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| << | < | > | >> |Pagina 11Quando chiudo gli occhi siamo ancora tutti vivi e allora diventa ovvio cosa vogliono da noi gli dèi. La leggenda che raccontano sulla nostra famiglia potrà anche cominciare in quella giornata liquida e azzurra al largo di Kona con gli squali, ma io so che non è così. Abbiamo cominciato prima. Tu hai cominciato prima. Il regno delle Hawaii era stato distrutto da tempo - il respiro delle foreste pluviali e il canto delle verdi rocce sottomarine schiacciati sotto i pugni degli haole, resort sulla spiaggia e grattacieli - ed era stato allora che la terra aveva iniziato a chiamare. Adesso questo lo so grazie a te. E so anche che gli dèi avevano fame di cambiamento e quel cambiamento eri tu. Nei nostri primi giorni ho visto un'infinità di segni, ma non ci ho creduto. Il primo è arrivato mentre io e tuo padre eravamo nudi sul suo pick-up, nella valle di Waipi'o, e abbiamo visto gli spiriti marciare nella notte. Eravamo scesi nella valle di Waipi'o un venerdì, pau hana, con zia Kaiki che faceva da babysitter a tuo fratello a casa, e io e tuo padre sapevamo entrambi che avremmo usato quella serata senza figli per scopare fino a rimbambirci, solo il pensiero ci elettrizzava e ci stordiva. Come poteva essere altrimenti? Avevamo la pelle scurita dal massaggio del sole, tuo padre ancora con il corpo da giocatore di football, io da giocatrice di basket, e tutti e due vivevamo il nostro amore come il più eccitante dei vizi. E poi c'era la valle di Waipi'o: una profonda fessura di verde selvaggio divisa in due da un fiume brunoargenteo e lucido, poi una lunga spiaggia di sabbia nera che andava a infilarsi nelle spume del Pacifico. Una lenta discesa sul pick-up Toyota sfondato di tuo padre lungo la strada che dava accesso al fondovalle, tornante dopo tornante, uno strapiombo sul lato destro, asfalto bitorzoluto sotto le ruote, una pendenza tale che l'abitacolo si riempiva del puzzo delle viscere incandescenti del motore. Poi, in fondo alla valle, una strada tutta scossoni fatta di limo e pozze di fango alte mezzo metro, e infine arrivammo alla spiaggia e parcheggiammo proprio accanto alle uova di roccia nere e screziate che orlavano la sabbia; tuo padre mi fece ridere finché le guance non mi pizzicarono di calore, mentre le ultime ombre degli alberi puntavano lunghe verso l'orizzonte. L'oceano tuonava e sfrigolava. Srotolammo i sacchi a pelo sul cassone del pick-up, sopra il materassino puzzolente di ghiaia che tuo padre aveva steso li apposta per me, e quando gli ultimi ragazzini se ne andarono - con il brusio pesante dei bassi reggae che si perdeva fra gli alberi - ci spogliammo e facemmo te. Non credo che tu mi possa sentire mentre ricordo, no, perciò questo discorso non sarà troppo pilau, e comunque mi fa piacere tornare indietro con la memoria. Tuo padre afferrò una manciata dei miei capelli, i capelli che amava, neri e aggrovigliati da hawaiana, e il mio corpo cominciò a incurvarsi ritmicamente contro il suo bacino, e gememmo e ansimammo, schiacciammo l'uno sull'altro i nostri nasi tozzi, poi io mi staccai, mi misi a cavalcioni sopra di lui e mi abbassai di nuovo, e avevamo la pelle così bollente che avrei voluto metterla da parte per tutte le volte che avevo sentito freddo in vita mia, e lui mi passava le dita lungo il collo, la lingua intorno ai capezzoli scuri, con una delicatezza che era una parte di lui che non vedeva mai nessuno, e si sentivano i rumori del sesso e noi ridemmo un po', chiudendo gli occhi e riaprendoli e chiudendoli di nuovo, e continuammo anche quando il cielo perse la sua ultima luce. Mentre eravamo stesi sopra i sacchi a pelo, con l'aria fresca che ci asciugava il sudore facendoci pizzicare la pelle, tuo padre si fece serio in viso e si girò su un fianco, dandomi la schiena. «Hai visto?» chiese. Non sapevo cosa avesse visto - stavo ancora riemergendo da una specie di nebbia, ancora strofinavo le cosce per sentire il formicolio lì in mezzo, quello che restava della foga oleosa del nostro amore - ma poi tuo padre, di scatto, si tirò su a sedere. Io mi alzai sulle ginocchia, ancora ubriaca di sesso. Urtai con le