Copertina
Autore Paul Watzlawick
Titolo Il codino del Barone di Münchhausen
SottotitoloOvvero: psicoterapia e "realtà"
EdizioneFeltrinelli, Milano, 1989, Campi del sapere , pag. 218, dim. 142x220x18 mm , Isbn 978-88-07-10125-0
OriginaleMünchhausen Zopf Oder Psychotherapie und "Wirklichkeit" [1988]
TraduttoreDino Carpineti
LettoreRenato di Stefano, 1994
Classe scienze umane , psicologia , sociologia
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Indice


Pag.

  7 Prefazione

  9 1.  Natura e forme delle relazioni
            umane
  9     Cibernetica, teoria generale dei
            sistemi e pragmatica come base
            dello studio dei rapporti
            umani
 15     Regolarità e patologie dei sistemi
            relazionali
 26     Forme patogene di comunicazione
 30     Conclusioni finali sull'influenza
            del comportamento
 34     Uno sguardo sul futuro sviluppo
            della ricerca comunicativa

 36 2.  La trasformazione dell'immagine
            umana nella psichiatria

 56 3.  Trattamento breve di un caso di
            depressione (con J.C.Coyne)
 57     Presentazione del problema
 59     Conduzione della terapia
 63     Discussione

 65 4.  Principi ipnoterapeutici nella
            terapia familiare

 74 5.  Terapia breve di disturbi
            schizofrenici

 91 6.  La comunicazione immaginaria
 91     Il paradosso di Newcomb
 98     Flatlandia

103 7.  Adattamento alla realtà o "realtà"
            adattata?
        Costruttivismo e spicoterapia

119 8.  Stili di vita e "realta"

127 9.  Management ovvero costruzione
            di realtà

140 10. Il codino di Münchhausen e
            la scala di Wittgenstein.
        Sul problema dell'autoreferenza

163 11. Componenti di "realta" ideologiche
164     L'origine pseudo-divina
            delle ideologie
166     Il presunto bisogno psicologico
            dell'ideologia
167     I paradossi del valore eterno
170     I paradossi della perfezione e
            dell'infinito
175     Eresia e paranoia
183     Il paradosso della spontaneità
            richiesta
189     La pretesa di scientificità
193     L'enantidromia

199 Epilogo: verso un mondo
        di comunicazione totale?

207 Bibliografia

215 Elenco delle fonti


 

 

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Pagina 14

Con ciò pensiamo di aver delineato una differenza basilare tra il modo di vedere monadico e quello pragmatico. Nella visione monadica ci domandiamo il motivo, l'origine la causa, quindi il "perché", nella visione pragmatica ci chiediamo "ciò" che accade qui e ora.

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Pagina 16

Ora, nell'essenza della natura sovrapersonale dei fenomeni relazionali è presente il fatto che la loro struttura è accessibile in modo relativamente semplice a chi sta al di fuori del rapporto, ma non ai partner stessi. Così come è impossibile percepire il proprio corpo nella sua totalità, perché gli occhi, in quanto organi della percezione, sono parte del corpo da percepire. Ma ciò porta inevitabilmente, ad attribuire la colpa, quando insorgono conflitti relazionali, alla cattiva volontà o alla pazzia del partner, dato che "ovviamente" non è possibile attribuirla a se stessi, e dato che tra i due partner non sembra esserci una "terza" possibilità. ...

Se tanto il partner A che il partner B trovano nel "dare" la loro soddisfazione fondamentale, il loro rapporto sfocerà molto probabilmente in un conflitto ben determinato. Poiché chiunque "dia" dipende da un recettore, che solo col suo esistere fa di lui un donatore, entrambi tenteranno di indurre l'altro a "prendere", mentre entrambi vedranno nel tentativo dell'altro di contendere il monopolio del dare una dimostrazione di insensibilità e di rifiuto. Questa forma di conflitto interpersonale verrà aggravata in particolare dal fatto che nella visione di entrambi i partner la "mancanza d'amore" dell'altro non compare chiaramente, ma è diabolicamente mascherata da un'inattacabile facciata di benevolenza e di premure. In "realtà" entrambi avvertono quanto poco l'altro li ami.

