Copertina
Autore Edward Whymper
Titolo La salita del Cervino
EdizioneVivalda, Torino, 2012 [1933], I Licheni 66 , pag. 394, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x2,8 cm , Isbn 978-88-7480-032-2
OriginaleThe Ascent of the Matterhorn [1880]
CuratoreAnna Balbiano d'Aramengo
LettoreRenato di Stefano, 2012
Classe montagna , regioni: Valle d'Aosta
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Indice


Presentazione                                            15
Nota del curatore                                        21

PREFAZIONE                                               25

1860 ______________________________________________________

CAPITOLO I                                               35
INTRODUZIONE

- Beachy Head
- Diavolo di Notre Dame
- La valle di Visp
- Arrampicando da solo
- Il Weisshorn
- Il Gran San Bernardo
- Una guida imbrogliona
- Un concerto di paese
- Tempesta sul Col de Lautaret

1861_______________________________________________________

CAPITOLO II                                              47
LA SCALATA DEL MONT PELVOUX

- Le valli del Dauphiné
- Le cime del Dauphiné
- Errori di identificazione
- Primi tentativi di salire il Mont Pelvoux
- Presentazione a monsieur Reynaud
- Grenoble
- Incontro con Macdonald
- Sentimenti nazionalisti
- Assoldiamo una guida
- Partenza per il Pelvoux
- Troviamo la caverna dei valdesi
- Massacro dei valdesi
- Prima notte all'aperto
- Siamo respinti
- Arrivo di Macdonald
- Terza notte all'aperto
- Torrenti in fiamme
- Slavina di pietre
- Scalata del Pelvoux
- La Piramide
- Panorama dalla cima
- Scopriamo la Pointe des Ecrins
- Sorpresi dalla notte
- A proposito di pulci
- Sulla via per il Monviso
- Disertori
- Bivacco su un formicaio
- St. Véran
- Maniere primitive
- Pilastri naturali
- Arrivo a Briançon

CAPITOLO III                                             79
LA MIA PRIMA SCALATA SUL CERVINO

- Il Weisshorn e il Cervino
- Presentazione a Jean-Antoine Carrel
- Superstizioni degli abitanti locali riguardo al Cervino
- Creste del Cervino
- Primi tentativi di scalare la montagna
- Tentativo dei Parker
- Tentativo di Hawkins e Tyndall
- Arrivo a Breil
- Riluttanza delle guide ad avere qualcosa a che fare
    con il Cervino
- I Carrel tentano di tagliarci fuori
- La grande scalinata
- Il Col du Lyon
- Decidiamo di bivaccare al colle
- Forti emozioni per i crolli di pietre
- Luce e ombra
- Il Camino
- Sconfitti
- Un cauto procedere

1862_______________________________________________________

CAPITOLO IV                                              97
NUOVI TENTATIVI DI SCALARE IL CERVINO

- Il tentativo invernale di Kennedy
- Bennen si rifiuta di ripartire
- Il Passo del Teodulo
- Meynet, il gobbo di Breil
- A proposito di tende per l'alpinismo
- Macdonald ed io partiamo per il Cervino
- Kronig si salva per miracolo
- Venti violenti ci obbligano a ripiegare
- Assoldiamo Carrel e Pession e partiamo nuovamente
- La Gran Torre
- Pession si ammala e siamo obbligati a tornare
- Tempo cattivo
- Arrampicata solitaria sul Cervino
- Pionieri della vegetazione
- Vista dalla tenda
- Un bivacco solitario
- Il Monviso visto al chiar di luna a centosessanta
    chilometri di distanza
- Sugli arnesi degli alpinisti
- Uncino per scalate
- Trovo un posto nuovo per la tenda
- Raggiungo da solo una quota mai toccata prima da nessuno,
    e sfioro l'incidente
- Il mio quarto tentativo di salire il Cervino
- Ancora sconfitto dal cattivo tempo
- I Carrel vanno a caccia di marmotte, e noi partiamo
    per un quinto tentativo
- Sconfitti dagli ostacoli naturali
- Arriva Tyndall e mi porta via i Carrell
- Un bombardamento sul Cervino
- Tyndall è respinto
- Incendio nel Dauphiné

1863_______________________________________________________

CAPITOLO V                                              131
LA VAL TOURNANCHE — IL BREUILJOCH — ZERMATT
— PRIMA ASCENSIONE DEL GRAND TOURNALIN

- La dogana
- «Ma cos'è questo?»
- Difficoltà con la mia scala
- Spiegazione della sconfitta di Tyndall
- Acquedotto romano (?) in Val Tournanche
- Salita delle Cime Bianche
- Imbrogliamo una capra
- Ci inventiamo un nuovo passo per Zermatt (Breuiljoch)
- Erosione idrica e glaciale
- Ghiaccio versus roccia
- Attenzioni di Seiler
- Le pareti del Cervino
- Straordinario incidente occorso ad un camoscio
- Colle di Val Pelline
- Il padrone di Prerayen
- Tentativo di scalare la Dent d'Erin (d'Hérens)
- Il passo di Va Cornère
- Prima salita del Grand Tournalin
- Splendida vista panoramica dalla vetta
- A proposito di panorami
- Il Gouffre des Busserailles
- Un oste intraprendente

CAPITOLO VI                                             159
IL NOSTRO SESTO TENTATIVO DI SCALARE IL CERVINO

- Gli estremi s'incontrano
- Tuoni e fulmini
- Echi di tuono
- Grande crollo di rocce durante la notte
- Vinti dalle condizioni atmosferiche
- Foschie misteriose

CAPITOLO VII                                            171
DA ST. MICHEL A LA BÉRARDE PER IL COL DES AIGUILLES
D'ARVE, IL COL DE MARTIGNARE E LA BRECHE DE LA MEIJE

- Nuovo ritorno in Dauphiné
- Michel Croz
- Il Col de Valloires
- Le Aiguilles d'Arve
- Troviamo un nuovo passo fra le Aiguilles
- Il Col de Martignare
- Scalata dell'Aiguille de la Sausse
- La Meije
- Primo passaggio della Brèche de la Meije
- Melchior Anderegg
- La Grave
- La Brèche è vinta
- Il Vallon des Etancons

CAPITOLO VIII                                           193
LA PRIMA SALITA DELLA POINTE DES ECRINS

- La Bérarde
- Pic il portatore
- Bivacco sul ghiacciaio de la Bonne Pierre
- Visioni evanescenti
- Siccità dell'aria
- Topografia delle Alpi del Dauphiné centrale
- Primi tentativi di scalare les Ecrins
- Una valanga possente
- La nostra salita della punta più alta
- Sulle sporgenze delle cime
- «Le jeu ne vaut pas la chandelle»
- Cresta frantumata
- Il salto di Almer
- Sorpresi dalla notte
- Un avvertimento

CAPITOLO IX                                             217
DALLA VAL LOUISE A LA BÉRARDE PER IL COL DE PILATTE

- Gli chalets di Entraigues
- Arrivo di Reynaud
- Sui couloirs di neve
- Sommo del valico
- Una discesa emozionante
- Reynaud supera lo schrund
- L'ultima volta in Dauphiné

CAPITOLO X                                              229
IL PRIMO TRANSITO SUL COL DE TRIOLET E LE PRIME SALITE
DEL MONT DOLENT, DELL'AIGUILLE DE TRÉLATÊTE E
DELL'AIGUILLE D'ARGENTIERE

- Carte del Monte Bianco
- Mr. Adams-Reilly
- Il nostro patto
- Le vette del gruppo del Monte Bianco
- Attraverso il Col de Triolet
- Una salita in miniatura
- Reilly raccomanda pazienza
- Bivacco sul Mont Suc
- La prima salita dell'Aiguille de Trélatête
- La morena del Miage
- A proposito delle morene in generale
- Convinzioni errate sull'argomento
- Il nostro primo tentativo di salire l'Aiguille d'Argentière
- Una grotta nascosta
- Successo finale
- La carta di Reilly

CAPITOLO XI                                             249
IL PRIMO ATTRAVERSAMENTO DEL PASSO DI MOMING
— DA ZINAL A ZERMATT

- Mendicanti svizzeri
- Notte all'alpe d'Arpitetta
- Un sentiero periglioso
- Slavina di ghiaccio
- Sommità del Passo di Moming
- Croz si distingue
- La sala riunioni di Zermatt

1865_______________________________________________________

CAPITOLO XII                                            263
LA PRIMA SALITA DEL GRAND CORNIER

- Sulla scelta dei percorsi
- Rimpianti
- Zinal
- Scalata del Grand Cornier
- Effetti di sole e gelo
- Le grandi creste ne soffrono in maggior misura
- Punti di differenza fra erosione atmosferica e glaciale
- Abricolla

