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| << | < | > | >> |IndicePresentazione dell'edizione italiana di Teresa Isenburg 7 Al lettore italiano 15 Prefazione 19 I. La condivisione di un bene comune 23 II. La «tragedia dei beni comuni» 39 III. Società idrauliche e speranze regionali 55 IV. Il fascino della diga 73 V. Zuffe per l'acqua 91 VI. Piccolo e locale 105 VII. Donne al pozzo 117 VIII. L'acqua mercificata 127 IX. L'ineguale mondo dell acqua 145 X. Acqua sporca 155 XI. Crisi confluenti 165 XII. I piaceri dell'acqua 177 Suggerimenti bibliografici a cura di Teresa Isenburg 187 |
| << | < | > | >> |Pagina 19C'è qualcosa che lega tutti gli uomini e le donne del mondo in modo tanto stretto e intimo che ogni differenza di colore, religione e cultura diventa, di fronte a esso, insignificante... composto per il 55 per cento di acqua, il flusso vitale del sangue che scorre nelle vene di ogni membro della specie umana dimostra che la famiglia umana è una realtà. Migliaia di anni fa, l'essere umano ha scoperto che questo fluido gli era indispensabile e prezioso oltre ogni prezzo.
Richard M. Titmuss,
The Gift Relationship
Richard Titmuss scriveva non dell'acqua ma del sangue. Studiava la trasfusione di sangue e le sue implicazioni, mettendo a confronto il mercato commerciale, dove il sangue viene acquistato, con la donazione volontaria. Aveva rilevato che il carattere dominante del sistema americano delle banche del sangue era una redistribuzione dei prodotti ematici dai ceti poveri a quelli ricchi, poiché le persone che vendono il proprio sangue, non avendo nient'altro da vendere, sono tendenzialmente quelle senza specializzazione e senza lavoro appartenenti ai «gruppi a basso reddito, oggetto di sfruttamento». Aveva anche osservato come in Gran Bretagna i donatori volontari di sangue, interrogati circa le loro motivazioni, fornissero indicazioni la cui «vivacità, individualità e diversità davano vita e senso comunitario alle generalità statistiche», tanto che l'80 per cento delle risposte «suggeriva sentimenti di responsabilità sociale verso gli altri membri della società». La sua conclusione era che il mercato commerciale del sangue fosse negativo, per quattro ragioni non etiche e verificabili: Sotto il profilo dell'efficienza economica, provoca un grande spreco di sangue; il rapporto tra domanda e disponibilità è caratterizzato da una scarsità, cronica e acuta, che rende illusoria ogni idea di equilibrio. È amministrativamente inefficiente, poiché genera un aumento delle pratiche burocratiche e ancor più dei costi fissi di gestione, computo e registrazione. In Gran Bretagna, il prezzo che il paziente (o consumatore) deve pagare per unità di sangue è da cinque a quindici volte superiore a quello del sistema volontario. Infine, per quanto riguarda la qualità, nella distribuzione commerciale è più facile che possa circolare sangue contaminato. Titmuss è morto nel 1974, e quindi non è vissuto abbastanza da assistere in Gran Bretagna al passaggio dell'ideologia mercantile da teoria economica a dogma politico. E non ha nemmeno potuto vedere il disastro che ha colpito i pazienti emofiliaci, pesantemente dipendenti dagli emoderivati, in conseguenza dell'importazione di sangue contaminato. Ciò che lo spingeva era semplicemente la volontà di contestare «la resurrezione rozzamente materialistica del homo æconomicus nella politica sociale». Il sangue, come si dice, è più denso dell'acqua. Il sangue è una proprietà individuale, l'acqua è una necessità collettiva. Eppure le due sostanze hanno qualcosa in comune, poiché è l'acqua a tenere insieme i costituenti del sangue ed è altrettanto indispensabile per la sopravvivenza. Come dice Michael Allaby: Un essere umano adulto deve assumere almeno 1,75 pinte [un litro circa] di acqua al giorno, bevendola direttamente o come ingrediente degli alimenti. Senz'acqua una persona non può sopravvivere per più di sei giorni circa, e appena due o tre nei climi caldi. Al contrario, una persona in buona salute può resistere diverse settimane senza cibo solido. L'acqua è vitale al pari del sangue, e pertanto anch'essa, come diceva Titmuss, è preziosa oltre ogni prezzo. Questa consapevolezza spiega la nostra indignazione quando sentiamo di famiglie inglesi cui l'acqua è venuta a mancare per non aver pagato le tariffe imposte dalle compagnie private, alle quali il governo ha venduto quella che è una risorsa collettiva. A maggior ragione dovremmo provare angoscia a sapere che un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ad acqua potabile sicura, e che un terzo di tutti i decessi che si verificano ogni giorno nel mondo sono la conseguenza di malattie di origine idrica. Qualcuno deve riaffermare il fatto di per sé evidente che l'acqua, risorsa continuamente rinnovata ma non inesauribile, appartiene a tutti e non a un particolare gruppo che ha scelto di controllarne la disponibilità. Il che non significa che chi la distribuisce non debba essere compensato. Il venditore di acqua rientra in un'antica attività di servizio. Nel