Copertina
Autore Simone Weil
Titolo Incontri libertari
Edizioneeleuthera, Milano, 2001, , pag. 192, cop.fle., dim. 125x190x11 mm , Isbn 978-88-85060-52-4
CuratoreMaurizio Zani
TraduttoreMaurizio Zani
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe politica , storia contemporanea
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Indice

       Un pensiero inquieto                   7
       Nota bio-bibliografica                16

       GUERRA SOCIETÀ E STATO                21

    I. Dopo la morte di Briand               25
   II. Il centenario di Paul Bert            28
  III. Riflessioni sulla guerra              31
   IV. Il raggruppamento dell'Ordine Nuovo   44

       LA CRITICA A MARX                     51

    V. In margine al Comitato di studi       58
   VI. Dopo la morte del Comitato dei 22     61
  VII. Le forme di sfruttamento              66
 VIII. Frammento                             68
   IX. Progetto di articolo                  72
    X. Meditazioni sull'obbedienza e sulla
       libertà                               76
   XI. Sulle contraddizioni del marxismo     83
  XII. Esame critico delle idee di
       rivoluzione e progresso               92
 XIII. Riflessioni sulla barbarie            99

       LENIN E TROCKIJ                      105

  XIV. Condizioni per una rivoluzione
       tedesca. «E ora?» di Lev Trockij     110
   XV. «Storia della Rivoluzione russa»
       di Trockij                           117
  XVI. Lenin: «Materialismo e
       empiriocriticismo»                   120

       LA SOCIETÀ TECNO-BUROCRATICA         129

 XVII. Prospettive. Andiamo verso una
       rivoluzione proletaria?              133
XVIII. Il problema dell'URSS                156

       LA QUESTIONE TEDESCA                 161

  XIX. Il riformismo tedesco                165
   XX. Il partito comunista tedesco         180

 

 

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Pagina 31

III
RIFLESSIONI SULLA GUERRA
[1933]



La situazione attuale e lo stato d'animo che essa suscita rimettono ancora una volta all'ordine del giorno la questione della guerra. Si vive ora nell'attesa permanente di una guerra; il pericolo è forse immaginario, ma la percezione del pericolo esiste e ne costituisce un fattore non trascurabile. Attualmente, l'unica reazione che si può constatare è quella del panico, più coraggio che panico dinanzi alla minaccia del massacro; più panico che coraggio da parte delle menti di fronte ai problemi che essa pone. Da nessuna parte lo smarrimento è più evidente che nel movimento operaio. Se non facciamo un serio sforzo di analisi, rischiamo che un giorno vicino o lontano la guerra ci colga incapaci non solo di agire, ma anche di giudicare. E prima di tutto bisogna fare il bilancio delle tradizioni sulle quali, più o meno consapevolmente, abbiamo vissuto fino a questo momento.

[...]

Una così grande incertezza e tanta nebulosità possono sorprendere e devono procurare vergogna quando si pensi che si tratta di un fenomeno che, con il suo corteo di preparativi, di riparazioni e di nuovi preparativi, e a causa di tutte le conseguenze morali e materiali che comporta, dovrebbe dominare il nostro tempo e costituirne l'espressione caratteristica. Sarebbe tuttavia sorprendente che si fosse pervenuti a qualcosa di meglio muovendo da una tradizione assolutamente leggendaria e illusoria come quella del 1793 e adottando il metodo più difettoso possibile, come quello che pretende valutare ciascuna guerra in base ai fini che si propone anziché in funzione della natura dei mezzi che impiega. Non è detto che sia da condannarsi in generale l'impiego della violenza, come fanno i pacifisti puri. La guerra rappresenta, in ogni tempo, una specie ben definita di violenza di cui bisogna analizzare il meccanismo prima di formulare un giudizio qualsiasi. Il metodo materialista consiste innanzi tutto nell'esaminare i fatti umani assegnando minore importanza ai fini perseguiti rispetto alle conseguenze necessariamente implicate dal gioco stesso del mezzi adottati. Non si può risolvere e nemmeno porre un problema relativo alla guerra senza prima smontare il meccanismo della lotta militare, cioè senza prima avere analizzato i rapporti sociali che la guerra implica sotto determinate condizioni tecniche, economiche e sociali.