CAPITOLO XIII                                           275
LA SCALATA DELLA DENT BLANCHE

- Leslie Stephen
- L'ascensione di Kennedy
- Sui bergschrunds
- Attenzioni importune
- Una gara per la vita
- Colti dalla notte
- Una sorpresa

CAPITOLO XIV                                            285
PERDUTI SUL COL D'HÉRENS — SETTIMO TENTATIVO AL CERVINO
— LA PRIMA SCALATA DELLE GRANDES JORASSES

- Un ritardo nella partenza e le sue conseguenze
- Sbalorditi
- Ritorno a Abricolla
- Attraversiamo il Col d'Hérens verso Zermatt
- Saliamo il Theodulhorn
- Nuove opinioni a proposito del Cervino
- L'ingannevolezza della parete est
- Stratificazione
- Inclinazione degli strati
- Tentiamo un'altra strada
- «Sauve qui peut!»
- Ancora battuti
- Ascensione delle Grandes Jorasses
- Salvi per miracolo dopo una valanga

CAPITOLO XV                                             305
IL PRIMO TRANSITO SUL COL DOLENT

- Confusione d'idee
- Una partenza a mezzanotte
- Sommità del passo
- Uno straordinario muro di ghiaccio
- Maniera di discenderlo
- Sulle piccozze da ghiaccio e sul loro utilizzo
- Sui pendii ghiacciati e sulla loro sicurezza
- Ramponi
- Arrivo a Chamounix

CAPITOLO XVI                                            315
LA PRIMA SALITA DELL'AIGUILLE VERTE

- Croz ci lascia
- Christian Almer
- Tramonto sulla Mer de Glace
- Scalata dell'Aiguille
- Raccomandazione per gli escursionisti alpini
- Panorama dalla cima
- Temporali in arrivo
- Un portatore di valore
- L'atteggiamento generoso di Chamounix

CAPITOLO XVII                                           325
IL PRIMO TRANSITO SUL COL DE TALEFRE

- Il Col du Géant
- Il Glacier de Talèfre
- Una facile via fra Chamounix e Courmayeur
- Discesa in scivolata
- Valichi attraverso la catena principale del Monte Bianco

CAPITOLO XVIII                                          329
LA PRIMA SALITA DELLA RUINETTE — IL CERVINO

- Facilità con cui la Ruinette può essere salita
- Panorama grandioso
- Riguardo ai crepacci nascosti
- Obiezioni delle guide all'uso della corda
- A proposito di uso e abuso della corda
- Almer rinuncia al Cervino
- Assoldo i Carrel
- Loro defezione
- Gli italiani segnano un punto
- Arrivo di lord Francis Douglas
- Incontro con Croz, Hudson e Hadow

CAPITOLO XIX                                            345
LA PRIMA SALITA DEL CERVINO

- Charles Hudson
- Bivacco sulla parete est
- Croz riporta buone notizie
- Scalata della parete est
- Traversata sul versante nord
- Arrivo in vetta
- Sconfitta degli italiani
- Stupore a Breil
- Un panorama meraviglioso

CAPITOLO XX                                             355
LA DISCESA DAL CERVINO

- Ordine di discesa
- Una valanga spaventosa
- Hadow scivola
- Morte di Croz, Hadow, Hudson e di lord Francis Douglas
- Terrore dei Taugwalders
- La corda spezzata
- Un'apparizione
- Un'infame proposta
- Sorpresi dalla notte
- Ricerca e recupero dei corpi
- Indagine ufficiale
- Fine

APPENDICE                                               371
IL SEGUITO DELLA STORIA DEL CERVINO

Nota biografica                                         389


 

 

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Pagina 35

CAPITOLO I
INTRODUZIONE



Era il 23 luglio del 1860 quando partii per il mio primo viaggio sulle Alpi. Stavamo navigando a tutto vapore attraverso la Manica, quando comparvero le scogliere di Beachy Head e mi tornò in mente una scalata tentata molti anni addietro. Con l'imprudenza degli ignoranti, mio fratello ed io, entrambi scolari, avevamo provato a salire la grande parete di calcare bianco.

Non avevamo mirato esattamente alla punta, dove volano in cerchio gli uccelli marini e la roccia è disposta in strati paralleli, ma più a est, dove il pinnacolo detto "Camino del Diavolo" era caduto. Da allora abbiamo spesso corso svariati pericoli, ma non siamo mai stati tanto vicini a romperci l'osso del collo quanto quella volta.

Mentre ero di passaggio a Parigi, portai a termine due ascensioni. La prima fu una salita fino al settimo piano di una casa nel quartiere latino, per andare a trovare un amico artista, impegnato, al momento in cui io feci il mio ingresso, in un combattimento con un ebreo mingherlino: lo scaraventò con grande decisione, e una forza considerevole, contro un mucchio di vasellame di coccio, quindi passò a raccomandarmi di salire sulle torri di Notre Dame. Mezz'ora più tardi ero dietro il parapetto della grande facciata occidentale, accanto a un demonio maligno che da secoli stava a guardare la città. Subito dopo partivo in treno per la Svizzera; vidi la luce del sole attardarsi sui giganti dell'Oberland; sentii l'echeggiare dei corni in Val Lauterbrunnen e le valanghe rotolare giù dalla Jungfrau; quindi attraversai il passo della Gemmi per raggiungere il Vallese.

Mi stavo recando nella valle di Saas, e il mio lavoro mi condusse su entrambi i versanti delle Alpi, molto oltre il limite della vegetazione e dei percorsi dei turisti. La vista dalle alture del Weissmies, sul lato orientale della valle, tra i 1500 e i 1800 metri sopra il villaggio di Saas, è nelle Alpi forse la più bella nel suo genere. I tre picchi del Mischabel (la più alta montagna della Svizzera) si colgono in tutta la loro estensione con un'unica occhiata; sono quasi 3400 metri di boschi fitti e verdi alpeggi, pinnacoli di roccia e scintillare di ghiacciai. Da dove mi trovavo, mi parve che non ci fosse speranza di accedere a quelle cime.

Discesi poi la valle fino al villaggio di Stalden, e salii la Visp Thal fino a Zermatt, dove mi fermai diversi giorni. Si potevano ancora vedere le tracce del formidabile terremoto di cinque anni prima, soprattutto a St. Nicholas, dove gli abitanti erano rimasti terrorizzati oltre ogni dire dalla distruzione delle loro case e delle loro chiese. In quei luoghi, così come a Visp, gran parte della popolazione era stata obbligata a vivere in tenda per molti mesi. Incredibilmente, in quella circostanza era stato registrato soltanto un caso di morte, nonostante fossero state avvertite circa cinquanta scosse, alcune delle quali molto violente.

A Zermatt vagabondai in diverse direzioni, ma le condizioni atmosferiche erano cattive e il mio lavoro ne venne notevolmente ritardato. Un giorno, dopo aver passato diverso tempo nel tentativo di tracciare schizzi nelle vicinanze dell'Hörnli, provandomi futilmente a fermare sulla carta i profili delle cime quando per un attimo queste sbucavano fra i densi banchi di nuvole lanose, decisi di ritornare a Zermatt: non per il solito percorso, bensì attraversando il ghiacciaio del Gorner sino all'albergo del Riffel. Dopo aver superato rapidamente le rocce lisce e i nevai che circondano la base del ghiacciaio del Théodule, e dopo aver guadato alcuni corsi d'acqua — allora gonfiati dalle piogge recenti — che da questo ghiacciaio hanno origine, giunse la prima difficoltà, sotto forma di un precipizio alto più di novanta metri. Mi era sembrato facile attraversare il ghiacciaio, una volta discesa la parete; ma ora, in alto così come in basso, ai miei occhi inesperti esso sembrava impossibile da valicare, almeno da parte di una persona sola. L'andamento generale della parete era pressoché verticale, ma essa era piuttosto rotta e non era difficile scendere a zig-zag passando da una roccia all'altra. Alla fine trovai un lungo lastrone di pietra piuttosto levigato, incastrato con un'inclinazione di circa 40 gradi fra due pareti di roccia. Più in basso non si riusciva a vedere altro che il ghiacciaio. Finii col mettermi in una posizione imbarazzante, ma riuscii a passare allungandomi di traverso rispetto al lastrone, puntando decisamente le spalle da un lato e i piedi dall'altro, quindi contorcendomi verso il basso, muovendo prima le gambe, poi la schiena. Una volta guadagnato il fondo, trovai una spaccatura propizia dove potei infilare la punta del mio bastone per lasciarmi poi cadere all'inizio del passaggio seguente. Impiegai parecchio tempo a venir fuori da quel breve tratto di parete, e per qualche secondo fui felice di vedere che il ghiaccio era a portata di mano. Un attimo dopo, ecco presentarsi una seconda difficoltà: il ghiacciaio girava attorno a uno spigolo della parete; ma il ghiaccio, dato che non possiede le stesse proprietà della melassa o dello stucco, si teneva ben lontano dalla piccola cengia su cui mi trovavo io. La distanza che ci separava non era grande, ma il bordo del ghiacciaio era più alto rispetto a quello della cengia e, quel che è peggio, la roccia era coperta di terriccio e pietrisco caduti dall'alto. Da quanto potevo vedere, il fianco della parete, in tutta la sua lunghezza, non toccava mai il ghiaccio, ma in mezzo c'era questo crepaccio, largo più di due metri, e di insondabili profondità.

