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| << | < | > | >> |IndiceIl Caos 7 La festa dei nani 39 Vulcano 69 La bella Concetta 83 Trenti re 93 Sommersione 111 La notte di Aix 125 I donghi 139 Cassandra 153 La villa 163 Parsifal 171 Il tempio della verità 179 Scriba 187 Dialoghi col portiere 195 Ricordi di gioventù 209 |
| << | < | > | >> |Pagina 7"La tendenza naturale delle cose è il disordine." ERWIN SCHROEDINGER Fin da bambino mi sono interessato alla filosofia. Poiché sono nato con qualche difetto fisico (per esempio nella mano sinistra ho tre dita e nella destra soltanto due, il che fra l'altro non mi ha permesso di imparare a suonare il pianoforte, come avrei voluto), queste mie menomazioni, sebbene da una parte abbiano contribuito a rendere la mia infanzia e la mia prima giovinezza un po' meno movimentate del solito, ciò che mi consentiva di dedicare piú tempo allo studio, dall'altra parte invece costituivano un serio ostacolo al mio perfezionamento spirituale, giacché mi lasciavano per cosí dire in baíla del mondo esteriore. Ciononostante, le mie investigazioni filosofiche si distinguevano in quell'epoca per un'assiduità e serietà non comuni. La mia vera passione è sempre stata la metafisica. Ultimo discendente di una famiglia che in altri tempi fu ritenuta la piú illustre del regno, l'arido e angusto sentiero di questa scienza era infatti la strada scelta dalla mia natura aristocratica per riaffermare con nuove conquiste spirituali la preminenza della nostra stirpe, in altri campi finora mai discussa. Dire che mi interessavo alla metafisica non basta però a definire il carattere delle mie preoccupazioni, poiché la metafisica abbraccia molti rami di studio, molti problemi, molte possibilità. In realtà, da una certa età in poi si può dire che mi sono occupato di un problema soltanto, al quale avevo deciso di dedicare la mia intera attività filosofica. In parole povere, si trattava del vecchio problema teleologico: qual è il vero senso e quale lo scopo dell'universo? Certo, direte, mi sarei potuto contentare provvisoriamente di una almeno fra le tante ipotesi che su questo problema, e su altri ad esso strettamente collegati, hanno proposto i numerosi filosofi che da secoli si sono occupati della questione; ma le teorie che conoscevo non mi soddisfacevano, e frugare fra i libri alla ricerca di nuove teorie non era per me compito facile, per una serie di motivi che non è il caso né il momento di spiegare. Basti dire, per non scendere in particolari, che sono fortemente strabico dalla nascita; questo difetto mi costringe a leggere di sbieco, con il libro cioè quasi al livello delle tempie, e in questa posizione (chiunque può rendersene conto facendo la prova) la presenza del naso diventa un ostacolo spesso insormontabile per la lettura. Le cose sarebbero andate in ben altro modo per me, forse la mia vita avrebbe preso una strada molto diversa, se il mio strabismo invece di essere convergente fosse stato divergente. D'altra parte, debbo dire che questo fastidioso difetto, lo strabismo, non è in me cosí marcato come si potrebbe pensare, poiché ne è affetto uno solo degli occhi, quello destro. Il sinistro lo persi da bambino, mentre giocavo allo storico gioco di Guglielmo Tell e la mela, con il principe mio padre, grande ammiratore del partigiano svizzero. Una perdita in realtà senza importanza, se si pensa che l'occhio in questione non si trovava - scusate l'espressione - dove Dio comanda, bensí molto piú in basso, e inoltre quasi attaccato al naso, cioè in una situazione che gli toglieva gran parte della sua naturale importanza. Nel buco che mi rimase feci sistemare un bell'occhio finto, di moderno materiale plastico (azzurro, poiché quello vero, che è nero, non mi è mai piaciuto molto), la cui pupilla cieca, continuamente fissa nel vuoto, mi permette di guardare in qualunque direzione (con l'altro occhio) senza che nessuno se ne accorga. Vantaggio di cui avrei potuto trarre il dovuto profitto nei miei anni giovanili, quando ancora bolliva nel mio sangue