Copertina
Autore J. Rodolfo Wilcock
Titolo Il reato di scrivere
EdizioneAdelphi, Milano, 2009, Biblioteca minima 39 , pag. 94, cop.fle., dim. 10x16,5x0,6 cm , Isbn 978-88-459-2427-9
CuratoreEdoardo Camurri
LettoreLuca Vita, 2010
Classe critica letteraria
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Sul reato di scrivere               11
Iniziazioni letterarie              14
La corruzione dei premi             18
Lingua e morale                     23
Sul reato di scrivere (II)          29
Vicende d'arte moderna              32
Il nume del telefono                36
Romanzieri e scimpanzè              42
Dante nella cerchia atomica         45
Illusione e critica                 51
Lo scrittore suddito                56
Gli arrivisti                       59
Aspettando la censura               64
Scrittori sullo schermo             70

Necessità della sprezzatura         77
di Edoardo Camurri


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

SUL REATO DI SCRIVERE



Non di rado la letteratura diventa strumento di potere; chi ne ha le redini in mano, da quel momento se le tiene strette. La cultura si chiude in casa e si fa rappresentare dalla sua serva ch'è la sottocultura.

Il mondo letterario ha allora un suo governo il quale, come tutti i governi, tende a soddisfare anzitutto le aspirazioni dei più bestiali, cioè i più forti, tra i suoi sudditi.

In quello che oggi scandalizza i giovani, non c'è nulla di nuovo; le stesse prepotenze avranno scandalizzato trent'anni fa i loro genitori.

Di quando in quando, nel regno letterario, scoppia una rivoluzione; ma si sa che le rivoluzioni visibili, passata la prima euforia e sensazione di movimento, ritornano sempre al precedente sistema di governo, benché sotto un altro nome.

Alcune cause, permanenti, di rivoluzione (diconsi permanenti perché gli stessi che vi si ribellano qualche anno dopo vi si piegano) sono queste:

Le sedi critiche più influenti rimangono riservate a persone talvolta abili ma prive di intelligenza o di immaginazione, o di tutt'e due le qualità.

I premi letterari non vengono concessi al merito bensì sono risultato di patteggiamenti, non necessariamente torbidi, su considerazioni che spaziano da ciò che in altre amministrazioni si usa chiamare «la scala mobile» al certificato di vecchiaia, o a quello di povertà o inversamente a quello molto più comune di reddito cospicuo, o all'appartenenza a determinate correnti politiche, eccetera.

I consulenti delle case editrici, e le stesse case editrici, scelgono i loro libri a vanvera – le case editrici non vengono tuttavia spazzate via dal mercato, come sarebbe logico aspettarsi in tali condizioni, perché sussistono grazie a capitali di ben altra origine – e sono inoltre in quasi diretto collegamento con i recensori ufficiali – non di rado essendo questi gli stessi consulenti. Una casa editrice seria, come quella di Ubaldini, che possiede scarsi collegamenti del genere, viene scarsamente recensita e se possibile ignorata.

I romanzieri, saggisti, eccetera, scrivono sempre peggio: cedendo al gusto della esibizione, invece di aspettare che venga il tempo a cancellarli, si cancellano da sé, lavorando regolarmente per il cinematografo, per la televisione o per altri mezzi di massa che richiedono come prima condizione la autocensura dell'immaginazione e come seconda la falsità canonica.

L'omertà vien detta buon gusto quindi è considerato di cattivo gusto rivelare le vicende losche del sottobosco letterario (bosco vero e proprio non c'è, d'altronde); a ciò contribuiscono le leggi vigenti, il reato di diffamazione, la facoltà di prova...

Alcuni editori, i più ricchi, comprano a volte i diritti di un'opera per assicurarsi che essa non venga pubblicata.

Non bisogna tuttavia pensare che una simile situazione sia eccessivamente malinconica; la commedia dell'arte è per definizione allegra. Né c'è motivo di doglianza: l'ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

LINGUA E MORALE



Essere pensante è colui che si serve del linguaggio. Negli esseri che si servono del linguaggio, oggi, scadute le religioni che in qualche modo avevano retto finora l'insieme dei princìpi chiamati morali, rimane tuttavia un lembo, un cencio, una possibilità di principio morale, che è l'uso corretto del linguaggio.

Certo in nessun modo giustificabile teleologicamente. Vagamente giustificabile, tuttavia, dal punto di vista di una specie di legge della conservazione dell'energia mentale, senza la quale conservazione si avrebbe l'esplosione mentale. Così come nessuno mangia per farsi venire la nausea, sembra naturale che nessuno adoperi il linguaggio per dire ciò che non ha senso, ossia per trarre conclusioni contrarie alla logica comune e naturale, che è la forma più corrente e condannabile della menzogna.