Un rapporto che si basi più o meno esclusivamente sull'aiuto di A a B lascia aperte, per la sua stessa indole, solo due possibilità di sviluppo. Gli sforzi di A restano infruttuosi, nel qual caso il rapporto naufragherà perché A prima o poi si sentirà sfruttato da B e si ritirerà scoraggiato dal rapporto. Se invece A riuscirà nei suoi sforzi e B non avrà più bisogno del suo aiuto, allora il rapporto sarà privato delle proprie basi e si spezzerà.

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Pagina 31

Come ho già accennato, nella visione pragmatica non è messo in discussione solo il supposto nesso causale tra determinati fattori nel passato (patogenesi) e determinati altri nel presente (sintomatica), ma altresì, in particolar modo, il postulato dell'insight come precondizione di ogni cambiamento. Nella vita quotidiana, l'insight raramente accompagna il cambiamento o la maturazione, e men che mai li precorre.

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Pagina 80

La storia della scienza è piena di tali acrobazie di pensiero. "Se i fatti non concordano con la teoria, allora tanto peggio per i fatti" avrebbe detto Hegel. In altri termini: se una teoria viene a un certo punto accettata come "vera", i fatti che la contraddicono devono essere senza significato oppure sbagliati, o - cosa ancora più pericolosa - possono condurre a un raffinamento della teoria ma non alla sua verifica "dai fondamente". Solo una "rivoluzione scientifica" nel senso inteso da Kuhn (1973) rende possibile tale verifica. Mi pare indubbio che la controversia sull'essenza e il trattamento dei disturbi schizofrenici (nonché di tutti i disturbi funzionali) sia proprio di questa sorta.

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Pagina 102

Ciò che "Flatlandia" pertanto descrive è la completa relatività della realtà, ed è per questa ragione che vorremmo che i giovani lo leggessero. La nostra storia dimostra che non esiste un'idea più omicida dell'illusione di una realtà "reale", con tutte le conseguenze che logicamente ne derivano. D'altra parte, la capacità di vivere con la verità realtiva, con domande per le quali non ci sono risposte, con la conoscenza di non sapere nulla e con le incertezze generate dal paradosso, è probabilmente l'essenza della maturità umana e della tolleranza per gli altri. Senza questa capacità ci relegheremmo, senza rendercene conto, nel mondo del Grande Inquisitore in cui vivremo la vita di pecore, infastidite di tanto in tanto dal fumo acre che si leva da qualche "auto da fé" o dai camini dei forni crematori.

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Pagina 106

Per quanto ne so, l'ipotesi di una realtà "reale" si è conservata solo in psichiatria. In questo contesto sembra utile tracciare una distinzione fondamentale tra due aspetti della realtà che si evidenziano con un semplice esempio sovente utilizzato: le qualità fisiche dell'oro sono note dall'antichità ed è improbabile che esse (proprio come un gran numero di altri risultati della ricerca naturalistica) possano esser messe in discussione da nuove ricerche o arricchite da nuove e fondamentali scoperte. Se due esseri umani fossero in disaccordo sulle qualità fisiche dell'oro, sarebbe relativamente facile addurre la prova naturalistica che uno dei due ha ragione e l'altro torto. Queste qualità dell'oro possono essere definite la sua realtà di primo ordine. Ma accanto a questa sussiste chiaramente una realtà di secondo ordine dell'oro, e cioè il suo valore, che non ha assolutamente nulla a che fare con le qualità fisiche del metallo ma è una attribuzione fatta dagli uomini. E anche questa realtà dell'oro è, a sua volta, il risultato di altri fattori, come per esempio della domanda e dell'offerta, o delle ultime dichiarazioni dell'ayatollah Khomeini. Tutti questi fattori hanno tuttavia in comune il fatto di essere costruzioni umane, e non il riflesso di verità indipendenti dall'uomo. Con ciò va detto che la cosiddetta realtà, con la quale abbiamo soprattutto a che fare in psichiatria, è comunque una realtà di secondo ordine e viene costruita artificialmente tramite l'attribuzione di senso, significato o valore alla realtà di primo ordine in questione. La differenza tra queste due realtà è efficacemente espressa nel famoso indovinello sulla differenza che esiste tra un ottimista e un pessimista: l'ottimista dice che una bottiglia di vino è mezzo piena, il pessimista che è mezzo vuota. La stessa realtà di primo ordine, ma due realtà di secondo ordine fondamentalmente diverse.