Non si può parlare della guerra in generale se non in modo astratto; la guerra moderna differisce assolutamente da tutto ciò che con questo nome si intendeva nei regimi del passato. Da una parte, la guerra è soltanto il prolungamento di quell'altra guerra che si chiama concorrenza e che fa della produzione stessa una semplice forma di lotta per la supremazia; dall'altra, tutta la vita economica contemporanea è orientata verso una guerra futura. In questo intreccio inestricabile di militare e di economico, dove le armi sono messe al servizio della concorrenza e la produzione è messa al servizio della guerra, la guerra non fa che riprodurre, a un livello più elevato, i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime. Marx ha efficacemente mostrato che il modo attuale di produzione è contrassegnato dalla subordinazione dei lavoratori agli strumenti di lavoro; e che la concorrenza, non disponendo di altra arma che lo sfruttamento dei lavoratori, si trasforma in una lotta di ciascun padrone contro i suoi operai e, in ultima analisi, di tutti i padroni contro tutti gli operai. Analogamente, la guerra ai nostri giorni è caratterizzata dalla subordinazione dei combattenti agli strumenti di guerra; e gli armamenti, veri eroi delle guerre moderne, sono destinati, come gli uomini votati al loro servizio, a essere posti sotto la direzione di coloro che non combattono. Dal momento che questo apparato direttivo non ha altro mezzo per vincere il nemico fuorché quello di mandare con la forza i suoi soldati alla morte, la guerra di uno Stato contro un altro Stato si trasforma immediatamente in una guerra dell'apparato statale e militare contro il suo stesso esercito. E la guerra appare finalmente come una guerra condotta dall'insieme degli apparati degli Stati e degli stati maggiori contro l'insieme degli uomini validi, in età da portare le armi. L'unica variante è che, mentre le macchine non strappano ai lavoratori altro che le loro energie produttrici e il padrone non ha altro potere coercitivo che il licenziamento - mezzo smussato dalla possibilità del lavoratore di scegliere tra diversi padroni -, ogni soldato è costretto a sacrificare la vita stessa alle esigenze dell'ingranaggio militare, e vi è coatto dalla minaccia di morte senza giudizio che lo Stato sospende implacabilmente sul suo capo. In tali condizioni poco importa che la guerra sia offensiva o difensiva, imperialista o nazionale; ogni Stato in guerra è forzato a impiegare questo metodo, poiché il nemico lo adopera. Il grande errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti la guerra - errore in cui in particolare sono incorsi i socialisti - è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre è prima di tutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti. Non si tratta qui di considerazioni sentimentali, né di superstizioso rispetto per la vita umana, si tratta di un rilievo assai semplice: il massacro è la forma più radicale di oppressione; i soldati non si espongono alla morte, sono mandati al massacro. Come ogni apparato oppressivo, una volta costituito, resta fino a quando non viene spezzato, così ogni guerra, imponendo un apparato finalizzato a dirigere le manovre strategiche su masse costrette a servire come masse di manovra, deve essere considerata, anche nel caso in cui sia condotta da rivoluzionari, come un fattore reazionario. In quanto alla sua portata estera, essa è determinata dai rapporti politici stabiliti all'interno: le armi manovrate da un apparato di Stato sovrano non possono essere portatrici di alcuna libertà.

[...]

La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione e lo sarà sempre fino a quando non si sarà dato ai soldati, o piuttosto ai cittadini armati, la possibilità di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza leggi eccezionali, senza punizione per i disertori. Una sola volta nella storia moderna la guerra è stata condotta in questo modo, sotto la Comune; e nessuno ignora come le cose finirono. Sembra che per una rivoluzione impegnata in una guerra non ci sia altra via d'uscita che quella di soccombere sotto i colpi fatali della controrivoluzione per effetto del meccanismo stesso della lotta militare. Le prospettive rivoluzionarie appaiono così molto ristrette, dal momento che come può una rivoluzione evitare la guerra? Ciò nonostante è su questa debole eventualità che bisogna puntare, oppure rinunciare a ogni speranza. L'esempio russo insegna. Un Paese avanzato non incontrerebbe, in caso di rivoluzione, le difficoltà che, nella Russia arretrata, rappresentano la base del barbaro regime di Stalin; una guerra di una certa estensione ne susciterebbe altre per lo meno equivalenti.