Uso corretto del linguaggio non vuol dire qui ubbidienza soltanto alle leggi complesse della grammatica, ma ubbidienza, inoltre, a quelle leggi piuttosto semplici che regolano la logica. «Il re di Avellino è calvo» è una proposizione grammaticalmente corretta ma, non essendoci alcun re di Avellino, essa è già da sola fonte di confusione.

Dire poi contemporaneamente che «alcune rane sono verdi» e «nessun animale verde è una rana», questo sì che è uso scorretto - benché molto più comune di quel che si creda - del linguaggio. Non i segni tremendi dell'Inferno sul viso, bensì discorsi folli del genere servono oggi a distinguere i falsari, i lestofanti, molte donne, molti politici, la maggior parte dei letterati.

Molti politici, molti letterati e, in genere, molti cittadini, possono dunque dirsi immorali, non tanto perché si godano, come hanno sempre fatto, le rette dei bambini minorati, ma perché, pur facendolo e parlandone, dicono di non farlo; perché non hanno quasi idea di che cosa sia l'uso corretto del linguaggio.

Di tale difetto sono invece in gran parte liberi coloro i quali possiedono una certa dimestichezza con le scienze della natura fisica, e più particolarmente con le scienze matematiche (si vedano per esempio le rare prese di posizione dei professori della Scuola Normale di Pisa). Perché nel loro quotidiano lavoro - come per tutti quelli che sanno che cosa sia scienza, sapere - l'uso corretto del linguaggio è condizione necessaria.

Per la persona che ha dimestichezza con una delle scienze vere (non si parla certo di sociologia-propaganda o di psicanalisi), se A è più grande di B e B è più grande di C, appare pressoché un impegno morale riconoscere che A è più grande di C.

Consideriamo invece quel che accade nell'ambiente falsamente detto umanistico. Si suppone che A, B e C siano tre scrittori, i quali si presentano a un premio letterario. La giuria ragionerà così (o in qualche altro modo paragonabile): benché A sia più grande di B e B più grande di C (qui per grande intendiamo migliore scrittore) noi siamo purtroppo costretti a dichiarare che il più grande dei tre è B, perché l'anno scorso non ha ricevuto alcun premio letterario, o perché gli altri due scrivono su uno dei quattro giornali rimasti in Italia sgraditi alla sinistra, o perché il figlio di B ha fatto un film che è molto piaciuto ai sindacati, o come dir si voglia. La motivazione spiegherà comunque che il premio gli è stato dato perché B è più grande di A e di C. Questo è uso scorretto del linguaggio, e questo uso scorretto abbiamo deciso di chiamare immorale; come d'altronde si è poi sempre chiamato.

Personalmente, quasi tutte le persone che conosco appartengono a una delle due categorie suddette: o sono uomini studiosi della natura, o sono letterati; perciò ho una così acuta consapevolezza della loro incompatibilità etica. I primi non mentono quasi mai; mentirebbero forse, come tutti, se dovessero parlare di se stessi; ma finché parlano del mondo esterno, lo fanno secondo le regole del linguaggio e non promettono mai che appariranno o che si troveranno in due luoghi diversi alla stessa ora, come fanno sempre, ed è noto e accettato, le persone che lavorano nel vagante terreno cinematografico.

Gli studiosi di scienze empiriche mancano a volte alla verità, se vengono nominati periti in un processo, ma lo fanno con riluttanza e solo perché gli avvocati hanno spiegato loro con tanta insistenza che nelle aule della giustizia la comune verità nuda è considerata oscena. Per il resto, nemmeno un geometra, che non è molto dire quanto a volume o a peso specifico di scienza, si proverebbe a misurare un campo con un teodolito sghembo e un metro di soli novantacinque centimetri: i calcoli gli riuscirebbero così inagibili e contorti che egli finirebbe col procurarsi un teodolito esatto e un metro di cento centimetri.

Invece i letterati, forse perché usi a trattare la materia stessa di cui sono fatti i sogni, con quale inconseguenza e incongruenza possono trattare la materia di cui è fatta la realtà! Da loro ho sentito dire, negli anni, che la fallita insurrezione dell'Ungheria contro lo straniero era ovviamente diretta e capeggiata dai monarchici, e tanti anni dopo che la riuscita invasione, da parte dello stesso straniero, della Cecoslovacchia non era stata una invasione, ma un semplice mutamento al vertice e affare interno di un Paese amico.