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Pagina 107

Applicato alla genesi e alla soluzione dei problemi umani, ciò significa che ci sentiamo in sintonia con la vita, col nostro destino, con l'esistenza, con Dio, con la natura o qualsiasi nome utilizziamo, finché la realtà di secondo ordine da noi costruita è adeguata nel senso di Ernst von Glasersfeld, cioè non presenta stimoli dolorosi. Finché abbiamo questa sensazione, siamo in grado di superare abbastanza tranquillamente anche le grandi contrarietà. Se invece questa sensazione di adeguatezza manca, precipitiamo nella disperazione, nella paura, nella psicosi o pensiamo al suicidio. Si citi solo a margine che le maggiori prestazioni intellettuali e artistiche dell'umanità sono chiaramente animate da una struggente nostalgia di armonia e di certezza. L'errore nel quale siamo tutti invischiati è però la supposizione che una costruzione della realtà sufficientemente adeguata dia la certezza che il mondo sia "realmente" così, e che in questo modo la certezza e la sicurezza definitive possano dirsi raggiunte. Le possibili conseguenze di quest'errore sono gravi: esso ci spinge infatti a dichiarare sbagliate (ed eventualmente a combattere) tutte le costruzioni della realtà diverse dalla nostra, e ci impedisce di prendere in considerazione realtà alternative quando la nostra immagine del mondo diventa anacronistica e quindi sempre meno adeguata.

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Pagina 115

Oppure un esempio clinico: la frigidità viene vissuta dalle interessate principalmente come un'inibizione personale, un'incapacità, e in quest'ottica viene confermata da un lungo elenco di spiegazioni "scientifiche" di varia natura e, in parte, del tutto contraddittorie: immaturità, insufficiente realizzazione della propria femminilità, invidia del pene, omosessualità latente, aggressività inconscia verso il maschio. In particolare quest'ultima "spiegazione" aggiunge all'insinuazione di una patologia personale anche quella di una cattiva intenzione. È difficile immaginare finzioni "come se" più efficaci per impedire praticamente una reazione naturale del tutto normale. Una finzione molto più opportuna consisterebbe per esempio nel fornire al problema un'interpretazione e un significato completamente diversi, presentandolo per esempio come una difesa esagerata del partner. Lei pensa forse che lui non sia all'altezza della sua passionalità disinibita? Ha forse motivo di temere che lui ne sarebbe sconvolto se lei desse libero sfogo alla sua sessualità nel rapporto? Teme forse che diventerebbe impotente e gli risparmia la paura di non essere all'altezza delle sue esigenze naturali? Quindi non sarebbe forse meglio per il momento di lasciare la situazione immutata? Se la ristrutturazione ha successo, la persona riuscirà a sbloccare l'atteggiamento di fondo spesso disperato contraddistinto dalla sensazione "dovrei reagire ma non posso". Una volta di più deve essere chiaro che né questa né le interpretazioni tradizionali sono altro che finzioni, che non possono accampare alcun diritto alla verità e alla giustezza; ciò che conta sono solo i risultati pratici che una finzione "come se" produce. Se viene raggiunto il risultato pratico desderato, allora la finzione - per utilizzare l'espressione di Vaihinger - esce di scena; essa ha svolto il suo compito come il diciottesimo cammello.

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Pagina 134

Ma - scolastica a parte - di importanza ancor più fondamentale per il tema dell'attribuzione di senso sono le cosiddette profezie che i autodeterminano. Come è ormai noto, esse scaturiscono da determinate ipotesi (o aspettative o credenze) che, per il fatto stesso di essere state formulate, conducono all'avverarsi dell'evento ipotizzato. In altre parole: la profezia dell'evento porta all'evento della profezia. A un'osservazione superficiale le profezie che si autodeterminano sembrano portare "ad absurdum" il pensiero lineare causale. Mentre nel modo di pensare classico il presente viene condizionato dal "passato", qui un evento previsto con certezza, e quindi, si potrebbe dire, già prodottosi "realmente" nel "futuro", determina ciò che accade nel qui e ora. Comune a entrambi i modelli di pensiero è tuttavia il fatto che essi sono prigionieri di un modello di causalità al quale il modo di pensare cibernetico, col suo concetto di retroattività degli effetti sulle proprie cause, è ancora estraneo. Le conseguenze che ne derivano sono sufficientemente note. Essi costruiscono situazioni che, in primo luogo, non sarebbero mai comparse se non fossero state inizialmente ipotizzate, e che, in secondo luogo, sembrano richiedere per la loro soluzione il rafforzamento delle misure adottate fino a quel momento. I piani quinquennali sovietici, rigidamente condizionati dall'ideologia e dal dirigismo, e la realta economica e sociale che per loro tramite si costruisce ne sono un esempio particolarmente estremo e ricordano l'asserzione apodittica di Hegel: "Se i fatti non corrispondono alla teoria, tanto peggio per i fatti".