Bangladesh vi sono contadini senza terra che si guadagnano da vivere in imprese cooperative per la fornitura di acqua, che viene portata mediante dispositivi mobili agli agricoltori la cui proprietà è troppo dispersa per l'irrigazione meccanica. Ma l'acqua è anche essenziale per produrre tutto ciò che mangiamo, beviamo e usiamo, per tutte le produzioni industriali e per ogni tipo di pulizia e comfort. Come il sangue, è troppo preziosa per essere considerata una merce. Ed è anche strumento di gioia umana infinita, come ben sappiamo dal piacere che traiamo da fiumi, torrenti, laghi e mari, come dimostrano le fontane e le piscine che si trovano in ogni città o paese. Questo libro non è il tentativo di ripetere per l'acqua lo studio che Titmuss ha fatto per il sangue, visto come trasferimento di risorse dal povero al ricco o come un dono da parte dei più fortunati ai meno fortunati. Esso intende semplicemente fornire un breve resoconto delle gigantesche implicazioni sociali, a livello tanto locale quanto globale, generate dall'universale bisogno di acqua e dalle varie crisi idriche che si prospettano al mondo. | << | < | > | >> |Pagina 33Quando nel 1979 è entrato in carica il nuovo governo conservatore, nessuno immaginava che tra le sue realizzazioni ci sarebbe stata quella di cambiare la natura dell'acqua da bene comune a merce. Eppure, dieci anni più tardi, l'acqua è stata venduta, insieme ad altri beni di proprietà pubblica, ai consumatori che già la possedevano collettivamente. Gli storici di un'altra industria ci ricordano che la privatizzazione della fornitura idrica non è stata facile. I politici responsabili sono «stati sconfitti nella Camera dei Lord e hanno corso il rischio di essere incriminati dall'Unione Europea per gli standard qualitativi dell'acqua. Sono stati contestati dai gruppi ambientalisti per il medesimo motivo e per le massicce occupazioni di territorio da parte delle amministrazioni idriche». Ciononostante,la vendita delle azioni, nel novembre 1989, ha avuto successo al punto che la domanda ha superato di 5,7 volte l'offerta. Tuttavia, il guadagno netto dell'operazione è risultato negativo per il governo. A fronte di un incasso dalla vendita pari a 5,3 miliardi di sterline, c'era da coprire un passivo di 5 miliardi, più un'iniezione di liquido di 1,6 miliardi per finanziare le amministrazioni e 100 milioni di spese di vendita. Così, l'affare si è concluso con una perdita di 1,4 miliardi di sterline per il governo. Il popolo dei consumatori d'acqua (il che significa tutte le famiglie della nazione) non si è probabilmente reso conto che il bene inestimabile che già possedeva era stato venduto in perdita sulla spinta di una transitoria ideologia governativa. Ma si è ben presto reso conto delle conseguenze. Ogni gruppo familiare ha constatato un incremento medio delle tariffe del 67 per cento tra il 1989-90 e il 1994-95, mentre i profitti delle compagnie erano aumentati in media del 20 per cento all'anno tra il 1989-90 e il 1992-93, e i margini di profitto erano saliti dal 28,7 al 35,6 per cento. Il malumore per i prezzi dell'acqua è andato crescendo man mano che si veniva a conoscenza dei ricchi stipendi e delle partecipazioni agli utili che la dirigenza delle compagnie idriche si era attribuita, del fatto che le operazioni di diversificazione finanziaria effettuate al di fuori dell'industria idrica erano state disastrose, e del fatto che per l'adeguamento di impianti e installazioni era stato speso assai meno di quanto si fosse fatto credere pubblicamente. Possiamo anche ritenere tutto ciò un aspetto scontato dell'economia imprenditoriale. Ma è la situazione dei ceti poveri che mi interessa. Nel rapporto sul prezzo dell'acqua del National Consumer Council si legge che nel distretto idrico dove le tariffe sono più elevate, cioè quello denominato South West Water, «la bolletta media assorbe il 4,9 per cento del reddito di una famiglia di due adulti e due bambini, il 7,6 per cento di quello di un genitore single con un unico figlio, e il 9,1 per cento nel caso di un pensionato che vive da solo». Il rapporto commenta che «queste percentuali costituiscono un peso finanziario cospicuo per le famiglie con inferiore capacità di far fronte all'aumento di prezzo dei servizi essenziali». Dove vivo, gli affittuari delle case di proprietà pubblica pagavano settimanalmente una somma modesta per questo servizio, che era controllato dall'autontà comunale. Questa, oggi, si rifiuta di fungere da esattore per conto di una compagnia privata, e la bolletta dell'acqua, maggiorata e da pagare in anticipo, è diventata un altro dei costi fissi della vita che i ceti meno abbienti devono in qualche modo far rientrare nel proprio bilancio. Fino al 1988, chi aveva diritto ai «benefici supplementari» governativi era esentato dalle spese di fornitura idrica. Oggi tale esenzione è stata soppressa e costoro devono pagare quei soldi di tasca propria. La privatizzazione dell'acqua ha fatto conoscere ai consumatori più poveri un nuovo approccio aggressivamente