Altri ho visto (e avrei dovuto conservarne i nomi, nel caso mi capitasse di dover scrivere loro una lettera) disposti ad affermare che «la lingua italiana non esiste»; ma questo lo dicevano in italiano, il che presupponeva che quelle parole erano le ultime mai dette in questa lingua, oppure le prime di una lingua nuova, allora nascente. Ma è una vera cerchia, perché quando un poveraccio venne ucciso, il quale era stato tra i primi assertori della suddetta non esistenza della lingua italiana (per quanto avesse scritto fino al giorno della morte chilometri di carta in italiano), di fronte al suo uccisore preso e confesso, i suoi amici sostennero pubblicamente trattarsi di un complotto internazionale. Eliot aveva detto che troppa realtà fa male; è il caso di osservare che a molti dei nostri scrittori, tra i quali pure persone di ingegno, anche un minimo di realtà fa male. Un altro assai frequentemente intervistato sostenne qualche anno fa in pubblico che il western alla italiana era l'arma migliore contro il neocapitalismo (quando è noto come arricchì taluni neocapitalisti). Sono altrettanti esempi di uso scorretto del linguaggio.

Ma il linguaggio è sempre più forte di qualunque tirannia. Oggi il tiranno può dire, e costringere tutti a dire, che il fucilato si è ucciso in un momento di sconforto: finché il linguaggio rimane sapranno tutti però che egli è stato fucilato. E questa è la nostra speranza, sia pure a lungo, lunghissimo termine: la naturale morale della lingua.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 36

IL NUME DEL TELEFONO



Sia permesso al titolare della rubrica parascientifica di questo giornale di dire sotto voce una delle varie possibili ultime parole sulla piccola disputa, parafrasi infima della querelle tra antichi e moderni, a cui ci ha fatto assistere il non sempre agile «Espresso», e che ha avuto per protagonista e deuteragonista, nel primo scontro, Giorgio Bassani e Alberto Arbasino. Escludiamo, per offendere gli altri con più libertà, le persone fisiche dei contendenti; escludiamo anche i loro argomenti, i loro «ipse dixit» e «sic provo » – B. accusa A. di essere un uomo di mondo che scrive, A. ribatte forse che B. è un impiegato di casa editrice che scrive, quasi a sottintendere tutt'e due che lo scrittore ideale debba essere un nulla che scrive –, e parliamo invece dei gruppi che essi rappresentano, e che in qualche modo, certo non chiaro, per interposita persona, attraverso di loro si scontrano. Ad ascoltare la definizione letta in stampa grossa sullo stesso giornale, il primo gruppo è quello degli autori di «romanzetti ben fatti che piacciono alle signore di provincia»; di conseguenza l'altro gruppo sarebbe quello degli autori di romanzetti mal fatti che piacciono alle signore di città. È ovvio dunque, poiché nessuna delle due definizioni riesce a inquadrarli completamente, che non si tratta di Arbasino e Bassani stessi, ma di altri. Vediamo questi altri, e perché dovrebbe occuparsene la nostra rubrica.

Ce ne dobbiamo occupare per la stessa ragione per cui il ministero della Pubblica Istruzione deve occuparsi della riforma della scuola: perché non è possibile «fare» niente quando si è dei perfetti ignoranti. Si può vivere, si può avere dei lunghi e soddisfacenti dialoghi con la divinità, si può perfino girare un film sul sesso nel Ticino, ma non si può creare. Per creare serve anzitutto una conoscenza abile e svelta del materiale con cui si lavora. Nel caso poi dello scrittore, questo materiale è il mondo esterno, e solo come ultima risorsa il mondo interiore. Ora la scuola e la società italiane sono organizzate in modo da distruggere accuratamente e minare fin dalla base una qualsiasi conoscenza di questo tipo che il giovane apprendista possa aver raccolto nei radi momenti in cui gli si aprono gli occhi di fronte alla vita. Lo costringono a imparare, è vero, molte cose, ma sono tutte nozioni fallaci e inconsistenti, al solo scopo di occupare in pieno i collegamenti tra i neuroni che costituiscono la sua memoria, la sua rete di associazioni e quindi la sua facoltà di ragionare; perché non una sola illuminazione, non una sola percezione o dato diretto del mondo sia esterno che interno gli siano d'ora in poi permessi.

Scuola e società, professori e critici, amici e politici, tutti collaborano a determinare, prima dei vent'anni se possibile, la completa cecità intellettuale di ogni nuovo membro che voglia affacciarsi ai misteri della comunità. Ma forse la più insidiosa delle nozioni che gli vengono inculcate è che il sapere vero - ossia la conoscenza poeticamente scientifica del mondo esterno - riesce nella vita un impiccio e una vergogna senza fine. Una volta che questa idea è ben radicata nella mente, l'uomo è finito come uomo e diventa un fantoccio teleguidato.

