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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione pag. 5 La fabbrica dei soldi 11 (DONALD E. WESTLAKE) Ostaggi 107 (ANNE PERRY) |
| << | < | > | >> |Pagina 11"Da quando ho ricominciato a rigare dritto», confessò l'uomo di nome Querk, "ho problemi a dormire la notte." Quello era un sintomo di cui Dortmunder non aveva mai sentito parlare. D'altra parte, non conosceva tanta gente che rigasse dritto. "Ah-a", fece. In realtà, non conosceva neppure l'uomo di nome Querk, per cui non aveva molto da dire. Querk invece sì. "Sono i nervi", spiegò, e dal suo aspetto sembrava fosse proprio così. Era un ometto pelle e ossa, probabilmente sulla cinquantina, con la faccia lunga, folte sopracciglia nere sopra un naso a banana, sopra labbra sottili, sopra un mento aguzzo. Continuava a cambiare posizione sul suo sedile di ferro a Paley Park, un giardino pubblico minuscolo sulla 53a Strada di Manhattan, tra la Quinta e Madison Avenue. È carino, Paley Park, proprio in centro, largo una ventina di metri e profondo neanche un isolato, qualche gradino sopra la 53a Strada. I muri degli edifici da un lato e dall'altro sono coperti di edera. D'estate, alti alberi di acacia spinosa formano una specie di tetto di foglie. In quel momento era estate. Ma la cosa migliore di Paley Park è la parete d'acqua sul fondo, un flusso continuo lungo il muro sul retro, che si riversa in una vasca per essere riciclata con un gradevole shoosh che copre quasi completamente il rombo del traffico. Questo ne fa un piacevole ritiro nel bel mezzo della città e permette a due o tre persone – diciamo John Dortmunder, il suo amico Andy Kelp e l'uomo di nome Querk – di sedersi vicino alla parete d'acqua e scambiare una conversazione che nessuno, non importa che tipo di microfono abbia, riuscirà a registrare. È stupefacente, sul serio, che ogni impresa criminale di New York City non venga architettata a Paley Park. Oppure sì? "Vedete?" chiese l'uomo di nome Querk, alzando le mani dal grembo e tenendole sollevate davanti a sé: tremavano come un miscelatore di vernice. "Va bene", aggiunse. "Non facevo il borsaiolo prima di rigare dritto." "Ah-a", commentò Dortmunder. "E neanche lo scassinatore", disse Kelp. "Be', in effetti sì", lo smentì Querk. "Ma ero uno di quelli da 'nitropersuasione', capisci. Trapani un buco vicino alla combinazione, ci versi la gelatina, ci ficchi dentro il detonatore e ti tiri indietro. Niente nervi." "Ah-a", fece di nuovo. Querk si accigliò. "Hai l'asma?" "No", rispose Dortmunder. "Ero solo d'accordo con te." "Se lo dici tu." Querk lanciò un'occhiata inquieta al sipario di acqua, che continuava a fare shoosh davanti a loro, scrosciando incessante nella vasca. Dopo un po' ci si stufa, di stare a Paley Park. "Il punto è che, prima di rigare dritto, dormivo beato, perché sapevo che stavo attento e tutto era al posto giusto, e quindi mi potevo rilassare. Ma dopo l'ultima volta che sono finito dentro, ho deciso che ero troppo vecchio per la prigione. Sapete, a un certo momento ti viene da dire che è roba da giovani." Guardò di traverso Dortmunder. "Vuoi fare di nuovo ah-a?" "Se ci tieni..." "Allora lascia stare." E continuò: "Quell'ultima volta che sono stato in galera ho imparato un altro mestiere. Lo sapete, dentro si imparano sempre questi mestieri. Riparazione di condizionatori, lavaggio a secco... L'ultima volta ho imparato a fare il tipografo". "Ah-a", si lasciò sfuggire Dortmunder. "Cioè, bene, sei un tipografo." | << | < | > | >> |Pagina 22Dove lo trovate un pensionato in agosto? Provate su un campo di golf. Un campo di golf municipale."Eccolo là", disse Kelp, indicandolo. "Quel tipo che cerca di tirare fuori la pallina dal mucchio di sabbia." Dortmunder disse: "È ammesso dal regolamento?" "Be', ricorda che lui non riga dritto, è solo in pensione." Quel particolare campo da golf era a Brooklyn, non abbastanza lontano dall'Atlantico da sfuggire a ciò che l'oceano ha da offrire di questi tempi alla voce "aria di mare". Giocatori incapaci erano sparsi qua e là sul prato, mentre Dortmunder e Kelp girovagavano sul percorso diretti verso Harry Matlock. Era più grasso che mai (e tutti quelli che lo conoscevano lo avevano sempre considerato