commerciale, tant'è che migliaia di famiglie si sono viste interrompere la fornitura. Ritenevo che tale azione fosse illegale, come lo è in Scozia e in Irlanda del Nord, ma mi sbagliavo. Nel 1992 il rappresentante della società Thames Water ha dichiarato alla stampa: «Siamo troppo concilianti, ed è per questo che le interruzioni della fornitura dovranno aumentare». Un manipolo di parlamentari, guidato da Helen Jackson, ha tentato di far approvare una legge che imponesse alle compagnie idriche di recuperare le morosità per via legale, come ogni altro creditore, e non tramite l'interruzione del servizio. Non hanno avuto successo, nonostante la cospicua documentazione di un numero infinito di casi in cui persone in difficoltà erano state penalizzate dalla politica spietata delle compagnie idriche. A un meeting indetto dalla Jackson nel 1993, John Middleton, direttore sanitario della Sandwell Health Authority nel West Midlands, ha fatto notare come il senso di moralità pubblica sia andato progressivamente decadendo dalle campagne sanitarie di centocinquanta anni fa, rammentando che «in epoca vittoriana veniva almeno riconosciuta la necessità che a tutti, ricchi e poveri, fosse garantita una provvista d'acqua igienicamente sicura. Le interruzioni della fornitura sono qualcosa che non dovrebbe essere tollerato in una società civile». E ha aggiunto che durante il 1992 e il 1993, anni in cui si è verificato un sensibile incremento delle sospensioni nella sua zona, dove più di 1.400 famiglie sono rimaste senz'acqua, «i casi di dissenteria ed epatite sono aumentati di dieci volte». La British Medical Association, intervenendo sul medesimo argomento, ha rilevato che esisteva un numero elevato di gruppi sociali vulnerabili per i quali la garanzia della disponibilità idrica era vitale. Erano le persone in condizioni di salute tali da richiedere l'uso di quantitativi suppletivi di acqua, per l'igiene personale, per fare il bucato, per lavare i bambini e gli anziani. Il Policy Studies Institute ha condotto uno studio rigoroso sul fenomeno della morosità e delle conseguenti sospensioni di fornitura, dal quale è emerso che «solo i consumatori più anziani sembrano essere meno a rischio di morosità e quindi di sospensione». Nel medesimo studio è detto anche che «durante il 1994 circa 2 milioni di famiglie hanno avuto problemi di morosità e per 12.500 di esse ciò si è risolto nella sospensione della fornitura idrica». Personalmente, al di là di ogni considerazione medica, non posso immaginare una situazione in cui sia possibile vivere senz'acqua, né certamente lo possono i miei lettori. Abbiamo tutti bisogno di bere e di mangiare, tutti produciamo feci e urina di cui ci dobbiamo liberare, tutti abbiamo bisogno di lavarci. Negare a chiunque di noi l'accesso all'acqua ci mette nella condizione di quella donna di Preston che prima ho citato, portata in tribunale e condannata per furto d'acqua. Quello avveniva centocinquanta anni fa, ed è sconvolgente rendersi conto che nella nostra civile Britannia le fantasie degli opulenti sostenitori della logica di mercato ci vorrebbero ridurre alla brutalità di quel tipo di atteggiamento. L'equivalente moderno di Elizabeth Stubbs è in certo senso in una situazione ben peggiore della sua. Perché un secolo fa, come abbiamo visto, ogni paese aveva la sua pompa comunale, frutto di uno sforzo comunitario o di un'iniziativa filantropica, accessibile a tutti. C'è una fontana di acqua potabile, ora asciutta, nella East Street di Colchester che reca l'iscrizione «Con gioia trarrai quest'acqua», e tutti i londinesi di una certa età ricorderanno gli innumerevoli punti per l'abbeveraggio umano o animale messi a disposizione dalla Metropolitan Drinking Fountain e dalla Cattle Trough Association. L'acqua era allora riconosciuta come un diritto umano universale e non come una merce. | << | < | > | >> |Pagina 128Abbiamo visto nel capitolo I che se in epoca vittoriana, malgrado la fiducia riposta nel sistema di mercato, era riconosciuto come «dovere morale vincolante» assicurare a ogni famiglia l'accesso all'acqua potabile, indipendentemente dalla possibilità di pagare, nel 1994 12.500 famiglie inglesi si sono viste tagliare la fornitura per morosità.Nel 1887 l'anarchico Pëtr Kropotkin riteneva che «la crescente tendenza a fornire l'acqua alle abitazioni private senza tener conto dell'esatto ammontare usato da ciascun individuo» come uno dei sintomi - insieme all'uso pubblico e gratuito di biblioteche, scuole, parchi e strade pavimentate e illuminate - della tendenza verso una società dove «chi contribuisce al bene comune con tutte le sue capacità riceve dal comune fondo sociale i mezzi per soddisfare al meglio i propri bisogni». Un secolo dopo, questa interpretazione sembrerebbe decisamente ottimistica per due ragioni. La prima è stata la rinascita del culto del mercato e della privatizzazione dei beni pubblici a ogni costo. La seconda, la crescita della coscienza ecologica e la consapevolezza che tutte le risorse sono limitate. Ad esempio, Sandra Postel, una