Rientra nello stato primitivo; ma di un primitivo al quale fossero state tolte anche quelle conoscenze, utilissime, legategli da una tradizione se non altro secolare. Il suo mondo è governato da spiriti e da demoni, della cui essenza egli non ha nessunissima idea. Può ormai affermare con serietà («Il Mondo», 31 marzo 1964): «Il principio della televisione... è identico a quello delle sedute spiritiche».

Uno che adopera il telefono senza sapere come funziona un telefono, deve per forza credere che dentro ci sia un piccolo nume, maligno o benevolo secondo i casi, genericamente chiamato elettricità, di cui i telefonisti sono i modesti sacerdoti. Da colui che si fa operare alla milza ma non sa assolutamente a che cosa serve la milza, possiamo soltanto aspettarci che, se l'operazione riesce bene, ogni volta che vede passare il chirurgo egli si getti per terra a baciargli i piedi (e infatti così accade). Il quale chirurgo non adorerà magari gli altri chirurghi, ma sarà a sua volta molto umile davanti al pilota di un aereo, e giunto il momento opportuno non disdegnerà, nemmeno lui, il baciamani, e se in volo il baciapiedi.

Perché tutti sono oggi specialisti: qualche cosa, la sanno pure fare. Spaventa però che non sappiano fare nessuna altra cosa. Il fotografo non osa fare - non oserebbe mai - un'iniezione; il meteorologo si lascia tagliare le unghie dalla mamma. Comunque, insistiamo, qualcosa sanno. L'unico forse che non sa niente del mondo reale, né ci capisce niente, è lo scrittore.

Se si interessa di filosofia, già avranno avuto cura all'Università e al «Paese Sera», le sue normali fonti di informazione, di sconsigliargli la lettura dei molti testi seri che ancora possono trovarsi nelle biblioteche, per non ostacolare il processo di calcificazione e ostruzione totale del cervello: stato questo che il paziente, se abbastanza docile, può tuttavia raggiungere in una sola seduta mediante l'impiego di opere appositamente create come L'essere e il nulla di Sartre; o meno drammaticamente, con qualche lezione di Merleau-Ponty.

Se si interessa di estetica (ma ciò presuppone già un primo notevole cedimento, quello di supporre che esista una disciplina chiamata estetica), le due istituzioni sopra citate gli somministreranno la così detta «purga italiana», che consiste nell'ingerire tutto Croce e immediatamente dopo tutto Lukács, dopodiché si è certi che il paziente non riuscirà più a percepire assolutamente nulla della realtà esterna, né a fare il più breve discorso comprensibile che non sia «Maria portami le pantofole» e simili.

Se si interessa di storia, una piccola operazione marxista lo trasformerà rapidamente in uno storicista; a partire da quel momento si è sicuri che solo si interesserà della storia futura, e così lo scopo è stato raggiunto: allontanarlo per sempre dalla vera storia, che è la cronaca più o meno disordinata dei fatti già accaduti.

E così via, ché non vogliamo fare qui l'elenco di tutte le strade possibili dell'intelletto, né degli efficaci sbarramenti che ne precludono l'accesso, nella società italiana. Ma, il lettore può obiettare, questa diabolica macchinazione sarà pur diretta e comandata da qualcuno, da esseri superiori che in qualche modo, almeno loro, conoscono bene quella realtà che si ostinano a tenere celata. La risposta è breve: quelle persone esistono, ma sono dei pazzi. Ormai si sa che i persuasori occulti della società sono pazzi. Dalla pazzia scaturisce la brama di potere, e il potere raggiunto rafforza ancor di più la pazzia originale.

E quei pazzi si trovano molto al di sopra di Arbasino e di Bassani, che sono due onesti romanzieri. Se invece di litigare per questioni di precedenza cercassero di individuare e di denunciare i responsabili della estrema abiezione e ignoranza in cui minaccia di sprofondare la nostra classe intellettuale (da tempo convinta che si può scrivere anche ignorando i nomi delle costellazioni, il linguaggio ballato delle api, che sono i cromosomi, i fiori xantici, il Laser, e così ad infinitum, il che per vie misteriose implica ignorare sia il mondo reale sia l'uomo che lo abita), allora sì le loro accuse non più mutue contribuirebbero a migliorare le opere future dei loro colleghi scrittori.

| << |  <  |