Copertina
Autore Tim Willocks
Titolo Il fine ultimo della creazione
EdizioneCairo, Milano, 2010 , pag. 464, cop.ril.sov., dim. 15,5x21,5x3,8 cm , Isbn 978-88-6052-271-9
OriginaleGreen River Rising [1994]
TraduttoreKatia Bagnoli
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa inglese , thriller
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Pagina 11

Per un milione d'anni-uomo i passi dei reclusi avevano lucidato il granito dei corridoi fino a dargli un'untuosa levigatezza impregnata di sudore e sporcizia. Mentre percorreva rumorosamente il corridoio centrale del braccio B, il direttore del carcere John Campbell Hobbes sentiva nelle ossa l'impulso di strascicare i piedi, come prima di lui avevano fatto generazioni di carcerati, e nella gola il sapore corrotto di sudore stantio e muco infetto, unito ai vapori commisti di nicotina e hashish. Sentiva il fetore imploso del dolore e delle scorie umani, concentrato, iperdistillato, imbottigliato per decenni sotto l'alta copertura di vetro, la grande volta sopra i tre livelli del braccio sovraffollato. Qui gli uomini venivano spediti per essere messi in ginocchio, e qui anche i più recalcitranti imparavano a farlo.

Da qualche parte sul pianeta c'erano luoghi peggiori — molto peggiori — in cui stare, ma nessuno di quei luoghi si trovava negli Stati Uniti. Questo era quanto di meglio fosse riuscita a fare la civiltà: una civiltà che Hobbes aveva visto disintegrarsi sotto i suoi occhi, e che adesso disprezzava con tutta l'intensità di cui era capace il suo prodigioso intelletto. I salvatacchi d'acciaio delle scarpe inglesi picchiavano con decisione contro il pavimento, mentre camminava, e quel suono lo riportò, in qualche modo, al suo dovere. Un dovere, una politica, che consisteva nel disciplinare e punire, e che Hobbes aveva sempre assolto, con esemplare diligenza. Eppure oggi era deciso a venir meno a quel dovere. Oggi avrebbe perseguito lo stesso fine con altri mezzi.

Oggi John Campbell Hobbes avrebbe frantumato la gemma della disciplina con il martello e lo scalpello della guerra.

Tre passi dietro a Hobbes avanzava una falange composta da sei guardie in assetto antisommossa: casco con visiera, armatura di kevlar, manganello, scudo di perspex, gas lacrimogeno. Dall'impianto di diffusione, otto altoparlanti montati sopra il cancello posteriore, usciva una marcia militaresca di tamburi e cornamuse che dava il ritmo a Hobbes e ai suoi uomini. I tamburi convogliavano nel corpo del direttore una potenza smisurata e coprivano il mormorio dei detenuti raggruppati lungo le passerelle sospese sul vuoto. Lo odiavano tutti, un odio cieco e sordo a ogni ragione, e sebbene in passato quell'odio lo avesse tormentato, oggi lo accoglieva con gusto.

Pietra. Tamburi. Castigo. Potere.

La disciplina era tutto.

Hobbes era tutto.

Ma con metodi diversi.

Ci fu una pausa nella corsa folle dei suoi pensieri. Si controllò, cercò nelle spire convulse della mente qualche traccia di errore, arroganza, incertezza. Niente. Le cose stavano così. Il riassetto di un universo poteva avvenire solo tramite lo scatenamento di forze cataclismiche e imprevedibili. Il grande fisico aveva torto: Dio gioca a dadi, eccome. E nel tetro, squallido universo del Penitenziario di Stato di Green River, John Campbell Hobbes era Dio in persona.

Il complesso carcerario era stato progettato dall'architetto inglese Cornelius Clunes in un'epoca in cui era ancora possibile unire filosofia, arte e ingegneria in un'unica mirabolante impresa. Incaricato nel 1876 dal governatore dello stato del Texas, Clunes aveva cercato di creare un carcere impregnato fino all'ultimo mattone dell'idea di un potere visibile e al tempo stesso occulto. Non progettò una buia segreta né uno scatolone tozzo e brutale. Il progetto di Green River fu un inno alle proprietà disciplinari della luce.

