Copertina
Autore Michel Warschawski
Titolo A precipizio
SottotitoloLa crisi della società israeliana
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004, Temi 138 , pag. 126, cop.fle., dim. 115x195x10 mm , Isbn 978-88-339-1508-1
OriginaleÀ tombeau ouvert. La crise de la société israélienne
EdizioneLa Fabrique, Paris, 2003
TraduttoreAldo Serafini
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe storia contemporanea , politica , sociologia , paesi: Israele
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Indice

  7 Premessa

    A precipizio


 11 Prologo   Storie di spiaggia


 13 1. Via libera a un massacro

    Da Muhammad el-Dura alla devastazione di Ramallah..., 16
    ...e al massacro di Jenin, 20
    Dell'abuso di autodifesa, 26

 29 2. Una duplice disumanizzazione


 41 Intermezzo   I muri parlano


 44 3. Il nuovo discorso

    Brutalità senza confini, 44
    Il delirio, 48
    Il perverso ritorno della Shoah, 51

 55 4. Il muro

    Un nuovo ghetto, 55
    Una separazione unilaterale, 59
    Il muro e la bomba, 61

 65 5. Controriforma

    Rimettere i cittadini arabi al loro posto, 66
    Rivoluzione nazionale, 71
    Degenerazione, 75

 79 Intermezzo   Natale a Betlemme


 80 6. Una pesante eredità

    La grande menzogna, 81
    Il verme era nel frutto di Oslo, 83
    Il tradimento degli intellettuali, 86
    Meno diritti, più umiliazioni, 89

 92 7. Chiudere la parentesi

    La scelta della normalità, 92
    Le forze di resistenza, 96
    Riconciliazione nazionale, 98

103 Intermezzo   Fine di una epoca


105 8. Il nuovo Israele

    Una falsa democrazia, 106
    Una nuova classe politica, 11O
    Nuova ideologia, nuovo regime, 114
    L'atteggiamento rinunciatario della sinistra, 117

119 Epilogo   Verso Masada?


 

 

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Pagina 13

I.

Via libera a un massacro


Per più di trent'anni l'esercito israeliano ha usato un ossimoro per descrivere la propria azione nei territori palestinesi che si trovano sotto la sua autorità dal giugno 1967: «l'occupazione liberale». Questo costrutto semantico fa il paio con altri ossimori dello stesso genere, come «purezza delle armi» o «Stato ebraico e democratico».

Dietro questo concetto di «occupazione liberale» vi sono, tuttavia, due elementi importanti: da un lato, la volontà di offrire una immagine di stampo liberale (nel senso americano del termine) e non brutale e colonialista; dall'altro, la dichiarata intenzione di porre in atto una politica di occupazione con un minimo di misure repressive e di vittime fra la popolazione occupata.

Certo, la prima Intifada ha avuto ragione di questa immagine compiacente, e le circa 1500 vittime palestinesi, in meno di tre anni, hanno dimostrato che una occupazione è per definizione sanguinosa e repressiva, soprattutto se la popolazione occupata esprime in massa la propria volontà di libertà e di indipendenza. Fu proprio il fatto che l'occupazione non poteva più pretendere di essere liberale che provocò un cambiamento nell'opinione pubblica a favore di un ritiro dai territori occupati e, due anni più tardi, promosse il sostegno massiccio al processo di Oslo.

A partire dal settembre 2000, l'occupazione israeliana non finge più di essere liberale. Al contrario, assume pienamente il suo carattere «geniale e crudele», per riprendere le parole dell'inno dell'Irgun, l'antenato del partito Likud oggi al potere. Una occupazione brutale e sanguinaria che gode dell'appoggio della grande maggioranza dell'opinione pubblica israeliana.

Nel settembre 2000, il governo israeliano impartisce l'ordine di attuare il piano di repressione generalizzata - uno dei suoi capitoli si intitola «salasso» - predisposto due anni prima da colui che sarebbe diventato il comandante in capo dell'esercito israeliano. Quel piano era uno degli scenari proposti dallo stato maggiore a Ehud Barak come risposta a una eventuale dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte palestinese. Il denominatore comune a tutti questi scenari consisteva nel far pagare molto caro ai palestinesi l'insubordinazione e l'insolenza che una iniziativa unilaterale da parte loro avrebbe significato.