A maggior ragione, una guerra intrapresa da uno Stato borghese non può fare altro che trasformare il potere in dispotismo e l'asservimento in assassinio. Se la guerra sembra talora un fattore rivoluzionario, ciò accade perché essa rappresenta un autentico banco di prova del funzionamento dell'apparato statale. Al suo contatto, un apparato male organizzato si decompone. Ma se la guerra non è breve e definitiva, o se la decomposizione non è troppo avanzata, ne derivano solo quelle rivoluzioni che, secondo la formula di Marx, perfezionano l'apparato statale anziché abbatterlo. E ciò è quel che è avvenuto finora. Ai giorni nostri, ciò che la guerra spinge a un grado acuto è l'opposizione sempre crescente tra l'apparato statale e il sistema capitalista; l'affaire Briey durante l'ultima guerra ne costituisce un marcato esempio. L'ultima guerra ha conferito alle organizzazioni statali una certa autorità sull'economia, circostanza che ha fatto impropriamente parlare di «socialismo di guerra»; in seguito il sistema capitalistico ha ripreso a funzionare in modo più o meno normale malgrado le barriere doganali e il contingentamento delle monete nazionali. In una prossima guerra le cose procederebbero ben oltre e, com'è noto, la quantità è suscettibile di trasformarsi in qualità. In questo senso, la guerra può costituire ai nostri giorni un fattore rivoluzionario, a patto tuttavia che si intenda il termine rivoluzionario nell'accezione usata dai nazionalsocialisti. Come la crisi, la guerra provocherebbe una viva ostilità contro i capitalisti e questa ostilità, favorita dall'«unione sacra», si rivolgerebbe a vantaggio dell'apparato statale anziché dei lavoratori. Del resto, per riconoscere la stretta parentela che lega il fenomeno della guerra a quella del fascismo, basta rammentare i testi fascisti evocanti lo «spirito guerriero» e il «socialismo del fronte». In entrambi i casi si tratta essenzialmente dell'annichilimento totale dell'individuo davanti alla burocrazia di Stato grazie a un fanatismo esasperato. Se il sistema capitalistico si trova più o meno danneggiato dalla faccenda, ciò non può essere che a discapito, non a profitto, dei valori umani e del proletariato, per quanto lontano possa spingersi in certi casi la demagogia.

Diventa così abbastanza chiara l'assurdità di una lotta antifascista che accettasse la guerra come mezzo d'azione. Essa non significherebbe soltanto combattere una tirannia barbara schiacciando i popoli sotto il peso di un massacro ancora più barbaro, ma comporterebbe anche estendere sotto altra forma il regime che si vuole abbattere. È puerile pretendere che un apparato statale reso potente da una guerra vittoriosa finirebbe con l'alleggerire l'oppressione che l'apparato statale nemico esercitava sul suo popolo; più puerile ancora è credere che permetterebbe a quel popolo di fare una rivoluzione proletaria in seguito alla sconfitta senza annegarla immediatamente nel sangue. Quanto alla democrazia borghese annientata dal fascismo, una guerra non abolirebbe, ma al contrario estenderebbe, le cause che la rendono attualmente impossibile. In linea generale, sembra che la storia costringa sempre più ogni azione politica a scegliere tra l'inasprimento dell'oppressione intollerabile esercitata dagli apparati statali e una lotta senza tregua direttamente volta contro questi apparati per abbatterli. Certo, le difficoltà forse insuperabili che si presentano attualmente possono giustificare l'abbandono puro e semplice della lotta. Se tuttavia non si vuole rinunciare ad agire, bisogna rendersi conto che contro un apparato statale non si può lottare che dall'interno. In particolare, in caso di guerra bisogna optare tra l'ostacolare il funzionamento dell'ingranaggio militare di cui si è una ruota ovvero aiutare questo ingranaggio a frantumare vite umane. La celebre frase di Liebknecht, «il nemico principale è in casa nostra», acquista così tutto il suo significato e si rivela applicabile a tutte le guerre in cui i soldati sono ridotti allo stato di materiale passivo nelle mani di un apparato militare e burocratico. Ciò significa, in termini assoluti, che è applicabile a ogni guerra almeno fino a quando la sua tecnica continuerà a esistere. Non è possibile intravedere oggi l'avvento di un'altra tecnica. Il modo sempre più collettivo con cui si attua il dispendio delle forze nella produzione come nella guerra non ha modificato il carattere essenzialmente individuale delle funzioni di decisione e di direzione. Esso non ha fatto altro che mettere sempre più le braccia e le esistenze delle masse a disposizione degli apparati di comando.