Da un corpo centrale cilindrico, coronato da una grande cupola di vetro, a intervalli di sessanta gradi si dipartivano quattro bracci di celle e due di spazi lavorativi, come raggi di una gigantesca ruota. Sotto la cupola, una torre centrale di controllo teneva a vista i quattro bracci delle celle. I soffitti dei bracci poggiavano su mura di lucido granito che sporgevano di sette metri rispetto al terzo e ultimo piano di celle. Le capriate, i tiranti e le travi della copertura di ferro battuto erano rivestiti di pesanti lastre di vetro dall'insolito colore verdastro. Dal vetro scendeva l'onnisciente luce divina: una sorveglianza continua che avrebbe dovuto ispirare nel detenuto sgomento la consapevolezza della sua totale visibilità, assicurando così il funzionamento automatico del meccanismo del potere. Dalla finestra della sua cella il colpevole poteva vedere le mura esterne e gli onnipresenti tiratori scelti; attraverso le sbarre della porta vedeva la torre centrale con le telecamere e le guardie. Di notte la cella era illuminata dalla fievole luce verdastra di una lampadina, mentre le mura esterne e i corridoi venivano invasi dal bagliore dei riflettori. Chi varcava la soglia di Green River si congedava dal buio fino al termine della sua permanenza. L'oscurità gli avrebbe concesso almeno un'illusione di intimità, di invisibilità, zone d'ombra nelle quali un uomo può tentare di ridare un senso alla propria esistenza. La luce era disciplina, il buio libertà. Essendo perennemente visibile, il carcerato non poteva mai escludere di non essere osservato, e diventava perciò il guardiano di se stesso, facendo in ogni minuto della giornata le veci del suo carceriere. Green River era un'architettura di potere costruita sulle fantasie paranoiche del colpevole.

Qui, nel braccio B, c'era la Valle dei Maratoneti, così perlomeno li chiamava il loro capo, Reuben Wilson. Nel braccio B i detenuti erano tutti neri. Nel carcere non esisteva una politica ufficiale di segregazione, ma poiché in un ambiente saturo di pericolo e paura è comprensibile che gli uomini si aggreghino in gruppi tribali, allo scopo di mantenere una difficile pace Hobbes e i suoi chiudevano un occhio. Il braccio C era un misto di neri e ispanici; il braccio A di bianchi e latini; il braccio D era riservato esclusivamente ai bianchi. Quattro schieramenti di forze ostili, pronte a esplodere. Poiché la guerra è la condizione naturale dell'umanità, la pace è sempre solo un preludio, un preparativo. Mentre Hobbes percorreva la Valle, tutto ciò che riusciva a cogliere nell'affollamento di facce nemiche e sudate era il nichilismo virulento prodotto da una lunga sofferenza mai mitigata dal pensiero.

All'altra estremità del braccio – a pochi metri dal cancello che dava sul cortile – c'era un microfono pronto sul palco.

Mentre si avvicinava, Hobbes sentiva il sudore scorrergli lungo il collo fino a bagnargli la camicia, e gocciolargli dalla fronte negli occhi. Soffocò l'impulso di asciugarsi la faccia. Cornelius Clunes aveva creato il suo capolavoro nell'atmosfera umida e cupa della Londra vittoriana. L'imprevisto risultato della sua stravagante impresa in ferro e vetro, una volta realizzata nel clima subtropicale del Texas orientale, era stato quello di trasformare il carcere in una gigantesca serra che catturava i raggi del sole, trasferendo la sua energia ai corpi sudati dei detenuti. Nel passato, le condizioni sanitarie erano così scandalose da decimare la popolazione dell'istituto, assalita con regolarità da epidemie di colera, febbre gialla e febbre tifoide. In questi casi il carcere veniva abbandonato ai suoi ospiti, e i viveri calati dalle mura di cinta, fino a quando il contagio non si era spento. Poiché i prigionieri non esitavano a fare quello che le autorità non osavano, cioè sopprimere senza pietà chiunque presentasse qualche sintomo d'infezione, a quell'epoca le epidemie produssero spasmi di violenza che superavano perfino le fantasie di Hobbes.

