profonda crisi sociale e la conclusione della guerra fredda sembra aver decretato il suo definitivo fallimento? La questione è particolarmente complessa, dal momento che il socialismo cinese, tanto come metodo quanto come realizzazione della modernizzazione cinese, ha effettivamente prodotto un sistema di organizzazione sociale. Anzi, per ciò che riguarda il dominio statale sulla società e i suoi componenti, esso si è dimostrato più duro di qualsiasi organizzazione sociale sia stata prodotta da un regime capitalista. Le critiche della modernità formulate da Weber e da Marx si fondavano sull'osservazione e la comprensione del capitalismo a loro contemporaneo. Il nostro compito oggi è quello di collegare la nostra critica della vicenda del socialismo cinese ad una critica della modernità, senza dimenticare che il problema stesso della modernità è stato originariamente posto come un problema specifico del capitalismo europeo e della cultura ad esso sottostante. L'espansione di una società di mercato e il conseguente monopolio delle risorse sociali darà automaticamente vita a un movimento, per quanto spontaneo e disorganizzato, volto alla protezione dei diritti sociali. Il conflitto fra queste forze è stato il motore delle più gravi crisi sociali del diciannovesimo e del ventesimo secolo, comprese due guerre mondiali. Lo stesso conflitto è altresì all'origine degli impulsi fondamentali che spingono i moderni sistemi sociali ad un tentativo di autoriforma. Il movimento socialista moderno è stato il prodotto di un'analisi delle contraddizioni interne del capitalismo e del desiderio di superare queste contraddizioni, ma nella pratica il socialismo non solo non è riuscito a portare a termine la sua missione, ma è stato assorbito dal capitalismo globale. Nel contempo, il capitalismo ha mutuato dal socialismo e da vari movimenti volti alla salvaguardia dei diritti sociali spunti di riforma e autocritica tali che oggi risulta impossibile definire il socialismo o il capitalismo facendo riferimento alla loro forma originaria fondata sull'unità e l'autonomia dello stato-nazione. Pertanto, il nostro impiego di concetti come globalismo o capitale globale per descrivere i mutamenti del mondo contemporaneo non implica in alcun modo che la struttura e il funzionamento del capitale monopolista sia in grado di rappresentare integralmente il mondo contemporaneo. Ciò perché i sistemi sociali e politici europei e americani includono già elementi derivati dal socialismo stesso, come dai movimenti per la protezione dei diritti sociali. Inoltre, assieme a questi elementi ormai insiti nella pratica sociale dobbiamo tener conto degli elementi di quella che Braudel definisce «civiltà materiale», vale a dire di quelle cose che sono rimaste immutate nella vita quotidiana ed hanno, nel lungo periodo storico, assunto connotati di permanenza. Da questo punto di vista, dal momento che ci troviamo ancora in uno stadio in cui la modernizzazione rappresenta un obiettivo storico, il socialismo cinese va ripensato tenendo conto non solo delle esperienze trascorse ma anche dei problemi del presente e degli esiti futuri. Il socialismo tradizionale non è stato in grado di superare la crisi della modernità, sicché tanto il marxismo quanto il neoilluminismo si dimostrano, proprio in quanto ideologie della modernizzazione, virtualmente prive di efficacia e incapaci di formulare ipotesi adeguate alla comprensione delle vicende mondiali contemporanee. È in questo preciso frangente che si colloca l'imperativo di ripensare la questione cinese. Gli intellettuali cinesi sono attualmente occupati nella discussione dei problemi della globalizzazione, mentre i media occidentali discutono del nazionalismo cinese. La maggioranza degli intellettuali cinesi tuttavia colloca la globalizzazione nel contesto di un ideale confuciano di armonia universale. Questo tipo di universalismo, a mio avviso, non è però null'altro che un'ennesima versione dell'ormai secolare sogno modernizzatore di «mettersi al passo con il mondo». In questa visione è ancora possibile scorgere qualche spunto delle «prospettive di una confucianizzazione del mondo». Un gruppo di giovani, per contro, a fini largamente commerciali, ha prodotto best seller quali La Cina può dire no, facendo sorgere nelle società occidentali, già estremamente incerte, timori di un nazionalismo cinese e di una chiaramente esagerata «minaccia cinese». Il successo di questa operazione commerciale ha indotto parte dei media occidentali a credere che l'ondata del nazionalismo cinese abbia assunto caratteristiche di xenofobia estrema. Questo assunto peraltro trascura totalmente gli aspetti commerciali che attengono alla pubblicazione e alla diffusione del libro in questione. È comunque vero che fin quando non verrà del tutto meno il sistema degli stati-nazione, non sparirà il nazionalismo come fondamento essenziale dell'unità nazionale stessa. Va tenuto presente, inoltre, che le politiche del nazionalismo contemporaneo differiscono in modo significativo da quelle del nazionalismo tradizionale. Piuttosto che vedere il nazionalismo come un elemento che si oppone alla globalizzazione, è opportuno considerarlo un prodotto secondario di quest'ultima. Ogni analisi del nazionalismo deve infatti essere collegata all'ordine politico ed economico globale e non può essere svolta a prescindere da questo ordine. È possibile che nel ventunesimo secolo la Cina si tramuti in una società di mercato avanzata, ma è impossibile che essa diventi una nuova potenza egemone globale. Le posizioni economiche, politiche e militari degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica erano il prodotto della guerra