il calore dell'adolescenza; senonché il mio carattere discreto, e almeno in quell'epoca oltremodo circospetto, mi spingeva a tenermi il piú lontano possibile da tutto ciò che le mie zie principesse chiamavano "frivolezze del mondo materiale". Senza contare che a nove anni ho perduto quasi completamente l'udito, un altro particolare che purtroppo aumentava il mio isolamento. Sarebbe una vana concessione al piacere della memoria raccontare la storia particolareggiata dei miei studi metafisici. Basterà dire che dopo aver molto riflettuto, per anni e anni, sulle piú contraddittorie ipotesi (o, per essere piú esatto, su ciò che di esse mi era stato permesso di intravedere, direi lateralmente, nel corso delle mie faticose letture), mi vidi costretto non dico ad accettare bensí a esaminare fino a che punto erano valide certe teorie moderne, secondo le quali l'investigazione solitaria non è in grado di rivelarci il senso dell'universo, poiché soltanto attraverso la comunicazione con i nostri simili ci è dato di capire quel poco che si può capire del mondo che ci circonda. Orbene, non pretendo negare che, per una serie di circostanze, alcune già accennate e altre che per amore della brevità non vorrei riportare, il mio contatto con la gente era stato fino allora minimo. Anche perché sono soggetto a frequenti attacchi di epilessia, durante i quali gli occhi mi si rovesciano, la lingua mi esce fuori dalla bocca, tutto il corpo mi si copre di macchie giallastre, e a volte perfino mi rimangono le mani storte verso l'interno, per giorni e giorni. Una malattia insomma per niente eccezionale, che tuttavia non soltanto mi vietava di partecipare ai grandi balli mensilmente organizzati dalle mie cugine le duchesse, il che non aveva certo in sé molta importanza, ma mi impediva altresí di frequentare l'università e le altre accademie dove di solito i giovani stanno in contatto con altri giovani della loro età. Ma una volta presa la decisione di abbattere la barriera di isolamento che mi proteggeva, la cosa migliore che potevo fare (poiché non mi piace lasciare le cose a metà) era di gettarmi in mezzo alla folla e in tal modo accertare, nella maniera piú violenta ma anche la piú pratica possibile, se fosse vero che la comunicazione con il prossimo è la sola strada per arrivare alla verità. E per questo esperimento scelsi una notte di Carnevale. Non parlo certo del carnevale scolorito e senza vita di adesso, ma di uno di quei carnevali frenetici, peccaminosi e travolgenti di una volta, quando la tradizione non si era ancora ripiegata su se stessa, per cercare un ultimo rifugio nei miseri clubs sportivi di quartiere, o peggio ancora nei cinematografi popolari trasformati in piste da ballo. Sotto le valanghe di provinciali che per l'occasione si riversavano nella capitale, le strade del centro diventavano un vero formicaio, una caldaia in ebollizione, un tumultuoso vortice nel quale tutte le età e i ceti sociali si confondevano. Fragori di petardi, ghirlande di stelle filanti, stormi di maschere, ormai tutto è scomparso; perfino i fuochi artificiali che colorivano il cielo della notte sono scomparsi, e forse ciò che mi stupisce di piú è che siano scomparsi perché così ho voluto io. Spinto come ho detto da quella impazienza intellettuale che era già in quell'epoca la mia piú simpatica caratteristica, mi feci trasportare una sera sulla mia lettiga alla città vecchia, un labirinto di viuzze e vicoli raramente visitati dalla gente di qualità, che tuttavia in occasione delle feste di carnevale diventava il centro psicologico dell'animazione popolare. Arrivare in piazza della Cattedrale non era facile; i miei lacché dovevano farsi strada fra le maschere impazzite, inciampavano nei corpi degli ubriachi stesi senza ritegno e spesso senza conoscenza nei rigagnoli dei vicoletti medievali, e a malapena riuscivano a disfarsi dagli impudichi abbracci delle servente, come al solito travestite da farfalla o da odalisca. Il fragore doveva essere cosí assordante che io quasi lo sentivo: una specie di ronzio