riconosciuta autorità sul problema della scarsità idrica, fa notare che sorprendentemente, il costo dell'acqua nella maggior parte delle famiglie britanniche è legato al valore della casa e non ha niente a che vedere con il consumo reale... Prove fatte in Gran Bretagna hanno dimostrato che con i contatori il consumo dell'acqua nelle famiglie può calare del 10-15 per cento. Nel 1995, con il rapporto Water Conservation: Government Action (Interventi governativi per la tutela idrica), il governo britannico ha dato grande rilevanza alla necessità di far pagare l'acqua in base al consumo. Un portavoce dell'opposizione ha anzi lamentato che «ventinove dei settantuno paragrafi di questo documento trattano della misurazione del consumo idrico. I Conservatori vogliono obbligare tutti a mettersi in casa un contatore dell'acqua». E aggiungeva che i dati dell'industria idrica dimostravano che le perdite giornaliere lungo le tubature della rete ammontavano a un valore complessivo di 826 milioni di galloni d'acqua [3 miliardi e 350 milioni di litri circa], su cui il controllo dei consumi non avrebbe avuto alcuna influenza. Il governo stesso ammette che l'installazione dei contatori potrebbe costare fino a 200 sterline per famiglia. Il che significherebbe una spesa complessiva da 4 a 5 miliardi a carico dei consumatori. E le spese di esercizio dei contatori ammonterebbero fino a 500 milioni all'anno. La tutela idrica è un problema vitale tanto nei Paesi ricchi che in quelli poveri, ma viene di fatto banalizzato applicando a entrambi lo stesso meccanismo mercantile. Commenta Jean Robert: I governi che intendono regolare i consumi idrici attraverso il mercato dovrebbero tenere a mente che solo se l'acqua è un bene comune, gratuitamente accessibile ai ceti poveri, è possibile contenere l'eccesso di consumo dei ceti ricchi per mezzo di prezzi elevati, senza provocare la rovina dei poveri. A Lima, ad esempio, dove il governo tenta di gestire il consumo idrico con questi sistemi, i prezzi sono troppo elevati per i poveri, che non hanno l'acqua in casa e la comprano in bidoni per strada, e troppo bassi per i ricchi, che corrompono gli autisti delle autocisterne che dovrebbero servire i quartieri poveri e usano quell'acqua per lavare le proprie automobili. [...] In Gran Bretagna la privatizzazione della fornitura idrica non è stata inibita da alcuna opposizione efficace, all'epoca, e le sue conseguenze non sono state notate pubblicamente se non molti anni più tardi. I dettagli amministrativi sull'industria idrica britannica, dati nel capitolo I, sono importanti per due ragioni. La prima è che le riforme del 1974 hanno portato la fornitura e lo smaltimento dell'acqua per la prima volta sotto il controllo diretto del governo centrale, e il ministero del Tesoro, sia con i Conservatori sia con i Laburisti, ha costantemente ridotto la spesa a favore delle Authority idriche tra il 1974 e il 1986. Nel 1982 la somma messa a disposizione dell'industria idrica dal governo era la metà di quella prevista come investimento di capitale nel 1974. La seconda ragione è che il riassetto dell'industria idrica da parte del governo ha permesso di metterla insieme alle altre strutture pubbliche che nel 1980 sono state offerte in vendita a una cittadinanza che già le possedeva collettivamente. Le isole britanniche sono ricche d'acqua, con precipitazioni cospicue, eppure vanno incontro occasionalmente a periodi di scarsità idrica. È affascinante paragonare l'atteggiamento pubblico durante la siccità del 1995 con quello dei sedici mesi di asciutta tra il maggio 1975 e l'agosto 1976. Nel 1976 le famiglie britanniche non avevano ancora maturato alcun mutamento di percezione di fronte all'acqua trasformata da bene comune in prodotto commerciale. Fred Pearce, corrispondente per i problemi idrici del «New Scientist», riferisce che fino ad allora i responsabili della pianificazione avevano considerato «qualunque forma di restrizione della fornitura, anche un semplice hosepipe ban (divieto di uso non domestico dell'acqua) come un'ammissione di fallimento. Si rendevano conto che era privo di senso spendere milioni di sterline per ridurre la frequenza degli hosepipe bans da un anno su cinque a un anno su dieci». Ma Pearce sottolinea anche gli sforzi delle Authority, allora regionali, per agevolare l'accesso alle fonti d'approvvigionamento e i progetti a lungo termine come quello della conduttura anulare di Londra o il sistema per ricaricare le falde con le acque invernali dei fiumi. La reazione pubblica era stata più che mai interessante. Il National Water Council infatti rilevava che la disponibilità a risparmiare volontariamente l'acqua durante la siccità era molto diffusa tra la popolazione e le industrie. La campagna per invitare al risparmio durante la siccità aveva ridotto la domanda d'acqua perfino del 30 per cento in certe zone... e ulteriori interventi come la verifica delle perdite impreviste e la riduzione della pressione nelle tubature avevano prodotto risparmi di un altro 10 per cento. Il 90 per cento