Tutto ciò mi fu chiaro alla prima occhiata, e immediatamente conclusi che non avrei potuto saltare la spaccatura; presi quindi a scendere seguendo la roccia, ma senza successo, perché il livello del ghiaccio cresceva sempre più, fin quando ogni ulteriore tentativo fu bloccato dalla roccia che si faceva sempre più scivolosa. Se avessi avuto una piccozza, avrei potuto incidere il muro di ghiaccio; senza di essa, vidi che non c'era altra alternativa che ritornare dove mi trovavo prima e affrontare il salto.

La notte si stava avvicinando, e la calma solenne delle Alpi era rotta solo dal fruscio delle acque ruscellanti e delle pietre che cadevano. Se il salto fosse riuscito, bene; altrimenti, sarei caduto in quell'orribile abisso, per congelare o per affogare in quell'acqua che scorreva gorgogliando. Tutto dipendeva da quel balzo. E nuovamente mi chiesi: «Si può fare?». Ma si doveva fare.

Mi resi conto che il mio bastone era inutile, e lo lanciai sul ghiaccio, con l'album degli schizzi; indietreggiando il più possibile, e correndo poi in avanti con tutte le mie forze, spiccai il salto, raggiungendo per un pelo l'altro lato e cadendo goffamente sulle ginocchia. Attraversai il ghiacciaio senza ulteriori intoppi, ma l'albergo del Riffel, che all'epoca era una costruzione davvero piccola, era affollatissimo e non poté accogliermi. Poiché la strada per il rientro mi era sconosciuta, mi fu gentilmente suggerito di farmi aiutare da un abitante degli chalets vicini, altrimenti avrei di certo perduto il sentiero nel bosco. Ma una volta raggiunti questi chalets, non riuscii a trovare nessuno, e le luci di Zermatt, che ammiccavano attraverso gli alberi, sembravano dire: «Non preoccuparti della guida: vieni giù, ti mostreremo noi la via»; così presi decisamente attraverso il bosco, andando diritto verso le luci. Persi il sentiero quasi subito, e non mi riuscì più di trovarlo. Inciampavo nelle radici dei pini, rotolavo sui cespugli di rododendri, cascavo sulle pietre. La notte era scura come la pece e le luci di Zermatt divennero molto più fievoli, o forse si spensero del tutto.

Con una serie di scivoloni, cadute e altre acrobazie più o meno sgradevoli, la discesa attraverso il bosco giunse infine al termine; ma prima di arrivare a Zermatt dovevo ancora attraversare torrenti di impetuosità formidabile. Cercai per ore la mia strada, quasi senza speranza; dopo aver provato dappertutto alla fine trovai un ponte, e verso mezzanotte, coperto di graffi e sudiciume, rientrai all'albergo che avevo lasciato al mattino.

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Pagina 47

CAPITOLO II
LA SCALATA DEL MONT PELVOUX



                   Così la fortuna, al nostro primo tentativo, ci sorride.
                                                                 VIRGILIO



La regione, di cui il Mont Pelvoux e le vette all'intorno costituiscono i punti culminanti, è storicamente e topograficamente una delle più interessanti delle Alpi. Come culla e sede della religione valdese, essa ha diritto a un'attenzione che deve essere imperitura. I nomi di Valdo e Neff rimarranno nella memoria anche quando altri uomini di quel tempo, oggi più conosciuti, saranno dimenticati; il ricordo dell'eroico coraggio e della genuina religiosità dei loro discepoli vivrà finché durerà la Storia.

In quest'area sono le più alte vette di Francia e alcuni dei suoi paesaggi più belli. Forse non vanta le bellezze della Svizzera, ma ha un suo proprio fascino: i dirupi, i torrenti e le gole restano senza uguali; le sue profonde e selvagge vallate offrono immagini grandiose, persino sublimi; e l'aspetto audace delle sue montagne non è secondo a null'altro.

La zona comprende un'infinità di valli, in competizione tra loro per la singolarità della conformazione e le differenze climatiche. Alcune sono così profonde e strette che non vengono mai raggiunte dai raggi del sole; in altre è tutto il contrario, essendo le temperature più simili a quelle delle pianure italiane che a quelle della Francia alpina. La grande varietà del clima ha un marcato effetto sulla flora di queste valli: in alcune regna l'ambiente arido, gli alberi lasciano il posto alle pietre, fiori e piante a fango e detriti; in altre, magari a pochi chilometri di distanza, si trovano la vite, il melo, il pero e il ciliegio, e ancora la betulla, il noce, l'acacia e il pino, che si alternano a campi di segale, orzo, avena, fagioli e patate.

Le valli sono per lo più brevi e irregolari. Apparentemente non sembrano seguire alcun ordine. A differenza di quanto si può osservare in altre zone, non sono disposte ad angolo retto o parallele rispetto alle vette più alte; pare che gironzolino qua e là, prendendo una data direzione per qualche chilometro, per poi magari svoltare e tornare al corso iniziale. Così, è raro trovare ampie prospettive e risulta difficile formarsi un'idea generale riguardo alla disposizione delle cime.

Le punte più elevate sono disposte all'incirca a ferro di cavallo. La più alta di tutte, che per di più occupa una posizione centrale, è la Pointe des Ecrins; la seconda, la Meije, è situata a nord; e il Mont Pelvoux, che dà nome all'intero massiccio, è alquanto isolato e distante.

La regione è ancora scarsamente conosciuta: ci sono probabilmente molte valli e molte vette dove viaggiatori e turisti non hanno mai posto piede; addirittura, nel 1861 la zona era quasi totalmente ignota. Fino a poco tempo fa non ne esisteva neppure una carta, con l'eccezione di quelle di Ball e di Joanne, che erano però in scala troppo ridotta; quella del generale Bourcet, la migliore che fosse stata pubblicata, riportava una rappresentazione delle montagne completamente sbagliata e sovente non era corretta per quanto riguarda strade e sentieri.

Inoltre, a differenza della Svizzera, del Tirolo o anche delle valli italiane, le terre montuose del Dauphiné non sono attrezzate per accogliere i viaggiatori. Le locande, quando ne esistono, sono di solito sporche in modo indescrivibile; si riesce di rado ad avere un po' di riposo in quei letti, così come di rado si trova cibo decente nelle cucine; e non è possibile rimediare una sola guida locale che valga qualcosa. Il turista può far conto unicamente sulle proprie risorse, e non sorprende che queste regioni siano meno visitate del resto delle Alpi.

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Pagina 54

Reynaud si fece gentilmente carico di pensare alle provviste, e quando stavamo per partire mi resi conto con disappunto che avevo dato tacito consenso a portare con noi un barilotto di vino, che fin dall'inizio creò un gran fastidio. Era decisamente poco maneggevole e tutti, uno dopo l'altro, facemmo tentativi per risolverne il trasporto; alla fine lo appendemmo a uno dei nostri bastoni, portandolo in due, il che conferì alla nostra squadra l'aspetto di un diagramma volto a illustrare applicazioni del principio della leva.

A La Ville la Val Louise si divide in due rami: la Val d'Entraigues a sinistra e il Vallon d'Alefred (o Ailefroide) sulla destra; la nostra strada passava per quest'ultimo, e noi ci avviammo diligentemente verso il villaggio di La Pisse, dove viveva Pierre Sémiond, del quale si diceva che ne sapesse più di chiunque altro sul Pelvoux. Sembrava un brav'uomo, ma sfortunatamente era malato e non poteva quindi accompagnarci. Ci raccomandò il suo anziano fratello, dal volto incartapecorito e segnato dalle rughe. Era davvero difficile credere che fosse lui l'uomo che cercavamo; ma, non avendo scelta, lo assoldammo e ci rimettemmo in cammino. Alberi di noce e una gran varietà di altre piante regalavano ombra al nostro percorso e vigore alle nostre membra; mentre in basso, in una gola straordinaria, tuonavano le acque del torrente provenienti dalle nevi che noi speravamo di calcare l'indomani.