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Pagina 147

Prendiamo il problema del determinismo. Il determinismo, come ben sappiamo, è una visione del mondo che interpreta tutto ciò che accade come rigidamente condizionato causalmente, ed esclude quindi la possibilità di una libera scelta. Nell'ambito del determinismo l'ipotesi dell'esistenza del libero arbitrio diventa essa stessa una delle miriadi di effetti che un evento - ovviamente per parte sua rigidamente determinato - ha avuto nel passato sull'interessato e lo ha indotto appunto a pensare di avere un libero arbitrio. Con ciò il mondo sembra compreso senza contraddizioni nella sua oggettività e nella sua globalità, e tutto sembra in ordine finché non ci si chiede (autoreferenzialmente) da dove provenga l'idea del determinismo stessa. Da qualunque punto di vista la si guardi, in base alla nostra stessa logica aristotelica (bivalente) questa idea non può essere che determinata o indeterminata. Se è determinata, allora nasce subito la domanda se la sua determinazione sia a sua volta determinata, e così via in un regresso all'infinito e quindi alla fine indimostrabile. Ma se non è determinata, allora tutta la visione deterministica del mondo si basa su una premessa che contraddice se stessa e quindi, nella sostanza, sull'ipotesi arbitraria e indimostrabile che tutto sia determinato.

Analogamente Karl Popper definisce, con espressione felice, il razionalismo come la fede irrazionale nella razionalità, e molto prima di lui Sören Kierkegaard era partito da questa intuizione per sferrare il suo attacco al razionalismo e sostenere la sua difesa dell'assurdo. Il razionalismo è necessariamente limitato, poiché l'esattezza di un sistema non è mai dimostrabile, ma presuppone sempre un assunto dogmatico, una decisione assurda (cioè non razionale) la cui scelta non si può giustificare in base ad alcun criterio razionale. E Kierkegaard è giunto persino all'affermazione vivificante che la giustificazione dell'irrazionalismo proveerebbe proprio dalle conseguenze del razionalismo.

Per dimostrare autoreferenzialmente la propria coerenza e logicità, ogni sistema impostato sulla logica aristotelica ricade quindi nel dilemma: o tenta di produrre tale dimostrazione all' «interno» del proprio ambito, cosa che porta ad un gioco senza fine (il paradosso di Russell); oppure deve, per produrre tale dimostrazione, ricorrere a premesse «esterne» al proprio ambito, che per dimostrare la propria verità, coerenza e così via necessitano di un ambito ulteriore, ancor più ampio e a sua volta nuovamente indimostrato. Il problema quindi non è risolto, ma solo rinviato.

Stretti limiti sono tuttavia imposti al rimandare. Nella ricerca comunicativa umana, per esempio, non riusciamo già a procedere nello studio della metacomunicazione, e cioè nella comunicazione sulla comunicazione. Ogni messaggio diretto a un altro comunica qualcosa, ma contemporaneamente dice anche qualcosa su se stesso; indica cioè in che modo il ricevente debba intenderlo, se come un ordine, uno scherzo o un'esortazione. Questo secondo aspetto, quello metacomunicativo, è di importanza straordinaria, poiché esprime e determina l'essenza dei rapproti umani. Lo studio degli effetti comportamentali (pragmatici) della comunicazione, e in particolare dei conflitti e delle patologia a essa connessi, implica quindi un'analisi della metacomunicazione. Ma mentre, per esempio, il matematico ha a disposizione il linguaggio matematico (numeri, segni algebrici, ecc.) per la matematica stessa e i linguaggi naturali per esprimere la metamatematica, noi possediamo solo i linguaggu naturali per esprimere sia la comunicazione sia la metacomunicazione. Nello studio della comunicazione è connaturato il fatto che essa non possa ricorrere a un sistema espressivo più ampio, che non possa tirarsi fuori dalla palude afferrandosi per il codino. Ma anche se riuscissimo a sviluppare un linguaggio della metacomunicazione, non avremmo risolto nulla. Saremmo allora, da un punto di vista scientifico, quasi nella stessa situazione dei matematici, ai quali Gödel (1931) ha dimostrato nella sua sensazionale opera sugli enunciati formalmente indecidibili che nessun sistema la cui complessità corrisponda almeno a quella dell'aritmetica potrà mai dimostrare autonomamente la propria completezza e coerenza (senza ricorrere ai teoremi, a lo volta nuovamente indimostrabili, di un sistema ancora più ampio).