della popolazione aveva risposto all'invito a ridurre i consumi per il bagno e più dell'80 per cento aveva dichiarato di aver fatto attenzione a mettere il tappo al lavandino, anche se solo il 9 per cento aveva detto di aver messo un blocco nello sciacquone del WC. Nel 1976 c'era dunque stata un'intensa cooperazione tra le varie amministrazioni idriche, tanto che Fred Pearce nota che «nel peggior caso di siccità in duecentocinquant'anni, i tecnici sono riusciti a non interrompere l'erogazione dell'acqua», e c'era stata cooperazione anche da parte degli utenti per ridurre i consumi. Nessuna recriminazione: semplicemente il desiderio di trarre insegnamento dall'esperienza. Durante la siccità del 1995, il clima è cambiato. La gente ha dato la colpa alle compagnie idriche e queste hanno dato la colpa alla gente. Il ministro dell'Ambiente, John Gummer, ha avvertito la popolazione di attenersi ai precetti del 1976, di riciclare nell'orto l'acqua usata per lavare e di mettere un blocco nello sciacquone. Il giornale locale della mia città, che difficilmente potrebbe essere definito di sinistra, ha sottolineato in un articolo di fondo la differenza fondamentale tra allora e adesso: Allora l'acqua era proprietà pubblica, e il pubblico aveva interesse a conservarla. Ma poi è arrivato Mr Gummer con i suoi colleghi e ci ha detto che dovevamo cambiare idea, che l'acqua non era una risorsa naturale ma un prodotto capitalistico come gli altri. Le compagnie idriche appena privatizzate hanno cercato di giustificare i loro profitti esorbitanti spiegandoci quali grandi miglioramenti stavano apportando al servizio. Si sono auto-compensate con enormi aumenti «di incentivazione». Non dovremmo allora aspettarci, se paghiamo la bolletta, di poter usare tutta l'acqua che vogliamo? E che importa alle compagnie, che mirano al loro profitto, se la usiamo per innaffiare l'orto o per lo scarico del gabinetto? Forse che, come qualunque acquirente, non abbiamo il diritto di usare come vogliamo il bene che abbiamo comprato, al pari di qualunque prodotto commerciale? È vero che tali atteggiamenti non vanno troppo d'accordo con il risparmio idrico, ma se questo fosse stato tenuto nella giusta considerazione a suo tempo, forse la privatizzazione non sarebbe apparsa un'idea tanto buona. | << | < | > | >> |Pagina 150I disastri prodotti dalla concentrazione della produzione agricola sulle colture da reddito per l'esportazione voluta dall'alto non si esauriscono con le frustrazioni finanziarie. Ovunque nel mondo i contadini si sono basati sulla coltivazione di prodotti di sussistenza per il consumo locale adattando le loro tecniche alla disponibilità d'acqua e di fertilizzanti. Ben diversamente, le più importanti colture da esportazione non solo richiedono superiori apporti nutritivi (con il ricorso a costosi prodotti agro-chimici di importazione, che a loro volta possono provocare l'inquinamento delle falde idriche), ma anche quantitativi d'acqua superiori a quelli delle coltivazioni alimentari locali. Per secoli, la richiesta di cotone da parte dei Paesi più ricchi ha prodotto disastri umani. Nelle parole dei redattori della rivista «The Ecologist»:Le ripercussioni del commercio del cotone sono state catastrofiche e hanno colpito popolazioni praticamente di ogni colore e clima. Negli Stati Uniti, circa 90.000 indiani Cherokee sono stati scacciati dalle loro terre per far posto alle piantagioni di cotone, e 30.000 di essi sono morti nella famosa marcia verso ovest. Il periodo tra il 1784 e il 1860 ha visto il numero degli schiavi negli Stati del sud aumentare di otto volte, specificamente per le piantagioni di cotone, un aumento che è sfociato nel più sanguinoso conflitto del secolo XIX. Il processo non riguarda solo la storia passata. Come abbiamo visto, era il desiderio di produrre più cotone che stava dietro ai tentativi di imbrigliare il Nilo, scatenando infiniti problemi politici e sociali per l'Egitto e gli Stati confinanti. E lo stesso vale per la distruzione del lago d'Aral, risultato della politica dell'ex-Unione Sovietica. «The Ecologist» riporta la storia ai giorni nostri: Durante il terzo Piano quinquennale dell'Etiopia, il 60 per cento dei terreni messi a coltura nella fertile valle di Awash è stato dedicato alla produzione di cotone. I pastori Afar del luogo sono stati allontanati dai loro pascoli tradizionali e spinti verso i fragili territori più in alto, contribuendo a quella deforestazione che in parte è responsabile della crisi ecologica dell'Etiopia. Le fortune ammassate per secoli dall'industria cotoniera mai, in alcun continente, sono andate a beneficio di chi è stato impiegate per piantare, curare e raccogliere il cotone, uomini donne e bambini cui l'acqua è stata sottratta per irrigare la coltura. Contadini di sussistenza e pastori sono spinti via per far posto alle necessità di uno stracolmo mercato mondiale. Joan Davidson riporta l'esperienza di altri Paesi africani, come Burkina Faso, Ciad e Mali: Nella parte del Mali detta Koutiala, lo sviluppo della produzione