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Un'ora prima dell'appello delle sette il dottor Klein aprì gli occhi e ripensò ai gabbiani che volteggiavano sopra le mura di cinta del carcere. Per meglio dire, immaginò quei gabbiani, perché molto probabilmente non ce n'era nemmeno uno. Se si fosse trovato al posto di un gabbiano anche lui avrebbe fatto del suo meglio per tenersi alla larga da quel tetro buco. Altrove dovevano esserci delle pattumiere migliori. E se, per puro caso, là fuori ci fosse stato il più grande gregge di carogne della storia del Texas orientale, e i gabbiani vi si stessero avventando, enormi, affamati e vocianti, Ray Klein non li avrebbe sentiti sopra il mormorio costante prodotto da oltre cinquecentosessanta reclusi che si rigiravano borbottando e russando nelle loro strette brande.

Klein batté le palpebre e ricordò a se stesso che era uno stronzo.

Gli uccelli che volano liberi sono un'immagine stupida da coltivare per un detenuto perché non forniscono alcuna consolazione. Eppure Klein ci pensava lo stesso, in parte perché era un ostinato figlio di puttana e in parte perché non aveva ancora domato la sua naturale predisposizione a fare proprio quelle cose che procurano dispiacere. Sotto questo punto di vista aveva molto in comune con i suoi compagni di prigionia. Ma a differenza di loro, quel giorno Ray Klein aveva un'altra ragione per lasciare che gli uccelli volassero nel suo immaginario paesaggio all'alba: dopo tre duri anni c'era una possibilità – una possibilità – che i bastardi che comandavano in quel dannato posto lo lasciassero finalmente libero. Klein sterminò i gabbiani che aveva in testa e si mise a sedere sulla branda.

Quando si alzò, il pavimento gli sembrò freddo e duro sotto i piedi. Contrasse le dita sul lastricato, poi si piegò in avanti nella tetra aura verdastra della luce notturna e appoggiò entrambe le palme delle mani per riattivare la circolazione del sangue nei muscoli delle cosce e della schiena. Non aveva alcuna voglia di alzarsi nella penombra e stirare le membra. Detestava quell'idea. Avrebbe voluto trascorrere un'altra ora nell'oblio, gironzolando nell'interno sognante del suo cranio dove lo spazio era vasto quanto l'universo e considerevolmente meno doloroso. Invece passò altri dieci minuti intento a una grande varietà di dolorosi contorcimenti. Tanto tempo prima si era impresso nella mente le parole di William James:

... essere sistematicamente ascetici o eroici in piccole cose superflue, fare ogni giorno qualcosa soltanto perché non se ne avrebbe voglia, così che quando arrivi il giorno del bisogno non ci trovi impreparati ad affrontare la prova...

Così Ray Klein finì gli stiramenti e si accovacciò sui talloni con le palme delle mani appoggiate sulle cosce. Anche dopo tanti anni quell'esercizio lo faceva sentire soddisfatto di sé. Essere soddisfatto di se stesso non gli era naturale, perciò nelle rare occasioni in cui gli capitava si concedeva il lusso di assaporare quella sensazione. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente.

Nel braccio D regnava il silenzio ed era soltanto l'abitudine jamesiana a spingere Klein ad alzarsi tutti i giorni un'ora prima del necessario e fingere che quell'ora fosse tutta sua. Cominciava con i mókso, la concentrazione sul respiro per svuotare la mente, poi proseguiva con il karate fino a quando la campana risvegliava il braccio al paranoico e tetro livello di coscienza che a Green River passava per umana esistenza.