Il Pelvoux non era visibile da La Ville, a causa di un'alta cresta che lo occultava; e noi camminavamo ai piedi di questa, per raggiungere gli chalets di Alefred o, come vengono a volte chiamati, di Aléfroide, là dove la montagna in effetti nasce. Da questi chalets le cime minori, che sono più vicine, sembrano molto più alte di quelle più elevate che si trovano dietro, e a volte le occultano del tutto. Ma l'intera altezza del picco che in queste valli è noto con il nome di "Grand Pelvoux" appare qui in un solo colpo d'occhio: oltre 2000 metri di pareti quasi verticali.

Gli chalets di Alefred sono un grappolo di misere capanne di legno ai piedi del Grand Pelvoux, situate alla confluenza delle acque che scendono dal ghiacciaio di Sapenière, o del Selé, sulla destra, e dal Glacier Blanc e dal Glacier Noir sulla sinistra. Ci fermammo un momento per comprare burro e latte, e Sémiond scovò un ragazzotto dall'aspetto poco raccomandabile per avere assistenza nel trasporto, a spinte o in qualunque altro modo, del barilotto di vino.

La nostra strada ora svoltava decisamente a sinistra, e tutti eravamo felici che la giornata volgesse al termine, portandoci l'ombra delle montagne. È davvero difficile immaginare una valle più spaventosa e desolata di quella: per chilometri, macigni, detriti, sassi, sabbie e melma; radi alberi, che crescono tanto in alto da essere quasi fuori vista; non un'anima vi dimora; non vi volano uccelli, nelle sue acque non ci sono pesci; la montagna è troppo ripida per il camoscio, le sue chine troppo inospitali per la marmotta, il tutto troppo repulsivo per l'aquila. Per quattro giorni, in questo solco sterile e selvaggio non vedemmo un solo essere vivente, fatta eccezione per alcune disgraziate capre che vi erano state condotte controvoglia.

Lo scenario era adatto al diabolico delitto perpetrato in quei luoghi circa quattrocento anni prima: l'uccisione dei valdesi della Val Louise nella grotta che ora era in vista, malgrado si trovasse molto più in alto delle nostre teste. La loro storia è davvero triste. Pacifici e industriosi, per più di tre secoli essi avevano tranquillamente abitato queste valli appartate, in serafico isolamento. Gli arcivescovi di Embrun tentarono, con scarsi risultati, di "convertirli" per farli entrare sotto la giurisdizione della loro Chiesa. A sostenere questi sforzi intervennero anche coloro che dapprima introdussero la prigionia e la tortura, e poi finirono col bruciarli sul rogo a centinaia. Il 22 di maggio del 1393, a Embrun, furono uccise in questo modo ottanta persone delle valli di Freissinières e Argentière e centocinquanta della Val Louise.

Nell'anno 1488 Alberto Cattaneo, arcidiacono di Cremona e legato di papa Innocenzo VIII, anticipò la barbarie che in seguito avrebbe provocato l'indignazione di Milton e i timori di Cromwell; ma, respinto ogni volta dai valdesi del Piemonte, lasciò la zona, e valicò il Mont Genèvre per attaccare le valli dei valdesi in Dauphiné, più deboli e scarsamente popolate. Alla testa di un esercito che si dice fosse composto da vagabondi, ladri e assassini (indotti all'impresa da promesse di assoluzione anticipata, di scioglimento di voti fatti in precedenza, di legittimazione di proprietà da loro indebitamente acquisite), e affiancato da truppe regolari, Cattaneo discese nella valle della Durance. Gli abitanti della Val Louise fuggirono di fronte ai nemici, dieci volte superiori a loro nel numero, e si rifugiarono appunto in quella grotta, dove avevano accumulato scorte sufficienti per due anni. Ma l'intolleranza è piena di zelo e meticolosità: il loro nascondiglio venne scoperto. Cattaneo aveva un capitano la cui personalità trovava riunite l'ingegnosità di un Erode e la crudeltà di un Pelissier; costui, con l'aiuto di corde, calò fino all'entrata della caverna i suoi uomini, che appiccarono il fuoco a un fascio di rami d'albero, soffocando la maggior parte di coloro che si trovavano all'interno; i sopravvissuti vennero trucidati. I valdesi furono inesorabilmente sterminati, senza alcuna distinzione di età o sesso. Si dice che più di tremila persone siano morte in questo spaventoso massacro; una storia di trecentocinquant'anni fu stroncata in un colpo solo, e la valle rimase del tutto spopolata. Luigi XII fece in modo che venisse ripopolata e, dopo altri tre secoli e mezzo, il risultato è oggi una razza di scimmie. Si tratta di 3400 abitanti, a proposito dei quali Elisée Reclus scrive con cognizione di causa: «Abbondantemente provvisti di gozzi maestosi, che crescono con l'età, durante l'infanzia essi raggiungono il massimo del loro sviluppo mentale, e sono a questo proposito simili agli oranghi, che passati i tre anni non imparano più nulla; all'età di cinque anni, questi piccoli cretini hanno già dipinta sul viso la placida e ormai definitiva espressione che mostreranno per tutta la vita...».

Ci riposammo un poco presso una piccola sorgente, quindi ci avviammo con passo spedito fino a giungere ai piedi del ghiacciaio di Sapenière.

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Null'altro che il pesante respiro dei nostri compagni già profondamente addormentati rompeva la quiete solenne della notte. Era un silenzio percettibile. Niente? Ma ascoltate, che cos'è quel rimbombo sordo sopra di noi? È "niente", quello? Eccolo ancora, più chiaro, eccolo che viene, più vicino, più distinto: è un masso che si è staccato là in alto! Che boato spaventoso! Saltiamo in piedi. Il masso arriva, con una furia tremenda; che cosa mai potrebbe contrastare la sua violenza? Saltando, danzando, volando, schiantandosi contro altri massi, ruggisce mentre scende. Ah, è passato! No: è di nuovo qui, e tratteniamo il respiro finché, con forza irresistibile e un tuonare come di cannoni, esso passa sfrecciando, seguito da una valanga di frammenti polverizzati. È andato, e respiriamo più liberamente quando sentiamo il tonfo finale sul ghiacciaio in basso.

Ci ritirammo infine per la notte, ma ero troppo eccitato per dormire. Alle 4,15 avevamo tutti lo zaino di nuovo in spalla ed eravamo di partenza. Questa volta ci accordammo per tenerci più a destra, per vedere se c'era modo di raggiungere il plateau senza perdere tempo ad attraversare il ghiacciaio. Descrivere il nostro percorso significherebbe ripetere quanto già detto in precedenza. Salimmo costantemente per un'ora e mezza, a volte camminando, più di frequente arrampicando, per scoprire alla fine che, dopo tutto, era comunque necessario passare per il ghiacciaio. Il punto in cui ne attaccammo il fianco era molto ripido e crepacciato. Ma il termine "crepacciato" non è abbastanza espressivo per descriverne l'aspetto: era un ammasso di seracchi formidabili. Tuttavia, trovammo molto più difficile salire sul ghiacciaio che attraversarlo; anche se, grazie alla corda, la traversata si svolse in completa sicurezza. Poi, di nuovo le interminabili serie di contrafforti: continuammo ad avanzare, un'ora dopo l'altra, sbagliando spesso percorso, il che ci obbligava a tornare sui nostri passi. La cresta dietro di noi si era abbassata da un pezzo, e potevamo guardare al di sopra di essa, e di tutte le altre, fino a vedere il maestoso Monviso. Il tempo scorreva monotono. Quando venne il mezzogiorno ci fermammo a mangiare e contemplammo lo scenario soddisfatti: tutte le vette visibili, con la sola eccezione del Monviso, avevano ceduto il passo; potevamo osservare uno spazio immenso, un vero oceano di picchi e nevai. Solo i pinnacoli si ergevano ancora sopra di noi, e l'opinione espressa da tutti era che, per quel giorno, di sicuro non avremmo visto la vetta del Pelvoux.