mi opprimeva le tempie, come quella sera che per soddisfare una vecchia curiosità mi ero seduto sotto la Cascata dell'Arcobaleno, in una specie di anfratto naturale formatosi fra la roccia e il salto d'acqua. Infine arrivammo nella piazza; ma una volta là, tale era la confusione che non appena i lacché ebbero depositato la mia seggiola entro una nicchia della facciata della Cattedrale, perché da lí mi godessi da solo il colorito spettacolo, mi domandai se dopotutto non avrei fatto meglio a restarmene a palazzo, tranquillamente seduto sul balcone, a guardare le rade maschere che per caso capitavano da quelle parti. Infatti la tumultuosa visione di tutta quella gentaglia, che alla luce d'innumerevoli torce e lanterne si dava alla sfrenatezza, sfogando liberamente gli istinti trattenuti durante tutto l'anno, non mi sembrava dopotutto cosí divertente come i miei amici mi avevano raccontato; ma forse il mio disappunto si doveva in gran parte al fatto di non udire assolutamente niente, né i loro canti né le loro musiche, che nella delicata cassa di risonanza del mio cranio si confondevano, come ho già detto, in un indistinto ronzio. La verità è che, dopo qualche minuto di faticosa osservazione, decisi di dare ai miei lacché l'ordine di tornare a casa. In quel momento mi accorsi con orrore che i miei servitori erano scomparsi: forse trascinati dall'incontenibile pressione della folla, forse per correre dietro a qualche ragazzino, giacché tutt'e due erano pederasti; fatto sta che mi avevano sconsideratamente lasciato solo, seduto sulla mia seggiolina stile impero, esposto in una nicchia della Cattedrale agli sguardi curiosi, e forse anche ai commenti insolenti, della plebe impazzita. Non è facile per me - credo di averlo già spiegato - guardare in due direzioni allo stesso tempo, e cosí come i miei lacché si erano allontanati dal mio ristretto campo visivo senza che io me ne accorgessi, allo stesso modo potevano tornare improvvisamente; forse erano a due passi da me, forse si erano rifugiati in uno dei portici della chiesa. Per il momento il meglio che potessi fare era di chiamarli, e li chiamai: "Felpino! Toscok! Felpino! Toscok!" pur vergognandomi un po' di dover gridare davanti a tutta quella gente due nomi cosí assurdi. Né Felpino né Toscok accorsero al mio richiamo. Nel frattempo mi si era formato intorno un gruppetto di curiosi, i quali dopo qualche istante di muta contemplazione cominciarono ad acclamarmi, o forse, chissà, a gridarmi improperi: non era facile, in realtà, dedurre dalle loro espressioni che diavolo gridassero. In pochi minuti il gruppo si era fatto foltissimo; i piú vicini alla chiesa, prendendosi l'un l'altro per mano, si misero improvvisamente a cantare, con disgustose manifestazioni di gioia, una canzone probabilmente allusiva. Non c'era dubbio che questa canzone a loro piacesse molto, poiché poco dopo tutto il gruppo si dondolava ritmicamente, uomini e donne, tutti spalancando allo stesso tempo la bocca come altrettanti pesci senza ossigeno. La scena mi ricordava quello strano racconto, che una volta mi lesse il professore di inglese, dell'uomo che scende in fondo al mare in un batiscafo e lí rimane prigioniero, sospeso sulle rovine di un'antica città sommersa, popolata da immondi esseri verdognoli i quali lo guardano ondeggiando ritmicamente come le alghe dei bassifondi marini. Per quanto cercassi di guardare altrove e di fare l'indifferente, la gente in piazza mi si affollava attorno, in folto semicerchio. Forse lo facevano spinti soltanto dalla curiosità, forse non avevano mai visto cosí da vicino una persona del mio rango; io, in ogni modo, cominciavo a innervosirmi, quando un giovane travestito da spazzacamino si arrampicò sul fregio esterno della nicchia medievale, e con una specie di piumino lordo di fuliggine mi strofinò la faccia; gli spettatori, naturalmente, si misero a ridere come matti. Poiché da solo non potevo scendere dalla nicchia, mi rassegnai a pulirmi il naso col mio fazzoletto di seta, gesto che venne accolto dal pubblico con