tette il suo bicipite sinistro e i miei capelli gli sfiorarono una spalla, e nonostante la paura mi sentivo sexy e avrei quasi voluto stringerlo di nuovo a me, lì per lì, alla faccia del pericolo. «Guarda» sussurrò lui. «Dài, su» dissi io. «Piantala di fare lo scemo, lolo». «Guarda» ripeté lui. E io guardai, e quello che vidi mi raggelò. In lontananza, in cima al versante opposto della valle, era apparsa una lunga fila di luci tremolanti, che si alzavano e si abbassavano muovendosi lungo il crinale. Verdi e bianche, sfarfallanti, saranno state una cinquantina, e guardandole le riconoscemmo per quello che erano: fuochi. Fiaccole. Avevamo sentito parlare degli spiriti che marciavano di notte ma avevamo sempre dato per scontato che fossero solo una leggenda, parte di un inno a ciò che delle Hawaii era andato perduto, fantasmi degli ali'i morti e sepolti da secoli. E invece eccoli lì. A marciare lentamente sulla sommità della collina, diretti alle spalle oscure della valle e a ciò che aspettava i re non morti in mezzo all'umidità e alle tenebre. La fila di fiaccole avanzò pian piano lungo il crinale, brillando a intermittenza fra gli alberi, scendendo e risalendo, finché tutt'a un tratto le fiamme si spensero. Un gemito forte e gracchiante risuonò per la valle, tutto attorno a noi: un verso come quello che immaginai potesse fare una balena prima di morire. | << | < | > | >> |Pagina 71I soldi che avevo addosso venivano tutti da qualcun altro - sconosciuti a cui avevo venduto pakalolo al parco - ma adesso erano miei, erano forse l'unica cosa al mondo che mi sembrava mia. E di sicuro non erano abbastanza per cambiare qualcosa di importante nella mia famiglia. L'unico modo in cui potevo cambiare le cose era fare i soldi veri, soldi da haole, finché non ci fosse stato più niente che non potevo comprare a mamma e papà. Noa magari poteva diventare presidente o un nuovo kahuna o un dottore famoso o roba del genere, ma l'unica cosa che potevo diventare io ce l'avevo proprio lì in mano, la palla da basket. Mi rimisi i soldi in tasca. Uscii dalla porta e mi incamminai per strada, attraversando Kalihi nell'oscurità.A quell'ora il parco era chiuso, ma non voleva dire niente, e il tabellone del canestro era coperto di muschio ai lati e sporco di fango perché nel pomeriggio la gente aveva giocato sotto la pioggia. La retina era bucata in un paio di punti, moscia e annodata. Palleggiai un po', ascoltando l'eco dei rimbalzi. Si alzò il vento e gli alberi fecero un rumore come di applauso. Al primo tiro chiusi gli occhi, non lo so perché. Tirai lasciando andare la palla con tutta l'energia che saliva dalle caviglie, un movimento pulito, ma quando la palla mi si staccò dalle dita lo capii subito che era un brutto tiro, e poi sentii il rumore del ferro e la palla che rimbalzava contro la rete di recinzione. Rimasi a guardarla finché non si fermò. La recuperai e tirai di nuovo, a occhi aperti, e la palla fece dentro-e-fuori sul ferro e rimbalzò via, via, fino alla linea laterale del campo. La rincorsi e la tenni in campo. Girai l'angolo e feci un cambio di direzione, poi un altro, spalle a canestro come quando c'hai il difensore addosso, poteva essere uno della Kahena Academy, o qualcun altro che pensava di riuscire a marcarmi. Ma nessuno può difendere contro di me. Ruotai il corpo e saltai in allontanamento, lasciando andare il tiro con una parabola perfetta. Lo vidi scendere verso il canestro. Lo sapevo che sarebbe entrato, lo vedevo già, solo retina, doveva entrare, per forza, per forza, è questo che sto dicendo, sono inarrestabile. | << | < | > | >> |Pagina 73Non sento la tua voce ma so che stai ancora ascoltando, sempre. E allora te lo posso dire: a volte credo che non sarebbe successo niente di tutto questo se fossimo rimasti a Big Island, dove gli dèi sono ancora vivi. La dea del fuoco Pele con la sua forza incrollabile, che partoriva continuamente la terra nella lava, esalando fiato sulfureo verso il cielo. Kamapua'a, desideroso del suo amore, che usava le piogge e i fuggifuggi degli zoccoli dei porci per spaccare la lava, trasformarla in suolo fertile, come avviene su tutte le colline erbose di Waimea, fino al fondo delle