Il vecchio Sémiond era ormai divenuto una noia tremenda per tutti. Ogni volta che qualcuno si fermava per guardarsi intorno, egli diceva, con un risolino compiaciuto: «Non abbiate paura, seguite me». Capitò alla fine che dovessimo affrontare un brutto tratto su roccia marcia, ripido e senza appigli. A quel punto Reynaud e Macdonald confessarono di essere stanchi, e espressero l'intenzione di andare a dormire. Ma trovammo il modo di uscire dalle difficoltà; allora qualcuno gridò: «Guardate il Monviso! », e ci rendemmo conto che eravamo quasi più alti della sua vetta. Proseguimmo il cammino con energie raddoppiate finché ci trovammo in vista del fronte del ghiacciaio che fluiva dal plateau. Questo spettacolo ravvivò le nostre speranze – non ci eravamo sbagliati – e con un urlo unanime salutammo la comparsa delle tanto desiderate nevi. Un largo crepaccio ce ne separava ancora; ma trovammo un ponte di neve e, legati in cordata, lo passammo senza correre rischi. Proprio di fronte a noi si ergeva una bella punta coperta di neve. «La piramide! Vedo la piramide!» gridò il vecchio Sémiond. «Dove, Sémiond, dove?» «Là, sulla punta di quel picco.»

Di sicuro laggiù c'era il tumulo che egli aveva aiutato ad erigere più di trent'anni prima. E il Pic des Arcines? Non lo si vedeva da nessuna parte: c'era solo una grande distesa di neve, cui facevano corona tre vette minori. Alquanto tristemente, ci incamminammo in direzione della piramide, lamentando che non ci fosse altro da conquistare; ma avevamo fatto forse solo duecento passi quando, alla nostra sinistra, vedemmo innalzarsi un superbo cono bianco che prima era nascosto da un pendio di neve. «Il Pic des Arcines!» gridammo, e domandammo a Sémiond se quella cima fosse già stata salita. Ma lui non sapeva niente, tranne che la cima di fronte a noi era chiamata "la piramide", dal tumulo che egli aveva aiutato a erigere, eccetera eccetera, e da allora nessuno l'aveva più scalata. «Molto bene, allora, andiamo!» e all'istante svoltammo ad angolo retto verso il cono, mentre il portatore lottava debolmente in direzione della sua amata piramide. Il nostro cammino fu arrestato, dopo circa trecento metri, dal filo della cresta che collega le due cime: ci avvedemmo che questa presentava un'elegante cornice sinuosa. Nostro malgrado, fummo costretti a retrocedere. Sémiond, che era l'ultimo della fila, colse quest'opportunità per slegarsi e rifiutò di proseguire; parlando vagamente di crepacci, disse che stavamo correndo troppi rischi. Lo legammo un'altra volta e procedemmo. La neve era molto soffice; sprofondavamo fino al ginocchio e in qualche caso fino alla cintola; ma, strattonando avanti e indietro, riuscivamo di solito a liberarci. Arrivammo in questo modo ai piedi dell'ultimo rilievo. La cresta di sinistra sembrava più facile di quella su cui ci trovavamo, così girammo attorno per raggiungerla. La roccia faceva capolino una cinquantina di metri sotto la vetta, e in quella direzione strisciammo, lasciando indietro il nostro portatore, che diceva di essere spaventato. Mentre salivamo non potei resistere alla tentazione di voltarmi e fargli segno di avanzare, aggiungendo: «Non abbiate paura, seguitemi». Ma lui non rispose ai miei richiami, e non salì mai quella vetta. La roccia conduceva a una crestina di ghiaccio: il nostro plateau da una parte, un precipizio quasi verticale dall'altra. Macdonald si mise a gradinare, e alle 13,45 ci stringevamo la mano sulla vetta più alta del Pelvoux finalmente conquistato.

La giornata era più bella di quanto si potesse desiderare e innumerevoli vette irrompevano nel cielo azzurro, senza una nuvola che le nascondesse. Il possente Monte Bianco, distante ben più di cento chilometri, fu il primo a catturare il nostro sguardo, seguito poi dal gruppo del Monte Rosa, ancora più in là; mentre, volgendosi a est, si succedevano l'una dopo l'altra ignote catene di montagne, in uno splendore senza veli; i colori man mano sbiadivano, ma i profili rimanevano perfettamente definiti, finché da ultimo l'occhio non riusciva più a distinguere il cielo dalle montagne, e queste svanivano nell'orizzonte lontano; il Monviso si ergeva grandioso, a poco più di sessanta chilometri, e noi scorgemmo al di là di questo una massa nebbiosa che sapevamo essere il Piemonte; verso sud un'azzurra foschia pareva segnalare l'esistenza del Mediterraneo lontano; a ovest potevamo vedere le montagne dell'Auvergne.

Questo era il panorama: una visuale che si dilatava quasi in ogni direzione per più di 160 chilometri. Fu con qualche difficoltà che strappammo lo sguardo da queste distanze per osservare anche le cose più vicine. Mont Dauphin era ben visibile, ma fu più difficile mettere a fuoco La Bessée. A parte queste due località, non non c'erano altri luoghi abitati: tutto era roccia, neve o ghiaccio; e per quanto conoscessimo la vastità dei nevai del Dauphiné, fummo sorpresi di scoprire che essa superava di molto la nostra più ardente immaginazione. Quasi sulla linea che stava fra noi e il Monviso, immediatamente a sud di Chateau Queyras, c'era uno splendido gruppo di montagne altissime.

Più a sud un picco sconosciuto pareva essere ancora più alto, mentre fummo stupiti di scoprire vicino a noi una montagna la cui quota pareva anche maggiore di quella sulla quale ci trovavamo. Almeno, questa era la mia opinione; Macdonald pensava che non fosse poi così elevata, e Reynaud che fosse più o meno alla stessa altezza.

Questa montagna distava circa tre chilometri, ed era situata al di là di un abisso terrificante, di cui noi non potevamo vedere il fondo. Dalla parte opposta si levava quella vetta imponente, dalle pareti troppo ripide per trattenere la neve, nera come la notte, con creste affilate e una cima appuntita. Eravamo del tutto all'oscuro riguardo la sua posizione, perché nessuno di noi era mai stato sull'altro versante. Immaginavamo che La Bérarde si trovasse nell'abisso ai nostri piedi, mentre si trovava invece proprio al di là di quella montagna. Questa vetta è in effetti il punto culminante del gruppo, ed è riportata sulla carta di Francia con il nome di Pointe des Ecrins. È visibile dalla Val Christophe, dove nasconde completamente il Mont Pelvoux. Ma sull'altro versante avviene il contrario: il Pelvoux la copre, occultandola. Ignorando tutto ciò, battezzammo la nostra vetta Pic des Arcines o des Ecrins, seguendo la tradizione locale.

Lasciammo infine la punta e scendemmo fino a raggiungere il nostro portatore presso le rocce sottostanti la cima, dove misi a bollire un po' d'acqua ottenuta facendo sciogliere la neve. Dopo esserci rifocillati e aver fumato i nostri sigari (accesi senza difficoltà con un normale fiammifero) ci rendemmo conto che erano già le 15,10, davvero l'ora di scendere. Cascammo, arrancammo e rotolammo per mezz'ora nella neve, finché iniziammo la discesa dei contrafforti rocciosi. Erano all'incirca le 16 e, dato che il buio sarebbe calato alle 20, non c'era evidentemente tempo da perdere; quindi forzammo al massimo l'andatura. Durante la discesa non accadde alcunché di notevole. Ci tenemmo piuttosto vicini al ghiacciaio e attraversammo nello stesso punto di quella mattina. Andare giù fu pressappoco com'era stato andare su: decisamente scomodo. Il vecchio Sémiond era passato, e così aveva fatto Reynaud; li seguiva Macdonald che, essendosi allungato per salire un blocco di ghiaccio più alto degli altri, scivolò, e se non fosse stato legato sarebbe finito in un attimo nelle viscere di un crepaccio.

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CAPITOLO XIX
LA PRIMA SALITA DEL CERVINO



                                         Se avessimo avuto successo,
                               saremmo stati annoverati fra i saggi:
            le nostre menti sono abituate a giudicare dai risultati.
                                                            EURIPIDE

                             È del tutto sbagliato, ma molto comune,
                                         lodare o biasimare progetti
                     (sia quelli giusti in sé, sia quelli sbagliati)
                               guardando all'esito, buono o cattivo.
                             Così le medesime azioni sono attribuite
                       una volta alla saggezza, l'altra alla vanità.
                                                   PLINIO IL GIOVANE



Partimmo da Zermatt i113 luglio, alle 5,30, in una splendida mattina dal cielo completamente sereno. Eravamo in otto: Croz, il vecchio Peter con i suoi due figli (che portavano provviste per tre giorni, nel caso la salita si fosse rivelata più complicata del previsto), lord Douglas, Hadow, Hudson e io.