Nel settembre 2002, l'iniziativa unilaterale consiste nell'inizio della seconda Intifada, rivolta popolare - e per molte settimane disarmata - contro l'occupazione israeliana. Non lo si sottolinea mai abbastanza: la partecipazione dei militari palestinesi agli scontri con l'esercito israeliano comincia solo dopo che molte decine di giovani manifestanti erano stati assassinati da soldati superarmati, muniti spesso di fucili a cannocchiale. Quanto agli attentati in Israele, essi cominceranno solo tre mesi più tardi, dopo la morte di molte centinaia di palestinesi.

Gli ordini sono chiari: spezzare ogni forma di resistenza, con tutti i mezzi. Poco importa il bersaglio, poco importano le circostanze, poco importano i «danni collaterali».

All'inizio, in conformità con lo scenario già menzionato, la repressione ha carattere essenzialmente punitivo: dare una lezione ai palestinesi per aver osato sfidare l'occupazione, e soprattutto per aver osato respingere le «generosissime offerte» di Ehud Barak a Camp David (ci tornerò). Quel che importa capire è che, in questa fase, l'obiettivo fissato da Barak e dallo stato maggiore non è quello di assicurare il «ritorno all'ordine», ma di condurre una operazione punitiva che si trasformerà rapidamente in campagna di pacificazione.

Una simile campagna implica un uso massiccio di mezzi militari per terrorizzare una popolazione civile, per costringerla ad accettare il potere coloniale e le forme di dominio che esso vuole imporle. Per giustificare dinanzi all'opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l'uso sistematico, nei territori palestinesi occupati come in Cecenia, del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d'assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c'è una popolazione civile, ma un'altra forza militare, e che ciò giustifica l'uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia.

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Pagina 24

Afaf Disuki dilaniata da una bomba, e i soldati ridevano. Sua sorella Aicha Disuki, 37 anni: «Eravamo in casa e abbiamo visto del fumo. I soldati ci chiedevano di aprire la porta. Mia sorella è andata ad aprire, e in quel momento è esplosa la granata. Allora ci siamo messi tutti a gridare per chiamare un'ambulanza. I soldati ridevano. Abbiamo visto che Afaf aveva la parte destra del volto completamente asportata, e che era ferita alla spalla e al braccio sinistro...» Ashaman Abu Murad, che era fuori con i soldati, conferma che essi ridevano: «Dopo l'esplosione, ho sentito le sorelle di lei gridare e chiamare un'ambulanza. I soldati ridevano...»


Il numero esatto delle vittime non lo si saprà mai. L'esercito israeliano ha sepolto una parte dei cadaveri, e alla Commissione di inchiesta internazionale incaricata, tra l'altro, di confermare o di invalidare l'accusa di massacro, è stato impedito di svolgere la sua missione. Ma, in un certo senso, il numero non è la cosa più importante; ciò che più importa è la violenza senza limiti che ha accompagnato l'operazione «Scudo di difesa», e più in particolare la conquista del campo profughi di Jenin. Se, come vedremo, l'esercito inizialmente ha sopravvalutato (sic) il numero delle vittime palestinesi, è proprio perché esso era consapevole di quella furia omicida, perché non ha tenuto alcun conto del fatto che di fronte ai carri armati e ai missili c'erano dei civili, e perché sapeva perfettamente che i suoi soldati avevano ucciso a sangue freddo persone disarmate.

Questa completa assenza di freni, questa brutalità senza limiti, gli abitanti del campo, pur essendo abituati alla violenza dell'occupazione israeliana, la hanno avvertita subito. A sole poche ore di distanza dall'ingresso dei blindati israeliani nel campo, Leila Shahid, allora in missione in Palestina, telefonava ai movimenti di solidarietà in Francia e supplicava in lacrime: «Fate qualcosa! Nel campo di Jenin è in atto un vero e proprio massacro».

Fra l'occupazione di Ramallah e il massacro del campo di Jenin passano due mesi. E, come c'è continuità nelle operazioni dell'esercito di occupazione israeliano, c'è anche escalation: ogni operazione tende a saggiare le reazioni - quelle dell'opinione pubblica israeliana e quelle della comunità internazionale - e a imporre, in mancanza di critiche gravi, un nuovo livello di violenza. Nel momento in cui scrivo queste righe (settembre 2002), il livello rappresentato dall'operazione «Scudo di difesa» non è stato ancora superato. I progetti di trasferimento, vale a dire una vasta operazione di pulizia etnica in Cisgiordania, costituiranno senza dubbio il nuovo balzo in avanti nell'orrore, se la guerra contro l'Iraq ne fornirà l'occasione.

