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| << | < | > | >> |Pagina 3L'estate scorsa, mentre eravamo in vacanza, abbiamo incontrato sulla spiaggia una mia amica, Berthe. Dieci anni prima ne avevo raccolto la testimonianza sulla deportazione nel lager di Auschwitz-Birkenau, e avevamo subito simpatizzato. Non passava quasi settimana senza che ci facessimo almeno una telefonata per discutere dei diversi avvenimenti d'attualità che riguardavano il genocidio degli ebrei, il processo di Maurice Papon, il film di Roberto Benigni, La vita è bella... Mathilde, mia figlia, che allora aveva tredici anni, conosceva Berthe e ovviamente sapeva che era stata ad Auschwitz. Spesso, quando non ero in casa, parlava con lei al telefono. Eppure, quell'estate rimase scioccata vedendo un numero sull'avambraccio sinistro di Berthe, un tatuaggio fatto con dell'inchiostro azzurrognolo. D'un tratto tutto ciò che aveva visto a casa, alla televisione, nei film o a scuola si incarnava, diventava in qualche modo reale.Qualche anno prima quando frequentava le elementari, Mathilde aveva dovuto disegnare il suo albero genealogico. Per i nonni era stato semplice, li aveva conosciuti; per i suoi bisnonni, invece, era difficile indicare con esattezza la data e il luogo del decesso. Ad Auschwitz erano morti sia i parenti di suo padre, Rywka Raczymow, che i miei, Roza e Wolf Wieviorka. La sua bisnonna materna, Ewa Perelman, era stata uccisa dai tedeschi nei pressi di Chálons-sur-Marne, dopo la grande retata del Vél'd'Hiv del 16 luglio 1942, mentre cercava di attraversare la linea di demarcazione che separava allora la zona occupata da quella libera. Erano stati assassinati anche alcuni zii che tuttavia non figuravano nell'albero genealogico. Sia io che suo padre avevamo ereditato il nome di un familiare morto ad Auschwitz. Quanto ci ha condizionato quest'eredità? Lui come scrittore, io come storica, abbiamo subito indirettamente questa vicenda e, nel tentativo di dominarla, le abbiamo consacrato una parte del nostro lavoro. Era impossibile che Mathilde, a tredici anni, non lo sapesse: ne discutevamo troppo spesso fra noi e con i nostri amici. A casa sono sempre circolati molti libri e molte riviste su quei fatti, e mi aveva sentito parlare di quell'argomento anche alla radio o alla televisione. Eppure, in realtà, non mi aveva mai posto domande, non avevo mai dovuto «spiegarle» nulla. Una Cosa mi ha colpito soprattutto mentre cercavo di rispondere a Mathilde, di spiegarle che cos'era Auschwitz: il fatto che le sue domande fossero le stesse che continuano ad assillarmi. Le stesse che da piú di mezzo secolo alimentano la riflessione degli storici e dei filosofi. Domande cui è difficile rispondere. Erano solo espresse in modo piú crudo, piú diretto. In qualità di storica, ovviamente, è piuttosto facile per me descrivere Auschwitz, raccontare come si è svolto il genocidio degli ebrei. A un certo punto ci si scontra, però, con un nocciolo assolutamente incomprensibile e quindi inspiegabile: perché i nazisti decisero di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra? Perché spesero tanta energia per andare a scovare vecchi e bambini ai quattro angoli dell'Europa che occupavano - da Amsterdam a Bordeaux, da Varsavia a Salonicco - soltanto per sterminarli? | << | < | > | >> |Pagina 38Non riesco a capire perché si siano lasciati prendere. Perché non hanno opposto resistenza?C'è chi ha detto che gli ebrei si sono lasciati «condurre al macello come pecore». Le vittime del genocidio non meritano tanto disprezzo. Bisogna cercare di collocare i fatti nel contesto di quell'epoca, anche se la cosa è piú difficile. In primo luogo gli ebrei non sapevano che i nazisti volessero la morte di tutto il loro popolo e che i treni li trasportassero verso le camere a gas. Quando furono censiti dai nazisti, privati dei loro beni, talvolta con la complicità di un governo collaborazionista come in Francia, o rinchiusi nei ghetti, come in Polonia, non sapevano quale ingranaggio si fosse messo in moto né soprattutto quale fosse l'esito finale. E anche se avessero avuto qualche dubbio, se fossero stati raggiunti da qualche voce, le notizie sarebbero parse troppo assurde e mostruose per risultare credibili. Del resto, come avrebbero potuto rendersi conto del pericolo quando gli stessi tedeschi non avevano dato un contenuto preciso a quel che chiamavano la «soluzione finale»? Come ti ho già detto, per un certo periodo i nazisti avevano pensato di rendere il Reich judenrein, ripulito dagli ebrei, costringendoli a emigrare. Quando decisero che la «soluzione finale» doveva corrispondere allo sterminio puro e semplice?
Visto che non esiste un ordine scritto di Hitler
gli storici hanno opinioni discordanti. Per alcuni accadde
nel giugno del 1941, con l'invasione dell'Unione Sovietica;
per altri le decisioni furono in qualche
modo legate a singole aree geografiche: prima fu
prevista l'eliminazione degli ebrei sovietici, poi di
quelli polacchi e alla fine, dopo la conferenza di
Wannsee, di tutti gli ebrei che fossero caduti nelle loro
mani. Quel che è certo è che quando gli
ebrei francesi furono censiti o quelli di Varsavia
rinchiusi in un ghetto murato, il loro sterminio non
era ancora stato deciso. Conoscendo la fine di questa
storia, si è portati a interpretare ogni elemento in
funzione della sua conclusione. Ma chi viveva allora
ovviamente ne era all'oscuro! Giorno dopo giorno, senza
informazioni, senza giornali e senza radio, in balia delle
voci piú contraddittorie, gli ebrei dovevano immaginarsi
come sarebbe stato l'indomani. Se per esempio avessero
saputo, come sappiamo noi oggi, che gli schedari del
censimento sarebbero serviti ad arrestarli, credi che
si sarebbero fatti censire? Lascio a te la risposta.
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