Per assicurare un'andatura costante, ognuno di noi tourists camminava accanto a un valligiano. A me capitò il Taugwalder più giovane. Il ragazzo marciava bene, orgoglioso di partecipare alla spedizione e felice di dare una dimostrazione della sua forza. Anche le borracce del vino capitarono in sorte a me, e durante il giorno, dopo ogni bevuta, le rabboccavo segretamente con acqua, sicché alla sosta successiva le si trovava più piene di prima! Questo fu considerato un buon presagio, e un piccolo miracolo.

Non intendevamo arrivare ad alta quota il primo giorno e, di comune accordo, salimmo con tutto comodo. Alle 8,20 riprendemmo le cose che erano state lasciate alla cappella dello Schwarzsee, e procedemmo quindi lungo la cresta che collega l'Hörnli al Cervino. Alle 11,30 arrivammo ai piedi del picco vero e proprio; allora abbandonammo la cresta e arrampicammo lungo certe cenge, fino a toccare la parete est. Eravamo ora piuttosto in alto sulla montagna, e ci stupimmo di constatare come certi punti che dal Riffel, o anche dal ghiacciaio del Furggen, parevano del tutto impraticabili, erano così facili che avremmo potuto metterci a affrontarli di corsa.

Prima di mezzogiorno avevamo trovato una buona posizione posto dove piazzare per la tenda, a una quota intorno ai 3350 metri. Croz e il giovane Peter andarono avanti a vedere quel che ci aspettava, per guadagnare tempo il mattino seguente. Tagliarono per la sommità dei nevai che scendevano verso il ghiacciaio del Furggen, scomparendo oltre un diedro; e poco dopo li vedemmo che si muovevano veloci, molto alti sulla parete. Noialtri costruimmo una solida piattaforma per la tenda, in un angolo riparato, quindi aspettammo con impazienza il ritorno degli uomini. Le pietre che smuovevano ci fecero capire che erano giunti molto in su, e pensammo che la via dovesse per forza essere facile. Alla fine, poco prima delle 15, li vedemmo che scendevano con evidente agitazione. «Cosa stanno dicendo, Peter?» «Gentlemen, stanno dicendo che non va bene.» Ma quando essi si avvicinarono udimmo un diverso racconto: «Non c'è niente che non vada bene; non una difficoltà, non una sola difficoltà! Avremmo potuto andare in vetta e ritornare oggi con assoluta facilità!».

Facemmo passare le restanti ore di luce, qualcuno a godersi i raggi del sole, qualcun altro a disegnare o raccogliere pietre; e quando il sole fu tramontato, con una gloriosa promessa di bel tempo per il giorno seguente, ritornammo al campo a sistemarci per la notte. Hudson preparò il tè, io il caffè, e quindi ci ritirammo, ognuno nella sua coperta a sacco; i Taugwalder, lord Francis Douglas ed io eravamo nella tenda, mentre gli altri avevano preferito restare fuori. Molto dopo il crepuscolo, le pareti sopra di noi echeggiavano ancora delle nostre risate e delle canzoni delle guide, poiché eravamo felici, quella sera, e non temevamo nulla di male.

Prima dell'alba, il mattino del 14, eravamo già tutti fuori dalla tenda; e partimmo appena ci fu abbastanza luce per muoversi. Il giovane Peter venne con noi come guida, mentre suo fratello ritornava a Zermatt. Seguimmo l'itinerario che era stato percorso il giorno precedente, e in pochi minuti fummo oltre la costa che ci aveva chiuso la visuale sulla parete est dalla piattaforma della tenda. Ci si svelava ora per intero il grande pendio, che saliva per più di 900 metri come un'immensa scalinata naturale. Qualche tratto appariva più facile, altri meno; ma non ci trovammo mai bloccati da un ostacolo serio, poiché quando incontravamo un problema era sempre possibile aggirarlo a destra o a sinistra. Per la maggior parte della via non fu necessario usare la corda; a volte conduceva Hudson, a volte toccava a me. Alle 6,20 avevamo raggiunto una quota di 3900 metri, e ci fermammo per una mezz'ora; quindi riprendemmo la salita, senza fare soste fino alle 9,55, quando ci fermammo per cinquanta minuti a una quota superiore ai 4260 metri. In due occasioni passammo sulla cresta nord-est seguendola per un breve tratto, senza averne vantaggio, dato che era spesso rotta e ripida, e comunque più difficile della parete. Ad ogni modo, ci tenemmo nei suoi pressi, temendo che si potessero verificare cadute casuali di pietre.

Eravamo ora arrivati ai piedi di quel punto che, dal Riffelberg o da Zermatt, sembra verticale, se non strapiombante, e non potevamo proseguire sul versante orientale. Per un poco salimmo su neve lungo l' arête, cioè la cresta, che scende verso Zermatt, e quindi, di comune accordo, prendemmo a destra, nella direzione del versante nord. Ma prima effettuammo un cambiamento nell'ordine secondo cui saremmo saliti. Croz passò in testa, mentre io seguivo e Hudson veniva terzo; toccava ad Hadow e al vecchio Peter chiudere la fila. «Ora» disse Croz, attaccando la salita «viene qualcosa di completamente diverso.» Il suo lavoro si faceva difficile, e richiedeva attenzione. In qualche tratto c'era ben poco cui aggrapparsi, ed era bene mandare avanti coloro che avevano meno probabilità di scivolare. La pendenza media in questa parte della montagna era minore di 40 gradi, e la neve vi si era accumulata, colmando gli interstizi nella superficie della roccia, lasciandone fuori solo occasionali sporgenze qua e là. Queste erano a volte coperte da una sottile pellicola di ghiaccio, prodotta dalla neve che si scioglieva e poi rigelava. Era, in piccolo, il duplicato dei 200 metri finali sulla Pointe des Ecrins, con solo una differenza effettiva: la parete degli Ecrins aveva una pendenza di 50 gradi o più; quella del Cervino (che in questo punto era meno ripida della media complessiva) non toccava i 40 gradi. Era un tratto su cui qualunque alpinista medio poteva passare in tutta sicurezza, e Hudson salì questa e, per quanto ne so, ogni altra parte della montagna, senza aver bisogno della minima assistenza, mai. A volte, dopo aver afferrato la mano di Croz, o dopo avere approfittato di una spinta, mi voltavo ad offrire lo stesso aiuto a Hudson; ma invariabilmente egli declinava, dicendo che non era necessario. Hadow, tuttavia, non era abituato a questo genere di ginnastica, e chiedeva continuamente una mano. È soltanto una questione di lealtà dire che le difficoltà che egli incontrò in questo tratto derivarono, esclusivamente e totalmente, dalla mancanza di esperienza.

Quest'unica parte difficile non era molto lunga (non ho preso nota del tempo impiegato; credo che ci abbia portato via circa un'ora e mezza). Ne uscimmo traversando in orizzontale, per circa 120 metri, poi salendo in direzione della vetta per una ventina di metri; quindi ritornammo un'altra volta verso la cresta che scende verso Zermatt. Un lungo passo intorno a uno spigolo delicato ci portò nuovamente alla neve. L'ultimo dubbio scomparve! Il Cervino era nostro! Non più di 60 metri di neve facile rimanevano da salire!

Ora il lettore deve ritornare con il pensiero ai sette italiani partiti da Breil l'11 luglio. Quattro giorni erano passati da allora, e noi eravamo tormentati dall'ansietà, temendo che essi potessero arrivare in vetta prima di noi. Avevamo parlato di loro per tutta la salita, e avevamo lanciato diversi falsi allarmi a proposito di "uomini in vetta". Più ci innalzavamo, più l'agitazione cresceva. Come ci saremmo sentiti, se fossimo stati battuti sul tempo all'ultimo momento? Il pendio si addolciva, alla fine potemmo slegarci e Croz ed io, schizzando in avanti, ingaggiammo un testa a testa che terminò alla pari. Alle 13,40 il mondo era ai nostri piedi e il Cervino era conquistato. Hurrah! Non si vedeva nessun'altra impronta.

Comunque non era certo che nessuno ci avesse preceduti. La vetta del Cervino è costituita da una cresta grossolanamente appiattita, lunga un centinaio di metri, e gli italiani avrebbero potuto trovarsi all'altra estremità. Mi affrettai verso la punta sud, esaminando con ansia la neve a destra e a sinistra. Ancora una volta, hurrah! Era immacolata. E dov'erano gli uomini? Guardai giù dal dirupo, a metà dubbioso, a metà in attesa. Li vidi subito, soltanto puntini sulla cresta, in basso, infinitamente lontani. Le mie braccia si levarono, e così il mio cappello. «Croz! Croz! Venite qui!» «Dove sono, monsieur?» «Là, non li vedete, laggiù?» «Ah, i coquins! Sono proprio tanto in basso.» «Croz, dobbiamo fare in modo che quei bravi ragazzi ci sentano.» Continuammo a strillare finché fummo rauchi. Gli italiani sembravano guardarci. Ma non potevamo esserne sicuri. «Croz, dobbiamo farci sentire; devono sentirci!»