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Pagina 36

La sistematica disumanizzazione del colonizzato comporta inevitabilmente la disumanizzazione del colono e della sua società. Il soldato israeliano, il colono che gode di una totale impunità, ma anche la brutalità del discorso politico dominante, hanno ormai contaminato la società israeliana: la violenza, come l'inquinamento, non si ferma alla Linea verde. Lo dimostrano le statistiche sulla criminalità in Israele, soprattutto quelle sulla violenza domestica: in due anni, le aggressioni e gli omicidi sono aumentati di più del 20 per cento, e non passa giorno senza che la stampa segnali il verificarsi di gravi incidenti, soprattutto fra i giovani. Questi ultimi hanno due modelli con i quali identificarsi: i soldati, la cui brutalità viene presentata dai media come eroismo, e i coloni, che Ehud Barak definiva i nuovi pionieri di Israele.

Nel corso dell'ultimo decennio, il colono è diventato un superuomo che non deve tener conto di alcuna legge, di alcuna istituzione. Ruba le terre dei suoi vicini arabi, raccoglie le loro olive, apre strade e ne chiude altre, vieta ai contadini arabi l'accesso alle loro terre e, quando si infuria, organizza spedizioni punitive. Ha diritto di vita o di morte sugli indigeni, e impone la sua legge anche ai militari che lo proteggono e senza i quali egli non è altro che un miserabile ladro.

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Pagina 51

Il perverso ritorno della Shoah


Presentando, a partire dall'agosto 2000, la guerra coloniale come una guerra per la sopravvivenza di Israele, Ehud Barak ha risvegliato i demoni che ossessionano la memoria collettiva del popolo israeliano. Fin dalle prime pietre scagliate dai giovani palestinesi dopo la provocazione di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee, il giornalista Ari Shavit - uno di quei numerosi intellettuali di sinistra che in poche settimane hanno rinnegato tutte le loro convinzioni pacifiste - scrive in un editoriale di «Haaretz» che il problema non consiste, come troppo a lungo si è creduto, nel contenzioso israelo-palestinese e nell'occupazione, ma in quello che egli chiama il «destino ebraico», descritto come una eterna guerra di sopravvivenza di fronte a un mondo che ha sempre rifiutato l'esistenza degli ebrei e continuerà a farlo per l'eternità. Questo discorso, ripreso in continuazione dai media e dalla maggioranza degli intellettuali israeliani, si fonda su un'angoscia esistenziale profondamente radicata nella mentalità ebraica dopo il giudeocidio nazista, ma anche su una storiografia menzognera insegnata nelle scuole, che riduce duemila anni di storia ebraica a un gigantesco pogrom e a un antisemitismo senza tempo, irrazionale e unico, rendendo impossibile ogni sua comprensibilità e vano ogni tentativo di contrapporvisi.

Per i nipoti delle vittime del giudeocidio, ogni minaccia esistenziale, reale o immaginaria, è associata ad Auschwitz e a Treblinka: i palestinesi sono i nazisti, Arafat è uguale a Hitler, una imboscata nella quale vengono uccisi alcuni soldati è un massacro, una bomba a Tel-Aviv è la Notte dei cristalli. Con simili associazioni di idee, ogni possibilità di negoziato e di compromesso svanisce: il nazismo nella sua forma palestinese dev'essere sradicato, e tutti i mezzi sono legittimi.

Tuttavia l'israeliano sente inconsciamente che l'equazione «palestinesi = nazisti» è falsa: tale è la potenza militare di Israele, la sua schiacciante superiorità nei confronti dei palestinesi, che diventa piuttosto difficile, per l'israeliano, identificarsi con i miseri ebrei di Varsavia e di Vilna, e più ancora con i combattenti del ghetto di Varsavia o con i gruppi di partigiani in Bielorussia. Si verifica allora un orribile, perverso, rovesciamento di posizioni. Il continuo riferimento al genocidio degli ebrei d'Europa e l'onnipresenza delle sue terribili immagini, fanno sì che, se la realtà dei rapporti di forza rende impossibile adottare il comportamento delle vittime ebraiche, si adottano allora - di solito inconsciamente - i comportamenti dei massacratori del popolo ebraico: i palestinesi vengono marchiati sul braccio, costretti a correre nudi, ammassati dietro fili spinati e torrette di guardia; per un breve periodo, sono stati usati persino cani pastori tedeschi. Le retate nel campo di Deheisheh non possono non richiamare un altro periodo storico, anche se, chiaramente, la sorte dei rastrellati non sarà la morte, ma una detenzione senza limiti di tempo in condizioni spaventose. Il campo di detenzione di Offer non è un campo di sterminio, ma assomiglia molto ai campi di concentramento tedeschi degli anni trenta, con i fili spinati, le torrette, le masse di detenuti spaventati, privi di ogni diritto e tenuti in condizioni veramente disumane. Come non vedere che una fila di civili che sfilano con le mani in alto sotto la guardia di soldati armati mima l'immagine ossessiva degli ebrei di Varsavia in marcia verso la Umschlagplatz? Come non ricordarsi di questa stessa Umschlagplatz quando la televisione ci mostra, a Jenin, centinaia di uomini seduti per terra con le mani legate dietro la schiena, talvolta con gli occhi bendati?