Fino a quando non troveremo la possibilità di evitare questa oppressione degli apparati sulle masse nel corso della produzione e del combattimento, ogni tentativo rivoluzionario avrà qualcosa di disperato. Infatti, mentre ci è noto di quale sistema di produzione e di guerra noi agognamo con tutte le nostre forze la distruzione, ignoriamo quale sistema accettabile potrà prendere il suo posto. D'altra parte, qualunque tentativo di riforma appare come puerile nei confronti delle necessità cieche implicite nel funzionamento di questo mostruoso ingranaggio. La società del presente assomiglia a una immensa macchina che afferri gli uomini e di cui nessuno conosca le leve di comando; e coloro che si sacrificano per il progresso sociale assomigliano a gente che si aggrappi alle ruote e alle cinghie di trasmissione nell'ansia di arrestare la macchina, facendosene a loro volta stritolare. Ma l'impotenza in cui ci si trova a un dato momento, impotenza che non deve essere mai considerata come definitiva, non può dispensare dal rimanere fedeli a se stessi, né scusare la capitolazione davanti al nemico, di qualunque maschera si copra. Comunque si travestano linguisticamente il fascismo e la democrazia o la dittatura del proletariato, il nemico capitale resta l'apparato amministrativo, poliziesco e militare; un nemico non identificabile con quello che ci sta di fronte, identificabile perché si presenta come nemico dei nostri fratelli, bensì è il nemico che dice di essere il nostro difensore, mentre ci rende schiavi. In qualunque circostanza il peggiore tradimento possibile consiste sempre nell'accettare la subordinazione a questo apparato e nel calpestare in se stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valori umani.

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Pagina 76

X
MEDITAZIONI SULL'OBBEDIENZA E SULLA LIBERTÀ
[1937]



La sottomissione dei molti ai pochi, questo dato fondamentale in quasi tutte le organizzazioni sociali, non ha mai cessato di sbalordire tutti coloro che ci riflettono un poco. Noi assistiamo in natura al fatto che il peso più gravoso ha la meglio sul peso meno gravoso, al fatto che le razze più prolifiche soffocano le altre. Nel campo umano questi rapporti così chiari sembrano essere rovesciati. Noi certo sappiamo, in base a un'esperienza quotidiana, che l'uomo non è un semplice frammento della natura, che ciò che si dà di più elevato nell'uomo, cioè la volontà, l'intelligenza, la fede, produce ogni giorno delle specie di miracoli. Ma non è questo ciò di cui si tratta qui. La necessità spietata che ha mantenuto e mantiene in ginocchio le masse di schiavi, le masse di poveri, le masse di subordinati, non ha nulla di spirituale; essa è del tutto analoga a ciò che c'è di brutale nella natura. Tuttavia, tale necessità si esercita apparentemente in virtù di leggi contrarie a quelle di natura. Come se, nella bilancia sociale, il grammo avesse la meglio sul chilogrammo.

Circa quattro secoli fa il giovane La Boétie, nel suo La servitù volontaria, poneva la questione senza rispondervi. Con quali esempi commoventi potremmo riempire il suo libriccino, noi che vediamo oggi, in un Paese che copre un sesto del globo, un solo uomo dissanguare un'intera generazione! Quando imperversa la morte, il miracolo dell'obbedienza salta davanti agli occhi. Il fatto che molti uomini si sottomettano a uno solo per timore di essere uccisi da lui è non poco sbalorditivo; ma che essi si mostrino così sottomessi al punto di morire su suo ordine, come giustificarlo? Nel momento in cui l'obbedienza comporta rischi non minori della ribellione, come è possibile che essa rimanga inalterata?