cotoniera ha accelerato i problemi di degrado ambientale, con l'abbattimento di aree boscate e la progressiva occupazione di terreni prima usati per le colture alimentari. Il risultato di una simile pressione sulle risorse naturali è stata la scarsità di terra per i piccoli agricoltori e quindi il collasso del sistema agricolo tradizionale basato sul riposo periodico dei terreni. A causa del disboscamento, c'è poca legna da ardere e gli abitanti dei villaggi devono usare come combustibile deiezioni bovine e stocchi di cotone, che altrimenti potrebbero essere impiegati per ripristinare la fertilità del suolo in un'area già vulnerabile per la siccità e l'erosione. L'imperialismo vecchia maniera è morto, ma è stato sostituito da un ben più efficiente imperialismo economico, che obbliga i Paesi poveri a distruggere la loro precaria economia e il loro ambiente a beneficio dell'economia consumistica del mondo industrializzato. L'acqua che potrebbe essere gestita in modo da garantire la vita locale viene dissipata a favore dell'esportazione, in un mercato altamente competitivo, o dell'industria turistica. E come sempre le vittime dell'economia del mercato globale sono le popolazioni locali, private della loro dotazione di acqua per l'esclusivo vantaggio di estranei lontani. A organizzazioni solidaristiche non ufficiali come Oxfam è lasciato il compito di ribadire il principio elementare secondo cui l'acqua deve essere usata per le necessità umane, magari poca per tutti, ma non tutta per pochi. | << | < | > | >> |Pagina 158Un quarto di secolo dopo, lo scenario è cambiato. Non solo le industrie di approvvigionamento idrico e scarico sono state privatizzate, ma adesso è anche presente una lobby ambientalista che si preoccupa degli aspetti economici dell'approvvigionamento idrico e dei problemi ecologici connessi con lo smaltimento degli scarichi fognari. E siamo tutti diventati consapevoli del fatto assurdo che il 32 per cento dell'impiego domestico di un prodotto sottoposto a costosa depurazione è per lo scarico dei gabinetti.Un altro cambiamento deriva dall'impegno del governo britannico a conformarsi agli standard stabiliti dagli accordi internazionali. L'Unione Europea, quando ancora si chiamava Comunità Europea, ha emesso una lunga serie di standard idrici che sono serviti soprattutto a fornire argomenti per le campagne delle organizzazioni non ufficiali. Ad esempio, ha emesso direttive sulla qualità delle acque di balneazione, dal punto di vista fisico, chimico e microbiologico, in base alle quali la Marine Conservation Society e la Coastal Anti-Pollution League pubblicano una loro «Guida alle buone spiagge», mentre il Tidy Britain Group gestisce il sistema di valutazione «Bandiera azzurra». I tentativi del governo britannico di diluire l'efficacia di queste valutazioni vengono definiti da David Kinnersley, un'autorità in materia di qualità idrica, come «clamorose mistificazioni». Un effetto salutare simile hanno avuto le direttive europee in materia di controllo dell'inquinamento fluviale e qualità dell'acqua potabile. Kinnersley nota l'ironia del fatto che, da quando l'acqua di rete è stata sottoposta a controlli analitici indipendenti, «gli inglesi si sono rivolti al consumo di acqua in bottiglia in misura difficilmente immaginabile prima. Quest'acqua viene acquistata nei supermarket a un prezzo per litro più di mille volte superiore a quello dell'acqua di rubinetto». È stato anche detto, nel 1996, che alberghi e ristoranti vendono acqua imbottigliata prodotta semplicemente filtrando la normale acqua di rete, con un profitto superiore al 1000 per cento. Sono le follie di una società ricca, dove nessuno si preoccupa di separare l'acqua da bere da quella usata per gli scarichi igienici o per lavare la macchina. Reti idriche separate sono di improbabile realizzazione, ma molto si potrebbe fare anche solo riducendo la quantità complessivamente consumata e usando meno acqua per lo scarico dei gabinetti. | << | < | > | >> |Pagina 160La situazione britannica è meno clamorosa, ma anche qui è ovvia la scarsa volontà di applicare «tecniche di risanamento». L'ente di controllo dell'industria idrica, l'OFWAT, nel novembre 1995 ha appurato che «quasi un quarto dell'acqua teoricamente potabile dell'Inghilterra e del Galles è al di sopra dei limiti per il contenuto in pesticidi». Ed esiste anche una lunga serie di rapporti che dimostra come l'aumento delle tariffe venga giustificato con la necessità di ridurre l'inquinamento, mentre poi non viene fatto alcunché al riguardo. Ad esempio, nel 1993 è stato scritto che «le compagnie idriche ingannano i consumatori perché li costringono a pagare per il disinquinamento dei pesticidi, mentre i responsabili sono gli agricoltori e l'industria chimica». Due anni più tardi, un documento governativo riservato filtrato all'esterno ha rivelato che «gli impianti di trattamento per disinquinare spiagge e corsi fluviali sono stati posticipati nonostante un incremento delle tariffe apparentemente finalizzato a pagare quegli impianti».Le