Anche il linguaggio è quello dei nazisti, come nel caso del rabbino Israel Rosen che pubblica su «Haaretz» un articolo nel quale afferma la necessità di prendere in ostaggio le famiglie di kamikaze e di deportarle a Gaza, poi di distruggerne le case e raderne al suolo i villaggi. Il giornalista B. Michael scrive, a conclusione di un articolo nel quale cita affermazioni identiche a quelle del rabbino Rosen, fatte da alcuni ufficiali nazisti dopo i massacri di Lidice e di Oradour: «E chi, dopo tutto quello che ha letto, vorrà ancora credere che io paragoni, Dio me ne guardi, l'esercito israeliano all'esercito tedesco, si sbaglia completamente. L'equazione è stata fatta da chi ha rivolto quelle proposte all'esercito israeliano».

Alcuni giorni dopo che i media ebbero menzionato la «marchiatura» del braccio dei palestinesi, B. Michael, figlio di genitori scampati allo sterminio nazista, pubblicava un duro e doloroso articolo intitolato Da marchiato a marchiatore. «È fuor di dubbio che il percorso storico compiuto dal popolo ebraico nei sessant'anni che intercorrono fra il 1942 e il 2002 potrà fornire materiale ad appassionanti studi storici e sociologici. In soli sessant'anni, è passato da marchiato a marchiatore che impone un numero. In sessant'anni, è passato da chi è rinchiuso in un ghetto a chi rinchiude. In sessant'anni, da chi sfila in colonna con le mani in alto a chi fa sfilare in colonna con le mani in alto... In sessant'anni non abbiamo imparato nulla. Non abbiamo interiorizzato nulla. Abbiamo dimenticato tutto... Finalmente! Non siamo più un popolo strano e diverso, dal colorito pallido e dallo sguardo carico di saggezza, ma un popolo di soldati, brutale come lo sono tutti. Simile finalmente a tutte le altre nazioni».

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Pagina 59

Una separazione unilaterale


Uno degli elementi del nuovo consenso israeliano è quello secondo il quale è necessario costruire un muro «fra noi e loro». Questo progetto gode dell'appoggio della grande maggioranza della popolazione ed è sostenuto dall'intera classe politica, a eccezione di una parte dell'estrema destra. Alcuni, come l'ex ministro laburista Haim Ramon, ne hanno fatto il contenuto esclusivo del loro programma politico e della loro campagna elettorale.

Per Israele 2003, il muro è la sicurezza. Si è sicuri solo fra le proprie mura. Per un paese che si è sempre rifiutato di definire le sue frontiere, l'idea di un muro può sembrare paradossale. Tuttavia, essa è inscritta nella logica stessa del sionismo e del «ciascuno a casa propria» che sta dietro a questa ideologia. Da Herzl e Pinsker, alla fine dell'Ottocento, fino a Rehavam Zeevi e Haim Ramon, una società è considerata normale solo se è etnicamente omogenea. L'esclusione dell'altro, il razzismo (e quindi l'antisemitismo), sono fenomeni naturali che esprimono il bisogno che ha una società di respingere ogni corpo estraneo. Di qui la centralità del concetto di separazione.

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Pagina 63

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto superarmato, certo, e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c'è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l'esistenza degli ebrei, nel Medio Oriente e su tutta la Terra.