grasso). Stava cercando di tirare fuori la pallina dal mucchio di sabbia e a vederlo si sarebbe detto che avesse bisogno di qualcuno che tirasse fuori lui dal mucchio di sabbia. Era anche, probabilmente, più calvo che mai, ma non si vedeva perché aveva in testa un grosso e morbido berretto scozzese. Il resto della tenuta consisteva in una polo azzurra sotto un cardigan di cachemire bianco, pantaloni scozzesi rossi a scacchi molto larghi sulle chiappe e sulle gambe, e lucide scarpette da golf verde rospo con rinforzi come denti di scoiattolo. Quello era un pensionato. "Ehi, Harry!" gridò Kelp. Un tipo alla sua destra mancò il colpo e gli lanciò un'occhiataccia, ma lui non se ne accorse. Harry alzò lo sguardo, li riconobbe e fece un sorrisone e un cenno di saluto, ma non si mise a gridare. Quando lo ebbero raggiunto, disse: "Ciao, Andy. Ciao, John. Siete qui per Kirby Querk?" "Giusto", rispose Kelp. Harry indicò una direzione con la mazza da golf. "Fate due passi con me. Il mio quartetto è lassù da qualche parte. Intanto possiamo fare due chiacchiere." Poi diede un calcio alla sua pallina per mandarla verso una bandierina lontana, prese la grossa sacca per la tracolla e si incamminò trascinandosela dietro, lasciando una traccia sul terreno. Mentre camminavano, Dortmunder gli chiese: "Queste sono le tue regole?" "Quando solo Dio ti può vedere, John", rispose Harry, "non c'è nessuna regola. E per quanto riguarda Querk, non so proprio quali siano le regole." "Vuoi dire che non lo raccomanderesti? Ma sei stato tu a mandarlo da me", Kelp pareva allarmato. "No, non è questo che volevo... Aspettate." Harry diede un altro calcio alla pallina, poi disse: "Andy, me lo fai un favore? Tirati dietro questa sacca per un po'. Io non ne posso più: mi sta venendo un braccio più lungo dell'altro". Kelp obiettò: "Scusa, non dovresti mettertela in spalla?" "Ci ho provato", rispose Harry, "ma finisce che poi ho una spalla più bassa dell'altra." Tese a Kelp la tracolla con gesto supplice. "Solo fino al green." Kelp non aveva immaginato che, presentandosi su un campo da golf, gli sarebbe toccato fare da caddy, ma si strinse nelle spalle e accettò: "Okay. Fino al green". "Grazie, Andy." Kelp si mise la sacca in spalla. E ce l'aveva, l'aria da caddy: gli mancava solo il berretto di tela a visiera larga e il tee infilato dietro l'orecchio. Per il resto, ne aveva la classica espressione seccata. | << | < | > | >> |Pagina 70Il turno di Roger Twilley come tecnico delle riparazioni della Darby Telephone & Electronics (slogan: "La quinta compagnia telefonica dello Stato di New York!") terminava tutti i giorni alle quattro, un'ora prima che Janet chiudesse l'agenzia di viaggi. Il che era perfetto: gli dava un'ora per ascoltare i nastri del giorno.Twilley, un individuo ossuto e allampanato dalla pelle rugosa, che portava i capelli troppo lunghi perché non gli piacevano i barbieri, era noto tra i colleghi come un tipo okay che non aveva molto da dire. Se Twilley avesse espresso le proprie opinioni, cosa che non aveva voglia di fare, il loro giudizio sarebbe cambiato, perché li detestava dal primo all'ultimo e non si fidava di loro. In effetti, detestava tutti quanti e non si fidava di nessuno. Era convinto che al mondo non ci fosse nessuno che non avrebbe detestato o di cui si sarebbe fidato. Ecco la ragione dei nastri. Come tecnico dei telefoni, spesso solo con il suo camioncino e dotato di un talento affinato negli anni, Twilley non aveva avuto difficoltà a intercettare le telefonate di tutti quelli che conosceva, e non si faceva scrupolo di ascoltarle: sua madre, certamente, e Janet, naturalmente, ma anche mezza dozzina di parenti e di amici nell'area di Sycamore. Le cimici erano attivate dalle voci e i nastri erano nella sua "tana" in cantina, una stanza in cui Janet si guardava bene dal curiosare, altrimenti sapeva bene a che cosa sarebbe andata incontro. Ogni pomeriggio, sfilatasi la tuta blu della Darby Telephone e aperta una lattina di birra, Twilley scendeva nella tana ad ascoltare che cosa si erano detti. Sapeva che almeno un paio di loro stavano tramando alle sue spalle, la mamma, per esempio, e Janet, ma ancora non aveva colto nessuno sul fatto. Tuttavia, ne era certo, era questione di