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Pagina 151

Come si può constatare, vari punti di vista concordano con ittgenstein, che nel "Tractatus" (4.442) afferma: "Una proposizione non può enunciare, di se stessa, che è vera". Peccato, tuttavia, che anche questa frase sia una frase che dice qualcosa su se stessa, proprio come quella che ho appena pronunciato. Livelli e metalivelli, comunicazione e metacomunicazione si mescolano paradossalmente e ci pongono continuamente di fronte all'immagine del cane che si morde la coda o a quella del burlone che dice: "Come sono contento di non sopportare gli spinaci; perché se mi piacessero, li mangerei - e io odio quella roba!".

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Pagina 158

Il significato dell'autovalore per noi profani in matematica è purtroppo comprensibile solo intuitivamente e solo simbolicamente trasferibile ad altri campi dell'esistenza. Esso pone nuovamente in discussione, per esempio, la dimostrazione apparentemente definitiva di Kurt Gödel secondo la quale nessun sistema può dimostrare se stesso a partire da se stesso. In questo contesto è opportuno citare il libro "Laws of Form" di George Brown, come pure i lavori del cibernetico Heinz von Foerster e del neurofisiologo Francisco Varela sull'autoreferenza. Ciò che essi dimostrano è che un sistema trascende se stesso nel suo autovalore, e può dimostrare la propria coerenza, per così dire, dall'esterno, ma senza ricorrere a un sistema più grande e di nuovo a sua volta non chiuso. Con un'espressione molto da profano direi che con questo il sistema porta a compimento il pezzo di bravura del Barone di Münchhausen.

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Pagina 160

Di primo acchito è quasi impossibile non fraintendere questo fatto. Dobbiamo tuttavia comprendere che nelle dinamiche di pensiero che abbiamo illustrato si verifica un salto verso un livello logico superiore - non una sintesi hegeliana degli opposti che, per parte sua, è solo un polo di una coppia di opposti - e che tramite questo salto il contrasto tra gli opposti si dissolve e l'autoreferenza acquista un senso. Finché il nostro pensiero rimane prigioniero della dicotomia aristotelica delle coppie di opposti, si può trarre dal quadro che abbiamo tracciato un'unica conclusione, e cioè la disperazione e la stanca rassegnazione. Proprio nella pratica psicoterapeutica incontriamo spessissimo esseri umani i quali, presumendo di aver definitivamente compreso l'insensatezza del mondo e della vita, pensano che non valga la pena di vivere. Che ne è allora della sublime sorpresa di Chesterton? Ma la situazione per questi uomini è fondamentalmente diversa. Chi si dispera per l'insensatezza del mondo continua a essere vittima dell'illusione che debba esservi un senso, che però non esiste. A causa di ciò il omndo e la vita diventano per lui insopportabili. Per questo l'"incoraggiamento" del paziente, sempre tentato a fin di bene (anche da parte degli psichiatri) risulta assurdo e controproducente. Per nulla tragica è invece l'osservazione del re in "Alice nel paese delle meraviglie", che dopo aver letto l'insensata poesia del coniglio bianco arriva con sollievo alla conclusione: "Se non vi è un senso, questo ci risparmia allora un sacco di lavoro, perché non abbiamo bisogno di cercarne uno."