valli, tutto intorno a dove sei nato tu. Oppure c'è Kū, dio della guerra, che un giorno si gettò dentro quello stesso suolo, trasformandosi da padre e marito che era in un albero, albero che desse frutti per la moglie e i figli che morivano di fame. Il primo albero del pane. Era un dio della guerra, ma era anche un dio della vita. A volte si presentava sotto forma di squalo... Per cui mi chiedo se una parte di lui sia in te, e una parte di te sia in lui, così come il mare, la terra e l'aria qui sono tutti fatti della stessa sostanza degli dèi. Era questo che credevo, all'inizio: che tu fossi fatto della stessa sostanza degli dèi, che saresti diventato una nuova leggenda, in grado di cambiare tutto quello che faceva male alle Hawaii. L'asfalto che schiacciava le piante di | << | < | > | >> |Pagina 85Per come la vedo io i primi hawaiani, prima di diventare hawaiani, se ne stavano là alle Fiji o a Tonga o non so dove, e facevano troppe guerre contro troppi re, e fu allora che i più forti si misero a guardare le stelle, e ci videro una mappa per un futuro che potevano andarsi a prendere. Si spaccarono la schiena a costruire canoe capaci di resistere alle onde alte dodici metri, e vele grandi abbastanza da trasformare il vento in un pugno, e finalmente si liberarono dalle loro terre d'origine. Ciao ciao vecchi re, ciao ciao vecchi dèi, ciao ciao vecchie leggi, ciao ciao vecchi poteri, e ciao ciao a tutti i limiti. E arrivò un momento in una di quelle notti in mare, coi muscoli tatuati incrostati di sale, che videro splendere la luce bianca della luna su questa nuova terra, le Hawaii, e fecero tipo: è questa. È nostra. È per noi, è adesso. E io uguale la mia prima notte a Spokane. Sul serio, mi sentivo dentro tutti i re del passato, ma di brutto, mi pareva di averli proprio nel cuore, me li sentivo cantare nel sangue. Li vedevo lì con me, anche senza chiudere gli occhi. Eravamo uguali, io e loro: mi ero lanciato nel lungo strappo di cielo tra le Hawaii e la terraferma, avevo visto le griglie di luci delle città del continente, i grattacieli e le autostrade che andavano avanti all'infinito, tutte bianco e oro. E per me erano come le stelle che avevano guidato i primi hawaiani, indicavano la via verso quello che mi spettava. Quando scesi dalla navetta notturna per Spokane e mi trovai di fronte i prati puliti e le palazzine di mattoni nuove e vidi lo staff tecnico schierato a darmi il benvenuto come una delle migliori matricole di basket in tutto il paese, anch'io feci tipo: è per me, è adesso. Mettetemi la corona, stronzi. Prima di allora, alle Hawaii, da me volevano una cosa sola: dovevo credere in Noa, lo dovevo far crescere. Tipo che era compito mio fargli da balia, da secondo pilota, e aiutarlo ad arrivare al traguardo. Be', mi dispiace, ma io a fare il secondo pilota non sono proprio adatto. E alla fine a che serviva? Non è che Noa c'avesse portato chissà che svolta, a fine mese mamma e papà erano sempre a corto di soldi. Come tutti gli altri nelle isole. L'unico modo per scappare da un posto del genere è diventare così bravo che alla fine devono per forza pagarti. E pagarti un sacco. Ed era questo che avrei finalmente fatto, appena arrivato a Spokane.
Iniziò, cos'era?, nell'autunno del 2004. Il basket era l'unica
cosa che contava. Avevamo gli allenamenti pre-stagione gestiti
dal capitano e così eravamo tutti al palazzetto, al piano di sopra
dove c'è la pista di atletica, a fare squat contro il muro e scatti
intervallati, poi di nuovo in sala pesi. Gli altri mi chiedevano se
avevo mai visto un posto del genere, file e file e file di spalti coi
sedili lucidi per migliaia di spettatori, la sala pesi attrezzata con
macchinari delle migliori marche e le rastrelliere appena riverniciate, e io
tipo: Non è che perché vengo dalle Hawaii non ho
mai visto una cosa del genere, eh. Però avevano ragione, non
per via delle Hawaii, ma per via della Lincoln High. Strutture
del genere le avevo viste solo quando giocavamo in trasferta
contro una di quelle cazzo di scuole da ricchi tipo Kahena o
altre. Quindi alla fine sì, l'avevo visto un posto così, ma non era
mai stato mio.
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