Quando Ariel Sharon invita gli ebrei di Francia a fare le valigie e a fuggire da una Europa rimasta antisemita e potenzialmente genocida, tutto ciò che egli può offrir loro è un grande bunker, armato di una immensa paranoia e di bombe nucleari. La miscela paranoia-arma nucleare rappresenta un pericolo mortale non solo per i popoli arabi che circondano Israele, ma evidentemente anche per lo stesso popolo israeliano, soprattutto in un momento in cui la nozione di guerra preventiva provoca la degenerazione dell'arena politica internazionale. Su una cosa non è possibile avere dubbi: un attacco nucleare israeliano - che, come si è visto, non è escluso dai generali-ministri Sharon ed Eitam - segnerà a termine la condanna a morte di una presenza ebraica nel Medio Oriente, oltre a scatenare verosimilmente una ondata antiebraica senza precedenti in tutto il mondo.

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Pagina 106

Una falsa democrazia

Negli ultimi due anni è stato possibile scorgere numerosi segnali di questa scomparsa delle norme più elementari della democrazia: il ritiro della cittadinanza israeliana ad arabi sospettati di legami con il terrorismo, l'annullamento dell'immunità parlamentare di deputati arabi, la legittimità concessa a opinioni, programmi politici e progetti di legge apertamente razzisti: in particolare, i progetti di pulizia etnica nei territori occupati e nello stesso Israele.

Questa evoluzione ha potuto avvenire rapidamente e senza provocare grosse crisi perché la concezione israeliana della democrazia è sempre stata molto particolare. Per gli israeliani, la democrazia si limita a due elementi: la supremazia della maggioranza sulla minoranza per il tramite delle elezioni, e il fatto che gli atti del potere esecutivo si basino su leggi votate dalla maggioranza parlamentare. Si tratta, com'è evidente, di una concezione della democrazia un po' striminzita, che fa completamente astrazione dal concetto di diritti. Contrariamente a quanto spesso si afferma, non è soltanto a causa dei partiti religiosi che Israele non ha mai avuto una costituzione: ciò è dovuto al fatto che i politici sionisti sono stati incapaci di definire una vera costituzione democratica in cui potesse esprimersi l'uguaglianza di tutti i cittadini e fossero definiti dei diritti fondamentali, indipendenti dalla volontà della maggioranza. Alla definizione di Israele come Stato ebraico (e democratico, secondo la formula consacrata) si accompagna lo stato di eccezione, legato a vari decenni di guerra e talmente radicato nella cultura politica israeliana che non ha potuto essere rimesso in discussione né dalla pace con l'Egitto, né dalla pace con la Giordania, né dalla Dichiarazione di princìpi relativa ai palestinesi.

Approfondiamo ancora questa problematica della democrazia in Israele: il passaggio, senza transizione alcuna, da un certo numero di organizzazioni nazional-coloniali a una struttura statale (1948) ha reso molto difficile l'adozione di «norme di gouvernance» che, per definizione, sono molto diverse da quelle usate da organizzazioni politico-militari non legate a un codice di leggi chiaramente definite. (Ne sanno oggi qualcosa i palestinesi, che trovano estremamente difficile passare dal funzionamento dell'OLP a un funzionamento semistatale nella forma di un'Autorità elettiva che deve adottare norme democratiche). A cinquant'anni dall'indipendenza, nel comportamento dello Stato di Israele e della sua classe politica si ritrova ancora una certa confusione fra lo Stato, i partiti al potere e gli uomini politici, fra un quadro legale cogente e un certo numero di interessi che fuoriescono da tale quadro (corruzione, certo, ma anche scelte politico-militari che violano la legge eppure sono ritenute necessarie dal potere esecutivo, come l'uso della tortura, gli assassinii extragiudiziari...). Per superare queste contraddizioni, lo Stato di Israele utilizza due meccanismi. In primo luogo, la negazione: essa porta a una vera e propria schizofrenia, come hanno mostrato le sistematiche menzogne dei servizi di informazione, della polizia e della Procura per quanto riguarda l'uso della tortura, menzogne pronunciate in tribunale che hanno provocato, alla fine, una grave crisi istituzionale e la creazione di una commissione nazionale di inchiesta. O ancora: la negazione dell'esistenza di un armamento nucleare ha impedito la creazione di meccanismi di controllo, il che, secondo gli esperti internazionali ha moltiplicato gli incidenti tecnici e ha fatto dei reattori nucleari israeliani i più pericolosi dopo quelli di Cernobyl.

Il secondo meccanismo è la legislazione personalizzata. Una legge (e per di più una legge fondamentale) esige che il candidato al posto di primo ministro sia un deputato. Netanyahu, che vorrebbe avanzare la sua candidatura, non lo è? Si cambia la legge fondamentale per permettere a Netanyahu di presentarsi. Un ex ministro è in galera per corruzione? Una forte campagna ne esige la liberazione: si vota una legge che permette di liberare certi detenuti che hanno scontato metà della pena. La legge fondamentale impone che non vi siano più di diciassette ministri al governo, ma, per formare la più larga coalizione possibile, Barak ha promesso un portafoglio a una trentina di uomini politici: si cambia allora la legge fondamentale.