grandi risate; sicché coloro per via del gran ridere mi davano l'impressione d'essere nati con la bocca aperta, una bocca d'altronde piena di denti neri e cariati, cosí diversi dai miei che almeno sono finti. In quell'occasione, e per la prima volta in vita mia, ringraziai il destino di non poter vedere quasi niente. Non era ancora sceso dalla nicchia lo spazzacamino, che già vi si arrampicava un altro individuo, vestito da calciatore, per piantarmi in testa un berretto a sonagli, e sulle spalle un mantello di cotone ordinario, a rombi rossi e verdi, forse pensando di farmi un grande piacere. Ormai rassegnato ad accettare il grossolano omaggio di quegli irriverenti cafoni, mi accingevo a pregare coloro i quali mi stavano piú vicino che cercassero di trovare i miei lacché Felpino e Toscok, quando un giovane piú audace degli altri si arrampicò fino alla nicchia e mi versò sulla testa prima un intero barattolo di miele, e subito dopo il contenuto di un cuscino di piume. Chissà dove o come se lo era procurato; anzi ricordo che mi domandai che cosa significasse questa novità di andare in giro con un cuscino di piume per le strade. Ma a carnevale tutte le follie sono lecite. Non ricordo bene invece quello che successe dopo. So di essere stato picchiato, forse per sbaglio; so che mi fecero scendere dalla nicchia e che poi, non appena si accorsero che non potevo camminare, due ragazzi s'impossessarono del buffo mantello che mi avevano legato al collo, e tirando uno da una parte e uno dall'altra mi trascinarono per tutta la piazza, fra l'ilarità generale; so che infine mi buttarono nella vasca della fontana dell'Orologio, e lí è probabile che abbia perso i sensi, poiché quando rinvenni, in un luogo completamente sconosciuto, mi trovai sospeso a mezzo metro da terra, in una posizione tanto ridicola quanto nuova per me, anche se per un popolano la cosa sarebbe stata fino a un certo punto ammissibile e magari divertente. Ero circondato da un gruppo di persone alquanto diverse da quelle che poco prima mi avevano buttato nella vasca: gli uomini erano piú torvi, lo sguardo delle donne era piú cattivo e freddo. Il luogo era una specie di giardino polveroso, dalle aiuole calpestate sotto gli alberi sudici; un parco chiuso da un muretto, con quell'aria di giardino di nessuno che hanno a volte le trattorie all'aperto, coi loro sentieri fangosi sparsi di carte unte e i loro tavoli macchiati di vino. Verso il centro di questo parco desolato, qualcuno aveva sistemato una specie di spiedo, di quelli che si fanno girare a mano con una manovella, per arrostire i polli e i porcellini; e li ero io, legato per bene con un filo metallico allo schidione, e per di piú completamente nudo, come un maiale qualunque. Per fortuna non mi avevano infilzato nello spiedo, come di solito si fa coi polli; e inoltre le braci di sotto mandavano un gradevole calore, che faceva piú tollerabile la mia nudità, invero poco adeguata alla stagione. Un uomo con una grossa barba nera, vestito come uno zingaro, si divertiva in quel momento a far girare la manovella dello spiedo, con un lento movimento circolare che mi permetteva di osservare piú comodamente tutto ciò che accadeva intorno. Dovevano essere tutti zingari; le donne ostentavano grosse trecce nere e gli uomini baffi lunghi fino alle basette, come una specie di fascia nera attraverso la faccia facinorosa. "Mi vorranno mangiare?" mi domandavo io, preso piú da curiosità che da timore, avendomi l'esperienza insegnato che il destino predilige i colpi bassi e inaspettati, sicché basta stare un po' all'erta perché esso si disinteressi completamente di noi; cioè basta prevedere una disgrazia perché la disgrazia non avvenga. In ogni modo, non mi avrebbero mangiato crudo, e per il momento il fuoco sembrava più propenso a spegnersi che a cuocermi. Il fatto di non capire niente di ciò che dicevano mi risparmiava chissà quali stupidaggini, ma d'altro canto era piuttosto un inconveniente: anzitutto, perché mi riusciva impossibile scoprire, per quanto scrutassi le fosche facce