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| << | < | > | >> |Pagina 7PrologoSono bianca. E, come me, lo sono anche mia madre e mio padre. Mia sorella è figlia dei miei stessi genitori: siamo assolutamente, completamente bianchi. Americani bianchi d'origine europea. Bianchi che più bianchi non si può. Credo sia importante chiarire questo punto, perché, quando descrivo la mia infanzia a qualcuno – gli anni passati a spostarci da una chiesa nera battista all'altra, le squadre di basket all-black, le ore trascorse sotto abili mani che mi intrecciavano dolorosamente i capelli in cornrows – spesso mi sento chiedere: "Avevi qualche parente nero, in famiglia?". No, nessuno. Siamo tutti bianchi. Tuttavia, mio padre, John Wolff, o "Wolfy", come lo chiamavano i ragazzi del quartiere, era convinto di essere un nero. Se ne andava in giro tutto impettito con i capelli corti e permanentati, un maglione alla Cosby, catene d'oro al collo e berretto Kangol; raccontava barzellette come Redd Foxx e distribuiva consigli come Jesse Jackson. Camminava come un nero, parlava come un nero e faceva sport come un nero. Guai a dirgli che era un bianco. Credetemi, io ci ho provato. La sua non era una crisi d'identità; lui era così. Era "uno del quartiere". Del nostro quartiere. Vivevamo a Rainier Valley, nella zona sud di Seattle, dove all'epoca l'uomo bianco medio non entrava, se non aveva un buon motivo per farlo. Non che i motivi mancassero, per la verità. La nostra casa era a pochi passi da moltissime attrazioni: la M.L. King Jr. Way, il Langston Hughes Auditorium, la piscina Medgar Evers, la Douglass-Truth Library, e il Quincy Jones Auditorium (che si dà il caso sorgesse all'interno delle scuole superiori dove studiò Jimi Hendrix). E gli appassionati di letteratura saranno felici di sapere che, non lontano da lì, Iceberg Slim faceva il protettore di una squadra di prostitute. Di bianchi, però, nemmeno l'ombra. Ogni tanto, qualche pallido hippie della classe media si trasferiva nella nostra strada per sfuggire al suo ambiente bourgeois, ma se ne andavano quasi sempre alla nascita del primo figlio. E mio padre finiva sempre per odiarli. Prima o poi cominciavano a "mettersi in mostra", sfoggiavano le loro lauree o sistemavano il tetto, e noi non potevamo più interagire con loro. Anche prima che andasse di moda, papà era un sostenitore della necessità di "essere se stessi". Si era trasferito nel nostro quartiere da bambino, all'inizio degli anni Sessanta, quando era ancora abitato da bianchi e asiatici. Questo accadeva prima dell'introduzione degli autobus scolastici, quando i bianchi della classe media cominciarono a lasciare le città e a trasferirsi in periferia, perché... "beh, sai com'è". I miei nonni erano troppo poveri per essere razzisti. Non si vende quando il mercato è basso. E, quando il quartiere cominciò a tingersi sempre più di nero, a mio padre accadde lo stesso. Alle superiori, cominciò ad aiutare le Black Panthers con il "programma colazione". Praticava sport, e riuscì a farsi qualche amico. Erano i suoi fratelli, e lui era un vero fico. Ma quando, dopo un semestre al college, non divenne una star del football, si reinventò come hippie e andò a est, a Putney, nel Vermont. Si fece crescere i capelli e cominciò a indossare pantaloni di pelle; bazzicava i corridoi degli istituti superiori, dove spacciava erba. Fu lì che conobbe mia madre. Lei era sveglia, graziosa, socialmente consapevole e molto, molto povera. E quando lui le parlò di diritti civili, lei pensò che fosse un femminista. Lasciò immediatamente la scuola e si trasferì con lui nel Maine, dove andarono a vivere nei boschi senza elettricità né acqua corrente. Faceva quell'effetto alle donne. Per un po', seguirono la filosofia del "ritorno alla natura"; quando mamma mi mise al mondo, però, il babbo la convinse a trasferirsi nella casa in cui era cresciuto. I miei nonni, alla fine, avevano