La cella di Klein al secondo piano misurava due metri e mezzo per due. Fece tutte le mosse del karate, i calci, le giravolte, le parate e i colpi, al rallentatore, i muscoli contratti nella tensione estrema. Erano esercizi che richiedevano molta energia, equilibrio e controllo, attributi dei quali non era superdotato di natura, e dopo tre anni era in grado di completare la sua esercitazione in un silenzio pressoché assoluto, senza annaspare in cerca d'aria, senza rompersi le dita dei piedi e senza cadere per terra. Quel giorno praticava il kata Gojushiho sho.

Il rito quotidiano lo aiutava a eliminare la rabbia che gli metteva in circolo la prigione. Lo immunizzava e lo manteneva in forma, calmo, distante da tutto il resto; conservava freddi e duri l'acciaio e il ghiaccio di cui aveva rivestito la sua anima.

Da quando era caduto in disgrazia quell'involucro si era dimostrato una benedizione indispensabile. A Green River un'anima costituiva un handicap pericoloso, una stanza delle torture frequentata soltanto da masochisti e pazzi. A suo tempo Klein era stato entrambe le cose, ma adesso si era fatto furbo. Adeguarsi alla disciplina e alla rinuncia era stato stranamente più facile per lui che per la maggior parte dei detenuti, per via della sua professione. Aveva trascorso gran parte della sua vita adulta cercando di indurirsi. Da studente, poi da interno e capo degli interni. Aveva indurito il suo cuore contro se stesso, contro le interminabili ore di guardia, contro l'intollerabile eppure sopportata mancanza di sonno, contro l'alternarsi di giornate di quattordici ore e giornate di ventiquattro, un anno dopo l'altro, contro la pressione e la paura di commettere un errore e uccidere o mutilare un paziente, contro l'orrore dei corpi storpiati e il nudo dolore dei sopravvissuti, contro l'infinito numero degli esami da superare, contro il fallimento, contro lo sgomento di dover comunicare a un malato che è giunto il suo momento o a una madre che suo figlio è già morto, contro il dolore che si era autoinflitto e contro il dolore che aveva inflitto ad altri. Aghi, bisturi, amputazioni, farmaci letali. Era passato attraverso tutto ciò e altro ancora, come tutti i medici del mondo, perché in fondo non era niente di speciale, e si era indurito. Così quando la vita gli crollò addosso e si ritrovò a Green River, non dovette far altro che aggiungere un po' di ghiaccio all'acciaio per essere pronto.

Nella vita Klein era stato un chirurgo ortopedico.

Adesso era uno stupratore che scontava la sua pena.

Oggi forse avrebbe riottenuto la libertà.

E in questo caso avrebbe dovuto indurirsi ancora, contro un futuro senza prospettive e implacabile come il muro di granito della sua cella.

Klein si girò nello spazio ristretto e partì con una combinazione colpo di gomito al volto-presa al collo-colpo di testa contro un nemico immaginario in piedi davanti alle sbarre d'acciaio della porta. La testa del nemico immaginario si reclinò e il corpo cedette mentre Klein lo strangolava. Tu sei il guerriero shotokan, si disse, non hai nessuna illusione, nessun bisogno, sei libero. Sorrise e si asciugò il sudore dagli occhi.