degli zingari, se intendevano rendermi una specie di esotico omaggio, o semplicemente mangiarmi arrosto; rito d'altronde abbastanza diffuso fra certe tribú selvagge, che una volta all'anno si mangiano il loro re per rinvigorirsi e purificarsi magicamente, incorporando nei loro vili organismi le preziose viscere, testicoli e altre frattaglie del sovrano. Certo che io non ero il re di nessuno, ancora; ma il mio chiarissimo lignaggio ben poteva aver loro suggerito questa peregrina idea: cosí come la plebe mi aveva eletto Re del Carnevale, cosí costoro avendomi riscattato dalle acque della fontana (in circostanze per me ancora oscure, giacché al momento di questo riscatto mi trovavo, per casí dire, fra le nuvole), probabilmente mi avevano nominato Re degli Zingari. Comunque fosse, l'idea non mi piaceva affatto; perciò gridai loro di slegarmi e di restituirmi almeno i pantaloni. Inspiegabilmente, invece di obbedirmi, apparve un giovinetto coperto appena da uno slip di pelle di leopardo, il quale come se niente fosse si mise ad attizzare il fuoco gettando carbone e foglie secche sulla brace. Le fiamme crepitarono, e stavano per raggiungermi, con le conseguenze che facilmente si possono immaginare, quando una vera torma di cinghiali o maiali selvaggi, i quali spinti da chissà quale misterioso istinto avevano scelto proprio quel momento per scendere dalla montagna, attraversarono il giardino della trattoria, disperdendo gli zingari e travolgendo tutto quanto incontravano al loro passaggio, non escluso lo spiedo. Per fortuna andai a cadere dentro la cesta del carbone, che il ragazzo dallo slip aveva lasciato accanto al fuoco, fortuita circostanza che mi salvò dall'essere calpestato dalle bestie. Tuttavia la cosa non fini lí. Il carbone era sporco e pieno di punte taglienti; peggio ancora, vi erano frammischiati pezzi di legno che ad ogni mio movimento mi pungevano le carni nude. Cosí legato all'asta rotta dello spiedo, cercare di uscire dalla cesta con l'unico aiuto delle mie braccia, muscolose ma corte, sarebbe stato tanto inutile quanto faticoso; d'altronde l'idea di dormire nudo sotto gli alberi non mi riusciva molto seducente, anche se con filosofica pazienza mi fossi deciso a togliere dalla cesta, con la mano che nella caduta mi si era per fortuna liberata dal filo di ferro, quei pezzi di carbone e di legno che mi davano tanto fastidio. Ero assorto in questo dilemma quando cominciò a piovere, prima lentamente e poi con tale forza che a un certo punto prese perfino a grandinare, dei chicchi grossi come uova di colombo, che minacciavano di riempire la cesta coprendomi completamente; tuttavia la grandine non durò molto, e grazie al calore del corpo i chicchi di ghiaccio si sciolsero in pochi minuti. Purtroppo avevo cominciato a sternutare, e per quanto vi provassi, non riuscivo a distrarre la mente pensando ai miei problemi filosofici prediletti. Ogni tanto mi affacciavo all'orlo della cesta, ma non si vedeva anima viva: le luci della trattoria erano tutte spente; della presenza degli zingari e della violenza dei cinghiali non restavano tracce all'infuori della confusione di tavoli rovesciati e cartacce bagnate.
Cosí passai la notte, maledicendo la stupida idea
che avevo avuto di uscire di casa per vedere se il
contatto coi miei simili mi svelava il senso dell'universo. Era già giorno
quando vennero a prendermi i palafrenieri delle principesse, angosciate dalla
mia prolungata assenza e ancor piú dal fatto che un maggiordomo aveva trovato a
mezzanotte i miei lacché Felpino e Toscok completamente ubriachi in un
orinatoio nei pressi della Cattedrale. Una settimana
mi durò il raffreddore, per non parlare dei graffi e
delle contusioni che riportai in quella notte da maiali; e non una ma mille
volte, mentre giacevo con un febbrone sul mio lettino ornato di piume di struzzo
e di fagiano, giurai di non ritentare piú alcun contatto col popolo. E debbo
dire che per molti anni non ebbi mai occasione d'infrangere il mio giuramento.
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