deciso di traslocare in un quartiere migliore. E mia madre si lasciò convincere: alle donne piacciono le case gratis. Ma, non appena fu tornato nel suo quartiere, papà cominciò a cambiare: o, meglio, tornò a essere quello di un tempo. Si tagliò i capelli, che fino a quel momento aveva lasciato crescere, e si fece la permanente. Cominciò a sviluppare un'ossessione per le scarpe, comprò un tamburo africano da usare come tavolino e una sedia di vimini con lo schienale alto simile a quella che si vede nelle foto di Huey Newton. E fu invitato da tutti i suoi amici delle superiori a unirsi all'Esquire Club, un'associazione riservata a uomini di colore. A un anno dal matrimonio, l'uomo che mia madre aveva sposato – l'hippie vegetariano preoccupato per l'ambiente – se n'era andato per lasciare il posto al "fratello" nero: e i miei arrivarono a un passo dal divorzio. La mia sorellina, che era nata lì, nella Rainier Valley, prese tutto da lui. Sembrava che fosse balzata fuori dal grembo di mamma per entrare subito in una troupe di ballerini. Era così amata e apprezzata dalla comunità nera che qualcuno avrebbe potuto pensare che fosse stata lei a inventare il beatboxing (avete presente Doug E. Fresh?). Così, mentre mia madre progettava la sua fuga, mia sorella e papà erano sempre più uniti, e completamente integrati nella comunità in cui vivevamo. E poi c'ero io, la figlia "bianca". Badate, non lo dico come provocazione, o per buttarmi giù. Lo ero sul serio. Non sapevo ballare. Non sapevo cantare. Non sapevo giocare a Double Dutch (ero terrorizzata all'idea di saltare quelle due corde che duellavano tra loro). Non avevo storie forti da raccontare, che finivano con: "...le ho detto di non farmi togliere gli orecchini!". In tutta onestà, il fatto di essere bianca non mi creava nessun problema. Avrei voluto che lo fossero tutti i membri della mia famiglia. Una bella famiglia bianca, destinata a finire sulla copertina del Settimanale dei bianchi. Se avessi potuto scegliermi i genitori, sarebbero stati due professori (bianchi) che se ne stavano seduti a leggere il giornale con le loro giacche di tweed (da idioti bianchi), e si fermavano occasionalmente per fare qualche commento (da bianchi) su quello che succedeva in Cina, o sulla mia straordinaria intelligenza. Parlavano con le loro voci garbate (da bianchi) e, quando cucinavano il pollo, BUTTAVANO VIA I VENTRIGLI. Invece avevo mio padre, che se ne stava seduto a giocare a domino con quattro energumeni neri – tutti miei "zii", e tutti concordi sul fatto che, per discutere di discriminazioni razziali, occorresse urlare con tutto il fiato che avevano in corpo. Inoltre, pensavano che i bambini fossero degli incroci tra un galoppino che andava a prendere le birre e un telecomando; e riconoscevano che il mio senso del ritmo avesse gravi problemi. In effetti, non sbagliavano. Per mio padre era assolutamente inaccettabile, e così cominciò la sua crociata per rendermi una vera "sorella". Ricordo che cominciò poco dopo il mio sesto compleanno. Senza sollevare lo sguardo dalle tessere del domino, mi disse: "Devi smetterla di stare con gli adulti. Perché non esci a giocare con i bambini del quartiere?". I quattro neri eruditi che sedevano al tavolo con lui annuirono, ma personalmente non ero troppo eccitata all'idea. Non conoscevo i bambini che vivevano lì intorno, ma sapevo che si davano appuntamento in fondo all'isolato, che erano più grandi di me e che tra loro erano molto amici. A me piaceva stare con papà. Mamma guidava un autobus municipale e, durante il giorno, era lui che badava a me e alla mia sorellina, Anora. Ogni tanto trovava qualche lavoretto nell'edilizia, e allora andavamo tutti a piantare chiodi e roba simile finché qualcuno non si faceva male. Ma di solito passava il suo tempo con quei quattro tizi del quartiere: Reggie Dee, Eldridge, Big Lyman e Delroy. E proprio non capivo perché non mi