Klein aveva cominciato a studiare il karate ai tempi del liceo e niente lo aveva aiutato di più durante gli anni dell'università. All'inizio, quando aveva cominciato la sua pratica quotidiana in cella, si era sentito un idiota ad assumere questa o quella posizione. Nel tentativo di spiegare gli ansimi che provenivano dalla sua cella, i detenuti delle celle vicine l'avevano accusato di masturbarsi, di infilarsi qualche oggetto appuntito nell'ano, o un catetere non lubrificato nel pene, o ancora di altre misteriose perversioni solitarie. Spiegar loro che stava praticando il karate gli era sembrato ancora più vergognoso che lasciar credere che si masturbasse – e per di più molto più suscettibile di procurargli una coltellata in faccia – e aveva rinunciato. Ma poi si era detto che se voleva sopravvivere lì dentro doveva tenersi qualcosa per sé, e che lo facesse sembrare un idiota o no il karate era la cosa giusta. Così aveva ripreso la pratica mattutina, e prima che le derisioni diventassero intollerabili Myron Pinldey gli aveva rubato il dolce nella sala mensa, il cubetto di gelatina al gusto di limetta.

Il danno al cervello subito da Pinkley si rivelò poi irreversibile e, nella sua seconda vita, Pinldey si unì all'Esercito di Gesù. Le uniche lacrime versate sull'incidente furono quelle di gioia della madre per la redenzione spirituale del figlio. E i vicini di cella di Klein smisero di chiedersi che cosa succedesse nella sua cella quando il giorno albeggiava, perché avevano capito che non erano affari loro.

I rintocchi della campana e le grida dei secondini con le facce acide segnarono la fine dell'esercitazione di Klein. Madido di sudore si asciugò la faccia con una camicia sporca e si mise davanti alla porta della cella. C'erano sei appelli al giorno e il primo cominciava quando si accendevano le luci e il braccio si svegliava stancamente con una cacofonia di colpi di tosse e raschi catarrosi, di oscenità borbottate tra i denti e imprecazioni ad alta voce contro la puzza prodotta dalla fuoriuscita di gas intestinali dei compagni di cella. Poi arrivava il crescente frastuono di radio e registratori, e gli ordini dei secondini, ritualmente urlati e ritualmente ignorati, di abbassare quella stramaledetta musica. Infine l'appello vero e proprio, la tetra litania che echeggiava da un piano all'altro mentre ognuno, per sei volte al giorno, proclamava la propria identità di numero stabilito dallo stato.

Un secondino cubano di nome Sandoval apparve dietro le sbarre della cella di Klein.

«Otto-otto-quattro-uno-nove, Klein.»

Sandoval annuì senza parlare, controllò sulla Usta e proseguì.

Klein sentì sotto i piedi il pavimento coperto di sudore, mentre tornava verso il fondo della cella. Scostò la coperta che fungeva da tenda davanti al gabinetto e pisciò. La cella era stata costruita per ospitare un solo detenuto e siccome Klein aveva accumulato abbastanza denaro per permetterselo, ci viveva da solo. In genere nelle celle singole ci stavano due uomini e in quelle doppie quattro. A Green River si doveva pagare per tutto, e lo spazio era una merce cara. Era l'esercizio privato della medicina entro le mura della prigione che aveva reso Klein abbastanza ricco da potersi permettere una cella interamente per sé. Come in tutte le società, anche li dentro c'erano ricchi e poveri, e come ovunque potersi permettere un trattamento medico privato era considerato uno status symbol. Klein si lavò nel lavandino e si asciugò con un grande accappatoio, altro oggetto di lusso. Quando ebbe finito era di nuovo ricoperto di sudore, tanta era l'umidità nell'aria e il surriscaldamento dei suoi muscoli. Rimandò il momento di indossare la divisa di cotone fino a quando il sudore non fosse in parte evaporato nell'aria stagnante. Restò in piedi, nudo, davanti allo specchio che usava per radersi, mentre il brusio del suo rasoio elettrico si mescolava a quello di centinaia d'altri rasoi. Le lame erano proibite. All'estremità inferiore dello specchio c'era una striscia di nastro adesivo color bianco sporco, su cui aveva scritto in nero, in modo che potesse vederle ogni mattina e non dimenticarle mai, queste parole:

NON SONO CAZZI TUOI.