direttive europee sulla qualità delle spiagge sono state disattese poiché il governo britannico ha sostenuto che la definizione di spiaggia deve essere applicata solo a luoghi dove almeno 500 bagnanti siano effettivamente presenti in acqua, o dove siano più di 1.500 per miglio lineare di spiaggia. Tale definizione esclude non solo tutte le spiagge gallesi, ma anche Blackpool, la spiaggia più conosciuta di tutta la Gran Bretagna. Un'altra direttiva dell'Unione Europea, accettata dal governo britannico nel 1991, stabiliva i limiti di riferimento per lo smaltimento dei reflui urbani nei corsi d'acqua superficiali. Una scappatoia nel testo della direttiva imponeva limiti meno severi per le «aree a elevata dispersione naturale», cioè dove il mare potrebbe allontanare rapidamente gli scarichi. Nel 1994 il ministro per l'ambiente, John Gummer, ha realizzato «una bizzarra manipolazione geografica per consentire alla privatizzata Yorkshire Water Company di evitare l'obbligo di costruire un nuovo impianto da 100 milioni di sterline per il trattamento degli scarichi inquinanti [di Hull]». Costui ha dichiarato mare aperto più di 30 miglia [48 chilometri] del fiume Humber, cosicché potesse continuare a ricevere gli scarichi fognari non trattati della città di Hull. L'inghippo è stato ripetuto adottando un provvedimento simile per Bristol e il fiume Severn. In entrambe le città l'amministrazione civica ha fatto opposizione e nel 1996 l'Alta Corte ha stabilito che tale tentativo di evadere la legislazione sull'ambiente era «illegittimo». Questa manipolazione governativa della geografia è esattamente il tipo di risposta ai tentativi di controllare lo smaltimento dei reflui civili e industriali che induce le industrie manifatturiere a spostare i loro impianti dai Paesi ricchi dotati di legislazione ambientale alle nazioni povere, dove normative simili mancano o non vengono fatte rispettare. Da questo punto di vista, aveva ragione Jean Robert a dichiarare la nostra manifesta incapacità a disattivare la bomba a orologeria epidemiologica ed ecologica: i leader politici non vogliono accettare le conseguenze delle leggi che sono stati costretti a promulgare. Così come le compagnie idriche non intendono affrontare il costo di impianti e condutture separate per fornire acqua costosamente purificata per bere e fare da mangiare e acqua meno trattata destinata agli altri usi che formano la gran parte del consumo domestico e industriale, anche le aziende che si occupano dello smaltimento dei reflui non sono disposte ad affrontare i costi per tenere separati quelli civili da quelli industriali. | << | < | > | >> |Pagina 173Ai britannici viene fatto credere che la Francia sia la nazione più centralizzata dell'Europa, ma un tale dubbio onore è invece più meritato dalla Gran Bretagna. È impossibile pensare che una qualunque città britannica possa recuperare la propria capacità di controllo sulla sua fornitura idrica, quanto meno nell'attuale clima politico. Ma la disastrosa conclusione che dobbiamo trarre dal dibattito che ha avuto luogo in Gran Bretagna è che la crisi di responsabilità sociale è stata ridotta al problema di «acquistare dove costa di meno». Centocinquant'anni prima del dibattito parlamentare sull'introduzione della concorrenza nell'industria idrica, come è stato sottolineato nel capitolo d'apertura di questo libro, era evidente che «l'acqua è indispensabile alla salute e al benessere dell'umanità come l'aria che respiriamo, e quando gli esseri umani si radunano in masse conteggiabili a decine di migliaia, è essenziale per la salute pubblica che sia disponibile nella misura più abbondante possibile».Questo antico concetto è andato perduto tanto nei Paesi ricchi che in quelli poveri. Le decisioni sulla disponibilità di acqua potabile sono prese su basi economiche invece che sociali, tranne i vari casi in cui intervengono istituzioni non governative ad aiutare gli attivisti locali. Se è il meccanismo dei prezzi a determinare la distribuzione dell'acqua, i ceti poveri muoiono di sete; se è in base a esso che si stabilisce quali coltivazioni devono essere irrigate per l'immissione sul mercato, i ceti poveri muoiono di fame; se è sempre questo a decidere la convenienza finanziaria a controllare l'inquinamento, i ceti poveri si avvelenano; e se sono i prezzi a determinare la disponibilità idrica per l'igiene personale, un gran numero di bambini del mondo non industrializzato muore prima dei cinque anni per malanni banali come la diarrea. In occasione del discorso tenuto da Christiaan Barnard, pioniere della chirurgia a cuore aperto, di fronte a migliaia di persone in uno stadio sudamericano, Ivan Illich ha sottolineato la probabilità statistica che una rilevante percentuale degli astanti soffrisse di parassitosi intestinali. Il problema dell'acqua, un bene limitato ma rinnovabile all'infinito, è un problema globale. Esistono grandi soluzioni tecnologiche che generalmente penalizzano le popolazioni locali e vanno a profitto di imprenditori stranieri e metropolitani. Il che, a sua