volessero tra i piedi... Io ero un vero spasso. Mentre metteva in ordine le sue tessere, continuò: "Sai che cosa devi fare?". Intuii quello che stava per dirmi. "Devi uscire e fare amicizia con le tue sorelle." "Parli delle ragazzine che stanno davanti alla casa di Latifa?" Annuì. "E perché?" "Un giorno potresti aver bisogno di loro. E poi... il quartiere è la tua casa." "E come faccio?" "Vai da loro e presentati", mi disse. Poi, agitando le mani, aggiunse: "Ma non devi sembrare spaventata... comportati come se stessi facendo loro un favore". Sapevo che tutto questo aveva a che fare con la necessità di essere dei veri fichi, ma io ero terrorizzata e non capivo proprio come qualcuno potesse pensare che gli stessi facendo un favore. "Quelle ragazzine là fuori sarebbero molto fortunate ad averti con loro", disse Reggie Dee. "E perché?", chiesi. Reggie mi piaceva. "Beh, perché...", fece lui, pensandoci su. "Perché sono intelligente", risposi al suo posto. "Molto intelligente, per avere sei anni." "Già", fece lui con una certa apprensione. "Ma non è il caso di vantarsene." "Oh." Io e la popolarità non andavamo troppo d'accordo. "Di che altro posso vantarmi, allora?"
"Ecco...", cominciò papà. "Punto primo, del fatto che
sei mia figlia, e questo è solo l'inizio." Aspettai il punto
secondo, ma lui sembrò solo arrabbiato per il fatto che fossi ancora lì.
Uscii di casa e andai all'angolo, dove trovai un gruppo di bambini. Il leader indiscusso era una ragazzina paffuta che chiamavamo Nay-Nay. Le sue cosce color miele erano strizzate in un paio di ciclisti fosforescenti di due taglie più piccoli, e le sue dita grassocce da maiale sbucavano dalle scarpette di plastica in tinta con i pantaloni. Erano le jelly shoes, ballerine che andavano molto di moda nel quartiere, ma che mia madre mi proibiva di portare in quanto dannose per il mio collo alto. "Ciao", salutai. "Mi chiamo Mishna. Vivo in cima alla strada. Vuoi essere mia amica?" Che orrore: non lo dissi come se pensassi di farle un favore. Avevo il tono di una persona terrorizzata. Nay-Nay mi squadrò da capo a piedi e disse: "Hai delle Barbie?". "Ma certo", risposi. E poi le chiesi: "Che cos'è una Barbie?". Mi guardarono tutti come se mi fossi fatta di crack, e Nay-Nay rispose, condiscendente: "È una bambola. Allora, ne hai qualcuna?". "Sì!", gridai insolente. "Certo!" "Beh, allora vai a prenderle... e poi potrai stare con noi", disse lei, mettendosi la mano sul fianco e impedendomi di rivolgere la parola a qualunque altro membro del gruppo. Ma io rimasi lì come una stupida, come se non mi fossi resa conto che la conversazione era finita. Finché non fossi tornata con quella bambola, non mi avrebbero considerata. Nay-Nay schioccò le labbra. "Oh", dissi io con indifferenza, "vado a prendere la mia Barbie." E mi allontanai strisciando. Entrai in casa come un fulmine, passai accanto agli uomini che giocavano a domino e corsi nella mia stanza. Cominciai a frugare tra le mie bambole. Le posai tutte sul letto per decidere quale fosse la Barbie, ammesso che ce ne fosse una. Non avevo molta familiarità con i giocattoli di marca, perché mamma non mi lasciava guardare la tv commerciale. Diceva che mi mandava in pappa il cervello; in realtà, probabilmente era convinta che, senza pubblicità, fosse più facile essere poveri.
Presi una decisione rapida e istintiva e afferrai il mio
pupazzo preferito: Tommy, una tartaruga imbottita che
qualcuno aveva cucito per me. Con estrema cura, me lo
misi sotto il braccio facendo molta attenzione alla testa,
perché è il punto più vulnerabile delle tartarughe. Corsi
di sopra e passai come un lampo accanto a mio padre,
impegnato in una gara di urla con Lyman che lo accusava di aver barato, e uscii
dalla porta anteriore. Non sapevo se fosse la bambola giusta, ma era la più
bella che avessi, ed ero abbastanza sicura che la mia stupenda tartaruga non
avrebbe mancato di fare colpo.