Questo aforisma costituiva lo zenit e il nadir del sistema etico, politico e filosofico che era necessario padroneggiare per sopravvivere nel Penitenziario di Stato di Green River. La sua importanza gli era stata chiarita molto presto da "Rospo" Coley, il detenuto che dirigeva l'infermeria della prigione. Un giorno Klein gli aveva chiesto perché un uomo fosse stato ricoverato con i testicoli recisi e infilati nel retto, e afferratolo per un braccio Coley gli aveva risposto: «Non ti piacerebbe saperlo, mozzarella. Non ti piacerebbe sapere niente di quello che succede qui dentro. E non ficcarci mai il naso. Mai. Sta' a sentire: mettiamo il caso che un giorno passando davanti alle docce senti che accoltellano qualcuno o che se lo stanno facendo. Magari è un tuo amico. Il tuo migliore amico. Magari ti piacerebbe partecipare al giochetto. O magari gli stanno tagliando i coglioni con un rasoio come a questo povero disgraziato, e tu lo senti gridare anche se gli hanno ficcato in gola uno straccio bagnato. Tira dritto per la tua strada, fratello, perché per quello che sta succedendo c'è sempre un motivo che tu non sai. E anche se non esiste nessun motivo, comunque non sono cazzi tuoi».

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Quando i due grandi battenti d'acciaio si richiusero alle sue spalle, Juliette Devlin restò arenata nella terra di nessuno tra la disciplina e la libertà. Come sempre anche quel giorno avrebbe portato con sé quella terra di nessuno nel brulicante caos della prigione. Ma adesso, almeno per qualche istante ancora, era sola.

Le lampadine che penzolavano dal soffitto a volta emanavano una luce irritante. Davanti a lei c'era una porta di acciaio lucido che aperta era abbastanza grande da lasciar passare un camion dei pompieri, e chiusa abbastanza forte da resistere a una bomba sparata da un missile. Devlin sapeva che dall'altra parte qualcuno la stava osservando sullo schermo di un impianto a circuito chiuso. Era un uomo che la guardava, e una volta varcata quella soglia l'aspettavano molti altri sguardi maschili. Mai in vita sua si era sentita tanto consapevole del suo genere, della sua diversità. Perché quello era un universo totalmente maschile; e per di più un universo popolato da uomini capaci di soffrire e di far soffrire, che avevano patito e inflitto sofferenze inenarrabili. In un certo senso era stato proprio quello a portarla lì. Si era impegnata a cercare di misurare una piccola porzione di quella smisurata sofferenza, e con essa anche una piccola porzione dell'animo umano.

Mentre aspettava che la porta di acciaio si aprisse, Devlin provò quella sensazione mista di ansia ed eccitazione che non era ancora riuscita ad analizzare a fondo. Ansia connessa alla trasgressione, al fatto di fare qualcosa che non avrebbe mai dovuto fare in un posto dove non avrebbe mai dovuto mettere piede. Eccitazione che nasceva dalla proibizione e quindi dal senso di colpa e dalla paura. Il penitenziario era un monumento alla colpa e alla paura: le risvegliava allo stesso modo in cui le cattedrali gotiche suscitano il senso del divino. Ma non era solo questo. In qualche angolo della mente di Devlin c'era sempre il fantasma di suo padre Michael; e poi dentro le mura di quella prigione viveva Ray Klein.

Suo padre, ormai ritiratosi in pensione in un ranch a pochi chilometri da Santa Fe, aveva diretto una prigione federale del New Mexico, e Devlin era cresciuta all'ombra emotiva di un posto non dissimile da questo. Suo padre era stato un democratico johnsoniano, fortemente contrario alla pena di morte, sfinito dall'incapacità del programma Great Society di arrestare la propria corsa verso la polarizzazione e il caos. All'incirca all'epoca del suo pensionamento il Ministero degli Interni aveva ufficialmente accantonato il concetto di riabilitazione e la sua prigione aveva visto un ritorno di recidività del novantadue per cento, fallimento che Michael Devlin non aveva potuto non considerare come proprio. Come genitore era stato democratico in teoria, ma egoista ed esigente nella pratica; nessun successo dei figli era mai abbastanza grande da meritare i suoi elogi. Se era fiero di Juliette sapeva ancora nasconderglielo molto bene: In aggiunta a tutto ciò era un cattolico irlandese con una sete colossale per il whiskey Jameson. Ma lei non l'aveva mai visto ubriacarsi sconciamente né alzare le mani su qualcuno di loro, e perciò se era un bastardo e qualche volta persino un ipocrita la cosa non aveva grande importanza e lei lo amava lo stesso.