Poiché è possibile cambiare le leggi - comprese quelle che hanno carattere costituzionale - in funzione degli interessi di certi individui o di esigenze congiunturali, perché non fare addirittura a meno della legislazione? Così Shaul Mofaz, l'ex capo di stato maggiore, si è presentato alle elezioni mentre il «periodo di raffreddamento» richiesto dalla legge fra la sua carica e la sua candidatura non è ancora trascorso. La tesi sostenuta da Mofaz dinanzi alla Commissione elettorale è di una chiarezza quasi ingenua: se qualcuno ci avesse pensato, non vi sarebbe stato alcun problema a cambiare la legge. Non è stato fatto per pura dimenticanza, allora fate come se la legge sia stata cambiata, e non parliamone più...

L'elasticità delle leggi è uno dei corollari della mancanza del concetto di diritti nella democrazia israeliana. Anche quando sono espressamente menzionati, come nel caso delle leggi fondamentali approvate negli anni della parentesi liberale, tali diritti sono sempre condizionati: «Purché una legge non disponga il contrario», oppure «Tranne in caso di urgenza» o ancora «Se ciò non è in contrasto con il carattere ebraico dello Stato di Israele». In una parola, i diritti fondamentali - come il principio di uguaglianza tra i generi o i cittadini di fede religiosa diversa - esistono, salvo che il parlamento decida democraticamente, cioè per decisione di una maggioranza parlamentare, di sopprimerli.

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Pagina 114

Nuova ideologia, nuovo regime


Sarebbe un grave errore sottovalutare il peso di queste tendenze apertamente antidemocratiche in seno alla classe politica israeliana: in primo luogo dal punto di vista numerico, perché esse rappresentano ormai più di un quarto dei deputati e quasi la metà dei ministri dell'attuale governo. In secondo luogo, dal punto di vista ideologico: mentre il vecchio discorso sionista, «ebraico e democratico», laico e a connotazione liberale, è in pieno arretramento, si assiste all'affermazione di un discorso e di una ideologia che rimodellano tutto l'insieme della cultura israeliana. Questa ideologia combina quattro elementi principali: un militarismo nazionalista più o meno associato all'integralismo religioso; un razzismo dichiarato; un oltranzismo impregnato di messianismo e una rimessa in discussione di ogni norma democratica. L'insieme di questi elementi rientra in una paranoia generale che porta a considerare il mondo intero come una minaccia mortale per l'esistenza stessa degli ebrei, nel Medio Oriente e altrove.

La prima conseguenza, indubbiamente la più perversa, di questa nuova ideologia è l'accettazione dello stato di assedio interno e la normalizzazione della morte: l'immenso spiegamento militare e poliziesco, le migliaia di guardie private all'ingresso di tutti i luoghi pubblici, ristoranti e supermercati, scuole e negozi, sono accettati senza la minima domanda, come la più normale delle forme di esistenza individuale e nazionale. A volte si direbbe addirittura che questa accettazione avvenga con piacere, come se per la società fosse più facile vivere tale realtà che non una normalità fondata su quello che la destra chiamava «il rischio di pace».

Peggio ancora: il gran numero di vittime israeliane, civili o militari, è inteso anch'esso come una fatalità a cui la società sembra abituarsi con sorprendente rapidità, tollerando un governo che si mostra incapace di garantire la sicurezza dei propri cittadini. «Il regno della morte»: con questa espressione, presa a prestito da Dylan Thomas, Nurit Peled, che ha perduto la figlia in un attentato a Gerusalemme, denuncia questo perverso abituarsi alla morte di persone innocenti.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all'interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall'esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: un deputato promette il plotone di esecuzione ai deputati arabi, un altro tratta come «traditori» i suoi colleghi del partito sionista Meretz e si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura, vengono regolarmente denunciati come antiebraici, e persino come «mafia di sinistra». Non c'è rispetto reciproco, né osservanza delle più elementari regole di civiltà, né soprattutto attaccamento alle regole della democrazia: queste ultime sono considerate perniciosi residui di un regime che è ormai tempo di sostituire con uno Stato autoritario e pronto finalmente ad adottare le misure che garantiranno la sua sicurezza e il suo carattere specificamente ebraico.

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