volta, acuisce le dispute internazionali, combattute con armamenti di gran lunga più sofisticati delle semplici tecniche di gestione idrica. Il messaggio di questo libro è che se le comunità umane potessero realmente ottenere il controllo e la gestione dell'acqua che a loro serve, opererebbero con equità e senso di responsabilità, riconoscendo le necessità di tutti, comprese quelle di chi, accanto a loro, fa uso della medesima risorsa. La tragedia della crisi idrica mondiale è che questo è l'ultimo approccio che chi controlla l'economia dell'acqua a livello globale intende prendere in considerazione. L'uso responsabile dell'acqua non dipende dall'imposizione di prezzi esorbitanti ai ceti poveri, estromettendoli così dal mercato, ma dall'accettazione del principio elementare di un equo accesso per tutti, un concetto che ogni bambino impara fin dall'infanzia finché il realismo politico non gli insegna che ciò che conta è il potere. Se in una situazione di scarsità il prezzo dell'acqua venisse lasciato all'azione del mercato, i ceti poveri morirebbero di malnutrizione e malattia, come già accade in molte parti del mondo, mentre le classi agiate pagherebbero senza problemi, appunto perché sono agiate. | << | < | > | >> |Pagina 183Esiste davvero un parallelismo tra il nostro comune godimento dell'acqua pubblica, che non appartiene a nessuno ed è condivisa da tutti, e il nostro bisogno individuale di acqua domestica idonea e sicura. Mari, fiumi, laghi e fontane non sono strutture private, anche se può esserlo l'accesso a essi. La pioggia non appartiene a nessuno, ma purificarla e portarla fino alla nostra cucina o stanza da bagno è un servizio vitale, per il quale paghiamo individualmente o collettivamente. L'esperienza dimostra che per il bene della società nel suo complesso ogni famiglia deve avere la sua quota, per quanto modesto sia il suo contributo economico. Prima che ciò fosse capito, nel 1844 Elizabeth Stubbs (vedi capitolo I) è stata multata per aver tratto acqua dalla bocchetta della Preston Water Company senza contratto che la autorizzasse a farlo. È assai deprimente leggere che centocinquant'anni dopo Rachel e Steve, cui l'acqua era stata tagliata, abbiano dovuto confessare che «giriamo dietro la casa dei vicini e riempiamo la vasca da bagno con il loro tubo di gomma per innaffiare, e quella è l'acqua che usiamo per lavare, per il gabinetto, per far da mangiare e tutto il resto». In teoria, sono colpevoli del medesimo reato.Il fatto che una simile situazione sarebbe stata inconcepibile in una città britannica del XX secolo fino agli anni Ottanta ci rammenta che in Gran Bretagna i dogmi dell'economia di mercato sono stati assorbiti con la forza incontenibile di un risveglio religioso. Hanno cambiato il linguaggio di noi tutti, convertiti o eretici, con il risultato che chi usa l'acqua, come il passeggero delle ferrovie, viene oggi descritto come «utente». Un corrispondente del «New Statesman» ci invita, a mio parere correttamente, a «riconoscere che gli 'studi economici' che attualmente ci vengono proposti sono il più efficace programma di propaganda politica mai intrapreso in questo Paese». Il medesimo assunto ha dominato per anni la politica delle istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nel loro approccio al problema dell'approvvigionamento idrico nei Paesi non industrializzati. A ognuna di queste ondate evangeliche segue una reazione che riconferma gli antichi valori. È per questo che nella prefazione ho citato il pensiero di Richard Titmuss, che mette a confronto il sistema della donazione di sangue (basato sul senso di solidarietà e responsabilità sociale verso gli altri, membri sconosciuti della società) e il mercato commerciale del sangue, che è risultato essere essenzialmente una redistribuzione dai ceti poveri a quelli ricchi. E ho suggerito che ci fossero somiglianze, ma anche differenze, tra la distribuzione di queste due sostanze ugualmente necessarie alla vita. Nel corso del libro ho anche mostrato che, nel fondamentale dovere sociale di preservare l'acqua, l'esperienza britannica indica l'esistenza di un diverso atteggiamento popolare a seconda che questa sia fornita come bene pubblico o come il risultato di una transazione commerciale. Anni prima, Titmuss sosteneva che «è probabile che nei prossimi cinquant'anni, in Gran Bretagna, le idee sociali saranno importanti quanto l'innovazione tecnica». La maggior parte di quei cinquant'anni è trascorsa, e tutto quello che abbiamo potuto vedere nel campo delle idee sociali è stato ciò che Titmuss condannava come «l'ipocrita resurrezione dell'uomo economico nella politica sociale».
Eppure, questo libro ha anche dimostrato che in tutto il mondo una varietà
di società umane ha messo a punto sofisticati sistemi di distribuzione idrica
che combinano la conservazione dell'acqua con un automatico rispetto per
l'equità e la reciprocità. Il problema idrico non è un problema di natura
tecnica, ma una crisi di responsabilità sociale.
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