Mi aggrappai a un blocco di roccia e lo gettai di sotto, implorando il mio compagno, nel nome dell'amicizia, di fare lo stesso. Infilammo i bastoni tra le pietre, e facemmo leva; subito un torrente di sassi rotolò lungo i salti di roccia. Questa volta non ci si poteva sbagliare. Gli italiani si voltarono e se ne tornarono indietro.

Con tutto ciò, avrei voluto che il capo di quella spe- dizione fosse stato con noi in quel momento, perché il nostro grido di vittoria gli portava ora la delusione dell'ambizione di una vita. Era lui, fra quelli che avevano tentato la salita del Cervino, l'uomo che più di tutti avrebbe meritato di essere il primo sulla sua cima. Era stato lui il primo a dubitare della sua inaccessibilità, il solo a continuare a credere che la salita sarebbe stata realizzata. E compierla dal versante italiano, per l'onore della sua valle natia, era stato lo scopo della sua vita. Per un attimo aveva avuto in mano tutte le carte. Le aveva giocate come meglio aveva ritenuto; ma aveva fatto un errore, e aveva perduto. I tempi sono cambiati, per Carrel. La sua supremazia in Val Tournanche viene ora messa in questione, e sono comparsi uomini nuovi; non viene più riconosciuto il suo ruolo, non è più il cacciatore, una spanna sopra tutti gli altri: tuttavia, fin quando egli resterà quello che è oggi, non sarà facile trovare chi gli possa essere superiore.

Gli altri erano arrivati, così ritornammo all'estremità settentrionale della cresta. Croz prese uno dei pali della tenda (che aveva portato con sé) e lo piantò in un punto dove la neve era molto profonda. «Sì,» dicemmo «qui c'è l'asta della bandiera; ma la bandiera dov'è?» «Eccola qui» rispose lui, sfilandosi la blusa e fissandola al paletto. Ne sortì una bandiera piuttosto povera, e non c'era un alito di vento che la facesse sventolare; ciononostante, fu vista ovunque. La videro a Zermatt, al Riffel, in Val Tournanche. A Breil, gli osservatori gridarono: «La vittoria è nostra!». Strillarono tanti «Bravo» per Carrel, e tanti «Viva» per l'Italia, e si affrettarono a mettersi en fête.

Il mattino seguente venne il disinganno. Racconta il signor Giordano: «Tutto era cambiato; gli esploratori tornarono tristi, depressi, demoralizzati, confusi, rannuvolati. "È vero," dissero gli uomini "li abbiamo visti, ci lanciavano pietre! Le vecchie tradizioni sono vere: ci sono gli spiriti sulla cima del Cervino!"». I compagni di Giordano, ad eccezione di Jean-Antoine Carrel, si rifiutarono di ripetere il tentativo: il 16 di luglio, egli ripartiva con Carrel e altre tre guide, raggiungendo la vetta il 17.

Ritornammo all'estremità sud della cresta di vetta, per erigere un ometto di pietre; quindi rendemmo omaggio al panorama. Era una di quelle splendide, calmissime e chiare giornate che in genere preludono al cattivo tempo. L'atmosfera era immobile, priva di nuvole e vapori. Montagne che distavano da noi 80 chilometri, o anche il doppio, erano tanto ben delineate da sembrare vicine. Tutti i particolari — le creste e le rocce, la neve e i ghiacciai — spiccavano con una nitidezza impeccabile. Piacevoli ricordi di giorni felici vissuti negli anni passati si affacciarono spontanei alla mente nel riconoscere le antiche sagome divenute ormai familiari. Si distingueva ogni rilievo, nessuna delle cime principali delle Alpi era nascosta.

Vedo ancora con chiarezza i grandi cerchi concentrici di giganti sullo sfondo di catene, gruppi e massifs. I primi erano la Dent Bianche, candida e grandiosa, il Gabelhorn e l'affusolato Rothhorn; quindi il Weisshorn, impareggiabile; il torreggiante Mischabelhörner fiancheggiato dall'Allaleinhorn, dallo Strahlhorn e dal Rimpfischhorn; quindi il Monte Rosa con le sue molte spitzes, il Lyskamm e il Breithorn. Dietro, l'Oberland Bernese, su cui regna il Finsteraarhorn; poi, i gruppi del Sempione e del San Gottardo; il Disgrazia e l'Orteler. In direzione sud il nostro sguardo spaziò fino a Chivasso, alla pianura del Piemonte, e anche oltre. Il Monviso, a 160 chilometri di distanza, ci pareva vicino; le Alpi Marittime, a 200 chilometri, erano libere da ogni foschia. Quindi veniva il mio primo amore, il Pelvoux; poi gli Ecrins e la Meije; i gruppi ammassati delle Graie; e per finire, a ovest, splendido in pieno sole, si ergeva il monarca di tutte le altre vette: il Monte Bianco.

Tremila metri sotto di noi erano i verdi campi di Zermatt, punteggiati di chalets da cui si alzava pigro un fumo azzurrastro. Meno di 2500 metri più sotto, sull'altro versante, erano i pascoli di Breil. C'erano oscure foreste nere, vividi prati ridenti; salti di cascate e acque immobili nei laghi; terre fertili e distese selvagge; pianure soleggiate e gelidi plateaux. C'erano le forme più irregolari e i profili più aggraziati, ardite pareti di roccia verticale e gentili pendii ondulati; montagne rocciose e montagne innevate, umili e solenni, o bianche e lucenti, con muraglie, torri, pinnacoli, piramidi, cupole, coni e punte! C'era ogni tipo di combinazione che l'universo possa offrire, e ogni genere di contrasto che il cuore possa desiderare.

Restammo sulla cima per un'ora,

«un'ora colma di vita gloriosa».

Quest'ora trascorse troppo velocemente, e presto fu il momento di prepararsi a scendere.

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CAPITOLO XX
LA DISCESA DAL CERVINO



Hudson ed io ci consultammo ancora riguardo alla migliore e più sicura disposizione del gruppo.

Convenimmo che sarebbe stato meglio mandare avanti Croz, seguito da Hadow (se i membri della spedizione fossero stati tutti egualmente abili, Croz avrebbe dovuto essere l'ultimo); Hudson, che era pari a una guida in quanto a sicurezza del passo, volle essere terzo; seguiva lord Douglas, e il vecchio Peter, il più forte fra gli uomini che restavano. Io suggerii a Hudson che avremmo fatto bene a fissare una corda alla roccia nel momento in cui fossimo arrivati sui passaggi difficili, e utilizzarla per reggerci ad essa durante la discesa, per maggior protezione. Egli approvò l'idea, ma non fu stabilito che si sarebbe fatto senz'altro. I componenti della comitiva stavano sistemandosi nel suddetto ordine, mentre io ero intento a tracciare uno schizzo della vetta; avevano finito, e stavano aspettandomi per legarci in cordata, quando qualcuno ricordò che non avevamo lasciato una bottiglia con i nostri nomi. Mi chiesero allora di scriverli, e iniziarono a muoversi mentre lo facevo.

Poco dopo mi legai al giovane Peter Taugwalder, corsi dietro agli altri, e li raggiunsi proprio mentre stava iniziando la discesa del tratto più impegnativo. Occorreva prestare estrema attenzione. Si muoveva un solo uomo per volta; quando questo era bene assicurato, toccava a quello che lo seguiva di avanzare, e così via. Ma non era stata piazzata la seconda corda, e nessuno ne parlò più. Non avevo avanzato quel suggerimento per mio tornaconto, e non sono sicuro che mi fosse tornato in mente un'altra volta. Per un poco, io e il giovane Taugwalder seguimmo gli altri, pur rimanendo sciolti da loro, e avremmo continuato così se lord Douglas non mi avesse chiesto, verso le 15, di legarmi con il vecchio Peter, poiché temeva che, se qualcuno fosse scivolato, egli non sarebbe stato in grado di reggersi.


Pochi minuti più tardi, un ragazzo dall'occhio acuto correva all'albergo Monte Rosa, da Seiler, dicendo di aver visto una valanga cadere dalla vetta del Cervino sul ghiacciaio omonimo. Il ragazzo fu biasimato perché raccontava stupidaggini; aveva ragione, comunque, ed ecco ciò che aveva visto.