fredda, e dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica stessa, la Nato è diventata la forza militare dominante sulla scena mondiale. Nel prossimo futuro non vi sono altri paesi in grado di conseguire questo tipo di potere militare egemonico. Se nel considerare il nazionalismo contemporaneo si trascura la prospettiva economica, politica e militare globale, diventa irrilevante appoggiare o avversare con decisione i movimenti nazionalisti: entrambe queste posizioni trascurano un aspetto che va considerato cruciale. Gli studiosi che considerano la globalizzazione come un nuovo ordinamento mondiale dimenticano che questo ordine ha avuto una lunga gestazione. In quanto fenomeno dovuto all'ascesa del capitalismo, esso è già passato attraverso più di uno stadio. Nel periodo del mercantilismo, antecedente la rivoluzione industriale (1500-1800), il capitale mercantile ha dominato l'area atlantica, trasformando parte di essa (ad esempio le Americhe) in periferie dell'Europa. Nel periodo cosiddetto classico, che ha origine nella rivoluzione industriale e nello sviluppo del capitalismo occidentale (1800-1945), l'Asia (eccetto il Giappone), l'Africa e il Sudamerica sono state spinte alla periferia del capitalismo occidentale stesso che le ha integrate nella divisione globale del lavoro per mezzo delle loro attività agricole e minerarie. E in questo periodo che è cresciuto all'interno degli stati-nazione borghesi un settore industriale, mentre sorgevano nel contempo movimenti di liberazione nazionale nei paesi periferici. L'ideologia predominante di questi movimenti consisteva in un perseguimento univoco della modernizzazione e nella fondazione di uno stato nazionale torte e ricco. Questi movimenti quindi consideravano il «mettersi al passo con il mondo» un sinonimo di progresso e facevano coincidere l'industrializzazione con la liberazione. Dal termine della seconda guerra mondiale sino ad oggi però gli stati periferici hanno intrapreso il processo di industrializzazione in condizioni globali sfavorevoli e disuguali. La Cina, pur avendo conseguito l'indipendenza politica, ha visto, assieme a molti altri paesi asiatici, africani e sudamericani, gradualmente venir meno l'autosufficienza della propria industria nazionale a causa del processo di globalizzazione del capitale. Tutti questi paesi hanno subito un processo di riorganizzazione in un sistema mondiale unificato di produzione e di scambio. È del tutto evidente che la globalizzazione non è in grado di risolvere la molteplicità dei problemi sociali che ci troviamo ad affrontare. Infatti, la globalizzazione della produzione e dello scambio non ha prodotto spontaneamente istituzioni politiche e sociali nuove e capaci di superare l'organizzazione statale e sociale tradizionale all'interno degli stati-nazione, né è stata in grado di venire incontro alle questioni economiche e sociali delle regioni periferiche asiatiche e sudamericane. Tanto meno essa è stata in grado di colmare il cosiddetto divario nord-sud. È altresì evidente che l'indebolimento dello stato-nazione non ha attenuato il dominio politico, economico e militare degli stati-nazione stessi sulle loro società. Per questi motivi, se vogliamo eliminare gli effetti negativi del nazionalismo dobbiamo esaminare la possibilità di rapporti politici più equi e pacifici nella prospettiva globale più ampia possibile. Per quanto riguarda la Cina, il conflitto prodotto dal crescente coinvolgimento della Cina nella produzione e nel commercio globali è causa di una complessità sempre crescente e di un'inevitabile corruzione sistemica. È opportuno infatti ricordare che in Cina, come in altri paesi del terzo mondo, chi controlla il capitale locale controlla anche il potere politico. Questa corruzione ha di conseguenza pervaso ogni ambito politico, economico e morale, dando origine ovunque a gravissime disuguaglianze sociali. Persino dal punto di vista della semplice efficienza, una simile corruzione sistemica, in assenza di innovazioni istituzionali capaci di arrestare la disintegrazione della società, finirà per costituire un ostacolo insormontabile allo sviluppo economico, e incoraggerà un consumismo distruttivo che esaurirà rapidamente le risorse nazionali e sociali.
In conclusione, la teleologia della modernizzazione che
ha dominato il pensiero cinese nel secolo scorso viene ora
messa in questione. Dobbiamo perciò riconsiderare i nostri
assunti concettuali tradizionali, anche se non vi è teoria che
sia in grado di spiegare da sola i problemi complessi e spesso contraddittori
che ci troviamo oggi ad affrontare. Il compito degli intellettuali cinesi è
quello di infrangere la dipendenza dai consueti paradigmi concettuali binari,
quali Cina/Occidente e tradizione/modernità, per concentrarsi
sui fattori in grado di contribuire all'innovazione istituzionale all'interno
della società, badando alle capacità di rinnovamento interne alla società civile
stessa, riesaminando allo stesso modo le condizioni e i metodi storici della
ricerca cinese della modernità. La ricollocazione dei problemi
cinesi all'interno del contesto della globalizzazione rappresenta dunque una
questione teorica urgente. La pratica storica socialista è ormai parte del
passato, mentre i progetti del capitalismo globale non sembrano essere in grado
di superare la crisi della modernità di cui scriveva Weber. La
modernità come fase storica non si interrompe, e ciò spinge
al proseguimento e allo sviluppo di un pensiero critico. Può
darsi che la fase attuale si dimostri un'opportunità storica
per le capacità di innovazione teorica e istituzionale degli
intellettuali cinesi.
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