tempo. Presto o tardi le loro bocche li avrebbero traditi. C'erano diversi fattori che potevano spiegare perché Twilley si fosse messo in testa quell'idea. Per cominciare, l'improvviso abbandono della famiglia da parte di suo padre quando lui aveva sei anni, un tradimento che non aveva mai superato. C'era il fatto che sua madre aveva troieggiato in giro per un buon decennio, dopo quel trauma iniziale, proprio mentre lui attraversava dolorosamente i problemi della sessualità adolescenziale. C'era quella sua cosiddetta ragazza, Renee, che lo aveva pubblicamente umiliato ai tempi del liceo. Ma la vera ragione era che Twilley era un idiota. Seduto al tavolo nella sua tana, con le cuffie, l'idiota ascoltò per trentacinque minuti ciò che si era detto in città, a cominciare da Janet. Le sue chiamate, quella mattina, erano state strettamente professionali: linee aeree, alberghi, clienti. Non c'era niente di simile alla chiamata dell'altro giorno, quel tipo che cercava un certo Frank e aveva "sbagliato numero", che Roger aveva immediatamente interpretato come un messaggio in codice. Un segnale, di qualche genere. Aveva riascoltato quel pezzo di nastro ("C'è Frank?" "C'è Frank?") così tante volte che ora sarebbe stato in grado di riconoscere la voce se l'avesse sentita di nuovo, qualunque cosa avesse detto. E poi il resto dei nastri. Sua madre e la sua amica Helen chiacchieravano tutta la mattina, come al solito, scambiandosi ricette, avvistamenti di uccelli, pettegolezzi letti sui giornali e trame della tivù. Twilley accelerò il nastro, fermandosi solo di tanto in tanto per fare un controllo: "... E poi lei ha detto che Emmaline le sembrava incinta..." Altrimenti avrebbe passato tutta la notte ad ascoltare due donne che avevano elevato la noia a una forma di arte sacra. Vetrate colorate per le orecchie. | << | < | > | >> |Pagina 107Bridget piegò l'ultimo paio di pantaloni e lo mise nella valigia. Era agitatissima per questa vacanza, non vedeva l'ora di partire. Non sarebbero andati sulla costa occidentale, che lei per altro amava, con quel vento terso che proveniva dall'Atlantico e le grandi ondate che si frangevano sulla spiaggia, no, perché andare lì significava attraversare il confine dell'Eire e loro questo non potevano farlo. Ma anche la costa settentrionale aveva una sua bellezza e poi sarebbero stati lontani da Belfast, dalle responsabilità di Connor nei confronti della Chiesa e soprattutto del partito politico. Lui aveva sempre qualcosa da fare, una lite da dirimere, il dolore di qualcuno da lenire, una debolezza da rafforzare, una decisione da prendere, e poi discutere, convincere, persuadere. Era stato così da quando lo aveva conosciuto, ed era sempre stato così anche con suo padre. Ma allora, i problemi dell'Irlanda erano vecchi di trecento anni e il coraggio con cui combattevi per le tue idee definiva chi eri. C'era ancora un po' di spazio in valigia. Si guardò attorno per cercare qualcos'altro da metterci e in quel momento Liam si affacciò sulla soglia. Aveva sedici anni, era alto e snello come Connor ma non ancora altrettanto robusto, e se ne rendeva ben conto. "Hai già fatto la valigia?" gli domandò. "Mamma, non hai bisogno di tutta quella roba", rispose lui schivando la domanda. "Stiamo via solo una settimana e là puoi anche lavare, lo sai benissimo. Come mai andiamo proprio in quel posto? Non c'è niente da fare!" "È proprio per questo", ribatté lei con un sorriso. "Tuo padre ha solo bisogno di non fare niente." "Ma non lo sopporterà. Si logorerà dalla mattina alla sera chiedendosi se per caso si è perso qualcosa, e quando torneremo a casa dovrà lavorare il doppio per rimettere a posto quel che gli altri avranno rovinato." "Non ti è mai passato per la testa", disse Bridget paziente, "che nulla andrà storto e che staremo benissimo? Non credi potrebbe essere piacevole stare insieme per alcuni giorni, pensare soltanto a noi, senza che nessuno venga a chiederci qualcosa?" Liam alzò gli occhi al cielo. "No", rispose convinto. "Mi annoierò a morte, e anche papà. Passerà metà del tempo al telefono." "Non c'è telefono laggiù. È una casa sulla spiaggia." "Il cellulare!" esclamò Liam impaziente, con una voce che tradiva un certo disprezzo. "Devo andare da Michael."