Michel Croz aveva posato da un canto la sua piccozza e, per offrire ad Hadow la massima sicurezza, gli aveva afferrato le gambe mettendogli i piedi, uno dopo l'altro, nella posizione migliore. Per quanto ne so, nessuno si stava muovendo. Non posso parlare con certezza, perché i due uomini in testa al gruppo erano in parte nascosti alla mia vista da un grosso masso. Da ciò che potei capire guardando i movimenti delle loro spalle, Croz, dopo aver fatto come ho detto, stava girandosi per scendere anch'egli un passo o due; in quel momento Hadow scivolò, gli finì addosso e lo fece cadere. Udii Croz lanciare un urlo, poi vidi lui e Hadow volare giù; un istante dopo Hudson fu trascinato via dal suo appoggio, e subito lord Douglas li seguì. Fu questione di un attimo. Appena intesa l'esclamazione atterrita di Croz, il vecchio Peter ed io ci ancorammo tanto saldamente quanto la roccia ce lo permise. Fra di noi la corda era tesa, e reggemmo lo strappo come un sol uomo. Resistemmo; ma tra Taugwalder e lord Francis Douglas la corda si ruppe. Per qualche secondo riuscimmo a vedere i nostri sfortunati compagni che scivolavano sulla schiena, allargando le braccia, nel tentativo di salvarsi. Ancora illesi, scomparvero alla nostra vista, uno dopo l'altro, e caddero, di precipizio in precipizio, fin sul ghiacciaio del Cervino: un volo di oltre 1200 metri. Da quando si ruppe la corda non si poté fare più nulla per aiutarli.

Così persero la vita i nostri compagni! Per lo spazio di mezz'ora restammo immobili, senza muovere un solo passo. I due uomini, paralizzati dal terrore, piangevano come neonati, e tremavano in una maniera tale da farci rischiare la stessa sorte toccata agli altri.

Il vecchio Peter infranse il silenzio esclamando: «Chamounix! Oh, che cosa dirà Chamounix?», e con questo intendeva dire: chi avrebbe mai creduto che Croz potesse cadere? Il ragazzo non faceva altro che gridare e singhiozzare: «Siamo perduti! Siamo perduti!». Preso fra i due, non potevo muovermi, né in su, né in giù. Supplicai il giovane Peter di scendere, ma egli non ne aveva l'animo. Ma se lui non lo avesse fatto, noi non avremmo potuto toglierci di lì. La paura del padre era naturale, poiché tremava per il figlio; mentre la paura del giovane era dettata dalla codardia: egli pensava soltanto a sé. Alla fine il vecchio Peter racimolò tutto il suo coraggio e si spostò fino a una roccia intorno alla quale poté fissare la corda; allora il giovane scese e ci trovammo di nuovo insieme. Chiesi di vedere subito la corda che aveva ceduto e mi accorsi, con sorpresa o, per meglio dire, con orrore, che si trattava della meno resistente fra le tre. Non era stata portata, e non avrebbe dovuto essere impiegata, per quello scopo. Era vecchia e, a paragone delle altre, debole. Sarebbe dovuta rimanere di riserva, nel caso che ci fosse toccato abbandonare molta corda in parete. Mi avvidi a un tratto tutto ciò comportava una domanda molto seria, e volli esaminare lo spezzone rimasto. La corda si era rotta a mezz'aria, e non pareva aver subito danni precedenti.

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Con l'ascensione del Cervino finiva la mia carriera di scalatore nelle Alpi. Questa disastrosa conclusione, nonostante abbia steso per sempre una nube su memorie altrimenti felici, lasciando un seguito di rimpianti eterni, non ha modificato il mio pensiero sul più puro, salutare e virile fra i passatempi; e sovente, nel combattere con le difficoltà di tutti i giorni, a volte in mansioni che paiono prive di senso, ho attinto coraggio dai ricordi di vittorie difficili sulle irriducibili cime alpine.

Noi che andiamo in montagna abbiamo anteposto a ogni altra cosa la superiorità dei fermi propositi, o della perseveranza, rispetto alla forza bruta. Sappiamo che ogni vetta, ogni passo, devono essere guadagnati con sforzi pazienti e laboriosi, e che il desiderare non può prendere il posto del faticare; conosciamo i benefici dell'aiuto reciproco; sappiamo che si devono incontrare molte difficoltà, e molti intralci devono essere aggirati o superati, ma sappiamo anche che la volontà trova sempre una via; e torneremo alle nostre occupazioni quotidiane più preparati alla battaglia della vita, e a scavalcare gli ostacoli che ostruiscono i nostri percorsi, rafforzati e allietati dalla memoria delle pene passate, dai ricordi delle vittorie ottenute in tutt'altri campi.

Non voglio fare di me il difensore dell'attività alpinistica, né intendo qui usurpare un ruolo di moralista; ma il mio compito sarebbe assolto malamente, se si concludesse senza un riferimento alle lezioni più importanti che un alpinista può ricevere. Ci gloriamo della rigenerazione del corpo, la quale è il prodotto del nostro esercizio fisico; esultiamo davanti alla grandiosità delle scene che si presentano ai nostri occhi, davanti agli splendori del sorgere e del calare del sole, alle bellezze di colline e valli, laghi, boschi e cascate; ma diamo maggior valore allo sviluppo della nostra mascolinità, al consolidamento, attraverso la lotta contro le difficoltà, di quelle nobili qualità della natura umana come coraggio, pazienza, resistenza e forza d'animo.

C'è chi tiene in minor considerazione queste virtù, e attribuisce motivazioni vili e spregevoli a coloro che indulgono nella pratica del nostro innocente passatempo.

Che tu sia casto come il ghiaccio, o puro come la neve, non sfuggirai alla calunnia.

Altri, ancora, che non sono detrattori, ritengono che l'alpinismo sia un'attività sportiva del tutto incomprensibile. Non c'è motivo di stupirsene, dato che non siamo tutti fatti alla stessa maniera. Si tratta in effetti di un'occupazione essenzialmente adatta a corpi giovani e vigorosi, e non ai vecchi e ai deboli. Questi ultimi non possono trovare piacevole la fatica; e sono tali persone a dire: «Quest'uomo fa del piacere una fatica». Lasciamo che il motto in apertura di questo libro sia la risposta, se una risposta ci deve essere. Chi va in montagna deve lavorare duramente; ma dalla fatica viene la forza (non solo quella dei muscoli), e il risveglio di tutte le facoltà; e dalla forza deriva il piacere. Ma ancora viene sovente chiesto, in toni che paiono implicare una risposta che sarà perlomeno dubbiosa: «Ma il gioco vale la candela?». Be', non possiamo misurare il nostro divertimento come voi misurate il vostro vino, o pesate il vostro piombo; ma ciononostante esso è reale. Se io potessi cancellare ogni memoria, o eliminare ogni ricordo, direi comunque che le mie salite sulle Alpi sono state appaganti, poiché mi hanno dato due delle cose migliori che un uomo può possedere: la salute e l'amicizia.

Le gioie vissute non possono essere cancellate. Anche adesso, mentre scrivo, esse mi si affollano vicino. Prima giunge una serie di immagini, senza fine, magnifiche nelle sagome, negli effetti, nei colori. Vedo le grandi vette, con cime avvolte dalle nuvole, che paiono volersi ergere per sempre; sento la musica delle greggi lontane, lo jodel dei valligiani e le solenni campane delle chiese; percepisco il fragrante alito dei pini; e quando queste visioni se ne vanno, un'altra successione di ricordi prende il loro posto: il pensiero di coloro che sono stati giusti, coraggiosi, e fedeli; dei cuori gentili e delle azioni audaci; delle cortesie che ricevute da mani ignote, che di per sé erano poca cosa, ma esprimevano quel benvolere verso il prossimo che è l'essenza della carità.

Ma ancora, l'ultimo triste ricordo aleggia intorno a me, e a volte vaga come nebbia che fluttua, tagliando la luce del sole, e gelando i ricordi di momenti più felici. Ci sono stati momenti di felicità troppo intensi per poterli descrivere a parole, e ci sono stati affanni su cui non ho osato insistere; ed è con queste immagini davanti agli occhi che dico: salite le montagne, se volete, ma ricordate che il coraggio e la forza non sono nulla senza la prudenza, e che la trascuratezza di un attimo può distruggere la felicità di una vita. Non abbiate fretta. Prestate attenzione a ogni vostro passo. E, fin dall'inizio, tenete a mente quale potrebbe essere la conclusione.

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