La conoscenza del mondo materiale nel quale viviamo ha potuto svilupparsi a partire dal momento in cui Firenze, oltre a tante meraviglie, ha offerto all'umanità grazie a Galilei la nozione di forza. Solo allora si è potuto intraprendere lo sfruttamento razionale dell'ambiente materiale da parte dell'industria. E noi, che pretendiamo governare l'ambiente sociale, non ne avremmo neppure la conoscenza più grossolana se non disponessimo in modo chiaro della nozione di forza sociale. Nessuna società può disporre di ingegneri senza aver avuto alle spalle il suo Galilei. C'è forse in questo momento sulla faccia della Terra una mente che sia in grado di rendere conto, anche vagamente, di come è possibile che un uomo solo, al Cremlino, sia dotato dell'arbitrio di far cadere qualsiasi testa entro i limiti delle frontiere russe?

I marxisti non hanno favorito un chiarimento del problema scegliendo l'economia come chiave dell'enigma sociale. Se si considera la società come un essere collettivo, allora questo grosso animale, come tutti gli animali, si lascia individuare principalmente in base ai modi in cui si assicura il nutrimento, il sonno, la protezione contro le intemperie, insomma la vita. La società considerata in rapporto all'individuo, tuttavia, non può essere definita solo in base alle modalità della produzione. Si può ricorrere a tutte le sottigliezze per fare della guerra un fenomeno eminentemente economico: salta davanti agli occhi che la guerra è distruzione e non produzione. L'obbedire e il comandare sono anch'essi dei fenomeni di cui non si può rendere conto in base alle condizioni di produzione. Quando un vecchio operaio disoccupato e privo di soccorsi muore silenziosamente in una strada o in un tugurio, questa sottomissione che si prolunga fino alla morte non può essere spiegata facendo appello al gioco delle necessità vitali. La distruzione massiccia del grano o del caffè nel corso di una crisi economica ne costituisce un esempio non meno chiaro. La nozione di forza e non quella di bisogno costituisce la chiave che permette di interpretare i fenomeni sociali.

Galilei ebbe ben poche possibilità di tessere le sue lodi personali per il genio e la probità mostrati nel decifrare la natura; egli almeno dovette scontrarsi solo con un pugno d'uomini potenti, specializzati nell'interpretazione delle Scritture. Lo studio del meccanismo sociale è invece impastato di passioni che si riscontrano in tutti e in ogni singolo individuo. Non c'è quasi nessuno che desideri sia rovesciare sia conservare i rapporti attuali di dominio e di sottomissione. Entrambi i desideri annebbiano la mente e impediscono di percepire le lezioni della storia, la quale mostra sempre le masse poste sotto il giogo di qualcuno che impugna la frusta. Da parte di coloro che fanno appello alle masse si vuole mostrare che una simile situazione è non solo unica, ma addirittura impossibile, almeno in un avvenire vicino o lontano.

Da parte di coloro che mirano alla conservazione dell'ordine e dei privilegi si vuole mostrare che il gioco pesa poco o almeno che è accettato consensualmente. Da entrambe le parti si copre con un velo l'assurdità radicale del meccanismo sociale, invece di guardare ben in faccia questa apparente assurdità e di analizzarla per enucleare il segreto dei suoi meccanismi. In qualunque ambito d'indagine non si dà altro metodo di riflessione. Lo stupore è il padre della saggezza, diceva Platone.

Dal momento che il grande numero obbedisce, e obbedisce fino a lasciarsi imporre la sofferenza e la morte, mentre il piccolo numero esercita il suo potere di comando, ciò mostra come non sia vero che il numero sia una forza. Nonostante la nostra immaginazione ci porti a disconoscerlo, il numero è una debolezza. La debolezza sta là dove si ha fame, si è sfiniti, si supplica o si trema, non là dove si vive bene, si fanno concessioni o si minaccia. Il popolo non è sottomesso nonostante il suo numero, ma è sottomesso perché è quel numero. Se in una strada un uomo si batte contro venti, cadrà sicuramente morto sul selciato. Ma in base a un segnale di un solo uomo bianco, venti coolies annamiti possono essere picchiati a colpi di bastone, uno dopo l'altro, da uno dei capi squadra.