"Partiamo tra un paio d'ore", gridò lei mentre Liam spariva. Sentì i passi
veloci e leggeri lungo il corridoio, e poi il rumore della porta sbattuta.
Connor entrò nella stanza. "Quanta roba ti porti?" domandò osservando la valigia. "Perché hai preso tutti quei pantaloni? E nemmeno una gonna? Non puoi stare sempre in pantaloni." Poteva e aveva intenzione di farlo. Nessuno li avrebbe visti. Una volta tanto l'apparenza non avrebbe avuto importanza. Non ci sarebbe stato nessuno pronto a criticare, o a pensare che non era un bell'esempio per la moglie di un pastore e leader della causa protestante. Comunque, ciò che lei indossava non aveva nulla a che fare con la libertà di fede per la quale lui aveva combattuto da quando aveva l'età di Liam, sacrificando la spensieratezza e le irresponsabilità della giovinezza. Ma valeva la pena di stare a discuterne ora, poco prima di questa rara vacanza insieme? Guastare tutto fin dall'inizio, perché Connor si sarebbe sentito contrastato, come se lei lo stesse volutamente sfidando. Era sempre così. E Bridget voleva godersi questa settimana lontano dalle preoccupazioni, dalle pressioni e dalle minacce che suo marito ogni giorno doveva affrontare a casa, o a Londra. Senza dire una parola tolse i pantaloni dalla valigia, tutti tranne un paio, e li rimpiazzò con le gonne. Connor non fece commenti, ma Bridget lo vide dal suo viso, che era contento. Sembrava stanco. Aveva una rete di linee sottili attorno agli occhi e i capelli alle tempie erano più grigi di quanto lei avesse mai pensato. Un piccolo muscolo della mascella gli si contraeva a intermittenza. Non l'avrebbe mai ammesso, ma questa vacanza era per lui una necessità assoluta. Aveva bisogno di giornate senza obblighi o decisioni da prendere, di notti di sonno senza squilli del telefono, della possibilità di parlare liberamente senza dover pesare ogni parola per evitare di essere mal giudicato o malinteso. Bridget gli sorrise, felice della sua scelta. Lui non se ne accorse e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle. Lei si sentì come perduta, anche se sapeva che era sciocco. Connor aveva ben altro per la mente che preoccuparsi di queste frivolezze emotive; e poi era convinto che lei lo desse per scontato. In ventiquattro anni di matrimonio, non l'aveva mai delusa. Lui non deludeva nessuno! Manteneva sempre la parola data, anche a costi altissimi. Tutta l'Irlanda del Nord lo sapeva, lo sapevano i cattolici, lo sapevano i protestanti. Ci si poteva fidare delle promesse di Connor O'Malley. Era una roccia solida, immutabile come la promessa di Dio. E altrettanto dura. Orribili, quelle parole dentro di sé. Come poteva pensare una cosa simile, anche solo permettere che entrasse nella sua testa. Suo marito era impegnato in una guerra dello spirito, non c'era spazio per le mezze misure, per cedere alla seduzione del compromesso. E sapeva usare le parole giuste. E lei era spesso tentata di attenuare i castighi, per ottenere un po' di pace, di piegare la verità, per dare una tregua alla battaglia. Era stanca, nel corpo e nell'anima, di tutto. Aveva fame di risate, di amicizie, delle piccole cose della vita di ogni giorno, senza la pressione della rettitudine e soprattutto senza la rabbia che covava dentro. Ma Connor avrebbe considerato tutto questo una debolezza, se non addirittura un tradimento. Quel che è giusto non può scendere a compromessi con quel che è sbagliato. Non ci può essere auto indulgenza, questo è il prezzo della leadership. Quante volte glielo aveva ripetuto? E lui ne era sempre stato all'altezza. Guardò i pantaloni che aveva tolto dalla valigia. Erano comodi e quando li indossava poteva anche portare scarpe altrettanto comode. Questa doveva essere una vacanza. Ne rimise dentro altre due paia, sul fondo. Le valigie le avrebbe disfatte lei e Connor non se ne sarebbe mai accorto.
Era semplice preparargli i bagagli. Pigiama, biancheria intima, calze, tante
camicie, per non aver bisogno di lavare, maglioni, pantaloni casual dai colori
tenui, e oggetti da toeletta. Ai libri e ai documenti ci avrebbe pensato lui.
Era un'area alla quale lei non aveva diritto di accedere.
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