Quello che ci insegna, a mio parere, il fenomeno dell'autoreferenza è che né il mondo ha un senso né non ce l'ha - che la questione del senso è senza senso. Quello che il mondo non ha non può neppure nasconderlo. Già Wittgenstein (Tractatus 6.5) ha detto: "Non esista l'enigma" e "la soluzione del problema della vita va vista nello svanire di questo problema" (6.521). Il mondo ha un autovalore che alla fine è il nostro proprio. A chi chiede qual è la giusta via per l'illuminazione sembra che i maestri zen rispondano che finché si cerca il "satori" non lo si può avere.

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Pagina 170

I paradossi della perfezione e dell'infinito. Per quanto audace, auutorevole e apparentemente compiuta possa apparire la più eminente delle dottrine, essa contiene un'imperfezione fatale: non può dimostrare la propria completezza e non contraddittorietà servendosi di argomenti interni alla propria logica. Questa condizione fondamentale della struttura logica di ogni realtà da noi costruita è stata esaminata nel modo più approfondito dai matematici - soprattutto da Kurt Gödel (1931) - e le loro conclusioni sono valide per tutti i sistemi concettuali il cui grado di complessità sia almeno pari a quello dell'aritmetica. Per dimostrare la propria completezza e non contraddittorietà è indispensabile che il sistema in questione esca dai propri limiti concettuali e si serva di principi interpretativi che non può produrre al suo interno. La non contraddittorietà di questi nuovi argomenti supplementari - quindi della metateoria - può essere a sua volta dimostrata soltanto all'interno della metateoria di un sistema ancora più ampio la cui coerenza logica di nuovo non è dimostrabile a partire dalle proprie affermazioni, e così via all'infinito. Da Whitehead e Russell (tr.it. 1979) apprendiamo che qualsiasi cosa si riferisca a una totalità non può essere essa stessa parte di questa totalità, vale a dire non può riferirsi a se stessa senza cadere nei paradossi dell'autoreferenzialità. Il famoso mentitore che dice di se stesso: "Io mento", rappresenta la forma più semplice di un tale paradosso. Se mente davvero, allora la sua affermazione è vera; se però è vera, allora non è vero che egli menta, e perciò mentiva quando diceva di mentire. Dunque egli mente... ecc. ecc. In parole povere: l'affermazione "Io mento" si riferisce da un lato alla "totalità" (in termini matematici: all'"insieme") delle sue affermazioni, ma contemporaneamente anche a una parte" (a un "elemento") di questa totalità, e cioè a questa "sola" affermazione. Laddove insieme ed elemento non sono tenuti rigidamente separati, si creano i paradossi dell'autoreferenzialità che la logica formale ben conosce. Il quadro non è la cosa ritratta, il nome non è la cosa nominata, una spiegazione della realtà è solo una spiegazione, e non la realtà stessa. (Solo il paziente schizofrenico mangia la lista dei cibi, anziché i cibi in essa elencati.) Tutti gli errori, constatava Kant, sono riconducibili al fatto che noi scambiamo i risultati del nostro modo di definire, derivare o classificare concetti per le condizioni delle cose in sé.

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Pagina 191

La realtà che stiamo ora prendendo in considerazione (e che l'ideologia si propone di spiegare) non è quella dei fatti scientifici, non è la realtà di primo ordine. Qui si tratta piuttosto di quell'aspetto della realtà attraverso il quale vengono attribuiti senso, origine e valore ai fatti di primo ordine. Anche un bambino con una vista normale può percepire una luce rossa, ma ciò non vuol dire che egli sappia se essa vieta l'attraversamento di una strada o se indica un bordello. Il "significato" della luce rossa non ha assolutamente niente a che fare con la sua lunghezza d'onda o cose simili. Esso è piuttosto una convenzione umana, un'attribuzione di senso che, come ogni altro segnale, e - ancor più palesamente - come la parola, non ha alcun ulteriore rapporto con la cosa da essa designata (a eccezione, naturalmente, delle cosiddette parole onomatopeiche). Come affermano Bateson e Jackson, "nel numero cinque non vi è nulla di particolarmente tipico del cinque e nalla parola "tavolo" non vi è nulla di particolarmente simile a un tavolo". In questa luce, l'osservazione di Shakespeare "Nessuna cosa in sé è buona o cattiva, è il pensiero che la rende tale" acquista un nuovo significato. Quell'aspetto della realtà nell'ambito del quale avviene l'attribuzione di senso, ordine e valore, prende il nome di realtà di secondo ordine.

 

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Riferimenti


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