La contraddizione è solo apparente. Senza dubbio, in ogni circostanza, coloro che sono in posizione di comando sono meno numerosi di coloro che obbediscono. Ma proprio perché sono poco numerosi formano un gruppo compatto. Gli altri, proprio perché sono troppo numerosi, sono uno e poi un altro, e così di seguito. Pertanto la potenza di un'infima minoranza si basa, malgrado tutto, sulla forza del numero. Questa minoranza prevale numericamente di gran lunga su ciascuno di coloro che compongono la massa della maggioranza. Non è lecito concludere che l'organizzazione delle masse potrebbe rovesciare questo rapporto, dal momento che essa è impossibile. Non può aver luogo la coesione se non tra una piccola quantità di uomini. Oltre questa soglia, si dà solo giustapposizione di individui, ossia debolezza.

Ci sono stati tuttavia dei momenti in cui le cose non sono andate così. In certi momenti della storia, un grande soffio attiva le masse; la loro respirazione, le loro parole, i loro movimenti si fondono. Allora nulla può resistere loro. I potenti apprendono a loro volta che cosa significa sentirsi soli e disarmati; e tremano. Tacito, in qualche pagina immortale in cui descrive una sedizione militare, ha saputo analizzare perfettamente questa situazione: «Il principale segnale di un movimento profondo, incomprimibile, era costituito dal fatto che essi non erano dispersi o manovrati da qualcuno, ma prendevano fuoco insieme, insieme tacevano, con una tale unanimità e una tale fermezza che si sarebbe potuto credere che agissero secondo un comando». Abbiamo assistito a un miracolo di tal fatta nel giugno 1936 e ne siamo ancora colpiti.

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Pagina 99

XIII
RIFLESSIONI SULLA BARBARIE
[1939]



Molte persone oggi, commosse dagli orrori di ogni tipo che la nostra epoca diffonde con una profusione insopportabile per i temperamenti un po' sensibili, credono che, per effetto di una troppo elevata capacità tecnica o di una forma di decadenza morale, o per qualche altra causa, stiamo entrando in un periodo di una barbarie ancora maggiore di quella dei secoli precedenti attraversati dall'umanità nel corso della sua storia. Non è così. Per rendersene conto basta aprire un qualsiasi testo antico - la Bibbia, Omero, Cesare, Plutarco. Nella Bibbia i massacri si contano di solito in decine di migliaia. Nei resoconti di Cesare, lo sterminio totale, nel corso di una sola giornata, senza eccezione di sesso o di età, di una città di quarantamila abitanti non è qualcosa di straordinario. Secondo Plutarco, Mario passeggiava nelle vie di Roma seguito da una truppa di schiavi che ammazzava chiunque lo salutasse senza che egli si degnasse di rispondere. Silla, implorato in pieno Senato di voler almeno dichiarare chi volesse fare morire, disse di non avere presente tutti i nomi, ma che li avrebbe pubblicati, giorno per giorno, man mano che gli tornavano in mente. Nessuno dei secoli passati storicamente a noi noti sono poveri di avvenimenti atroci. La potenza delle armi, a questo riguardo, è priva di importanza. Al fine dei massacri sistematici, la semplice spada, anche di bronzo, è uno strumento più efficace dell'aereo.

La credenza contraria - così comune alla fine del XIX secolo fino al 1914 - vale a dire la credenza in una diminuzione progressiva della barbarie in seno all'umanità detta civilizzata non è, mi sembra, meno erronea. In simile materia l'illusione è pericolosa poiché non si cerca di scongiurare ciò che si ritiene in via d'estinzione. L'accettazione della guerra nel 1914 è stata facilitata in questo modo: non si riteneva che avrebbe potuto divenire selvaggia essendo fatta da uomini che si credevano esenti da atteggiamenti selvaggi. Così come accade che in certe occasioni le persone che ripetono di essere troppo buone agiranno con la più fredda e tranquilla crudeltà, analogamente, quando un gruppo umano si crede portatore di civiltà, questa stessa credenza lo renderà capace, alla prima occasione che potrà presentarglisi, di agire barbaramente. A questo riguardo nulla è più pericoloso che la fede in una razza, in una nazione, in una classe sociale, in un partito. Oggi non possiamo avere nei confronti del progresso quella fiducia che in esso riponevano i nostri padri e i nostri nonni; ma cerchiamo le cause della barbarie che insanguina il mondo fuori dagli ambienti in cui viviamo e in quei gruppi umani che riteniamo a noi estranei. Vorrei proporre di considerare la barbarie come un carattere permanente e universale della natura umana che si sviluppa in più o in meno a secondo che le circostanze le offrano più o meno possibilità.

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