A volte si domandava se la questione non fosse per caso tutta li, se il suo non fosse altro che un tentativo di vendicare il padre. Impossibile. Era già abbastanza difficile vendicare la propria esistenza, e inoltre il padre la considerava una svitata. Allora forse era un tentativo di punirlo. Michael Devlin non le parlava mai della sua prigione, nella mente di Juliette essa aveva assunto tutto il mistero e il fascino della foresta nera delle favole. Era quello il luogo in cui certe verità potevano essere svelate, e soltanto correndo terribili rischi. Suo padre avrebbe preferito vederla occupata in una ricerca sulla sindrome premestruale, o sulla depressione nelle madri nubili, o qualche altra insulsa stronzata. Come facevano alcuni suoi colleghi, che non capivano perché mai volesse sprecare il tempo in mezzo ad assassini e stupratori. In un certo senso forse il suo lavoro era un gigantesco "vaffanculo" diretto a tutti loro. Chi si credevano di essere per disapprovarla? Comunque, quali che fossero le ragioni per cui si trovava lì, la realtà non cambiava: stava aspettando sotto la luce cruda delle lampadine nude di entrare nella foresta nera di Green River.

Devlin – preferiva Devlin a Juliette – aveva studiato psicologia e medicina a Tulane. Il suo quoziente d'intelligenza era stato abbastanza alto da consentirle di assumere tutte le droghe che voleva e scatenarsi con la più eterogenea collezione di scaricatori di porto e desperados di Crescent City senza mai farsi bocciare a un esame. Sempre a New Orleans, aveva imparato a giocare d'azzardo e aveva scoperto che se la cavava bene. Un internato di psichiatria l'aveva calmata un po', ma una ragionevole carriera verso qualcosa di comodo, chic e redditizio, come la psicoterapia, per esempio, non l'aveva mai attirata. La irritava che proprio come al cinema anche nella vita agli uomini toccassero i ruoli migliori: sparare sui cattivi e portare la nitroglicerina attraverso un blocco stradale, mentre le ragazze restavano ai margini dell'azione a fare il tifo. Quando la medicina legale si era presentata come il gioco più pesante in città, Devlin aveva ottenuto un posto al tavolo. Il livello intellettuale dei colleghi era, a suo parere, generalmente scarso. La sua ricerca nel carcere di Green River non aveva precedenti in letteratura e parecchi rappresentanti prestigiosi del settore le avevano detto che si trattava di un lavoro brillante. Devlin aveva l'impressione che quella ricerca le avrebbe fornito una reputazione.

Dal tunnel giunsero i suoni striduli del meccanismo di apertura che entrava in azione e Devlin tornò al presente. La porta d'acciaio davanti a lei si scosse sui cardini e si spalancò.

Devlin fu contenta di vedere che dall'altra parte c'era il sergente Victor Galindez ad aspettarla. Come tutti quelli che lavorano in istituzioni chiuse, anche i secondini di Green River guardavano agli esterni e privilegiati come Devlin con timore e sospetto, però Galindez era più cortese della media. Dopo averla salutata l'accompagnò fino alla ricezione, dove lei depositò chiavi e agenda. Mise una firma sul registro dei visitatori e su una dichiarazione di responsabilità. Galindez le perquisì la cartella, poi la guidò attraverso il secondo cancello che dava sul cortile.

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