Le bambine del quartiere erano tutte in piedi davanti alla casa di Latifa, impegnate in una specie di Barbie-orgia. Scene hot e selvagge con Barbie-sopra-Barbie, corredate di effetti sonori tipo: "Uh, uh, uh". Oltre a scoprire il lesbismo, mi resi conto che il pupazzo che stringevo in mano non aveva nulla a che fare con le Barbie. "Cos'è quella roba, bianca?", chiese Nay-Nay, indicando la mia tartaruga. "Si chiama Tommy", risposi. "È una tartaruga." "E pensavi di poter venire qui con la tua tartaruga sfigata e metterti a giocare con le Barbie?" Scrollai le spalle. Lei scoppiò in una risata stridula, che di lì a poco contagiò il resto del gruppo. Io rimasi all'angolo della strada con Tommy la Tartaruga, mentre cinque ragazzine nere, con le loro donne bianche di plastica, ridevano della mia stupidità. Disperata, provai a dire: "Anche la mia è una Barbie... solo diversa!".
"Quella non è una Barbie!", esclamò Latifa, che aveva
un anno più di me. "Viene da uno scatolone di roba per
i poveri!" Poi, vedendo che non me ne andavo, Nay-Nay
mi diede di nuovo della "bianca" con il suo tono sprezzante e mi allontanò con
una spinta, nemmeno troppo forte. Fu davvero imbarazzante.
Rientrai in casa e andai dritta da mamma, che era appena tornata. Era in piedi davanti al piano di lavoro in cucina, con ancora la divisa indosso, e stava sgranocchiando dei crackers con un po' di formaggio. Sul suo viso vidi la solita espressione che aveva quando tornava dal lavoro: stanchezza mista a preoccupazione e caffè. Era concentrata sul suo spuntino, e fu piuttosto sorpresa quando battei i pugni sul ripiano lì accanto ed esclamai: "Mamma, mi serve una Barbie!". "E Tommy?", fece lei, indicando il mio pupazzo. Per tutta risposta, lo gettai a terra. "Tommy cosa?", dissi con un tono che sperai non arrivasse alle orecchie di papà. "Sai, temo che con questa uscita ti sia giocata il titolo di 'mamma delle tartarughe' dell'anno." "Non m'importa più un accidente di quella stupida tartaruga!" Quelle parole catturarono la sua attenzione. Si voltò a guardarmi e scosse il capo, come se sapesse che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato. Con voce calma e sincera, mi disse: "Tesoro, le Barbie vengono assemblate dai popoli oppressi del pianeta, affinché una grande società possa arricchirsi. Ora, credi che valga la pena produrre un karma tanto negativo per una banale bambola?".
Tentai di rispondere. "Ehm... ecco..." Ma sapevo di aver perso in partenza,
se si trattava di karma e filippini oppressi.
Qualche giorno dopo, uscendo di casa, trovai mio padre che stava dando gli ultimi ritocchi all'altalena che aveva costruito nel giardino anteriore, utilizzando uno pneumatico come seggiolino. "E quella cos'è?", chiesi. Annodò l'ultima corda e disse: "Un'altalena. Così qualche bambina verrà qui a giocare con te. Vedrai", aggiunse. "D'ora in poi diventerà questo il ritrovo del quartiere." "Credi che mi aiuterà a farmi delle amiche?" "Diamine, sì!", rispose lui. Poi, indicando il suo capolavoro, mi chiese: "Chi non vorrebbe farci un giro?". Io: probabilmente era quella la risposta che avrei voluto dargli, dal momento che ne ero terrorizzata. Ma il babbo era un esperto, in queste cose. Pertanto, anche se quell'altalena sembrava troppo alta da terra e non proprio pulitissima, mi convinci che prima o poi avrebbe rivelato il suo potere segreto. E come volevasi dimostrare, prima che mio padre avesse annodato l'ultima corda, Latifa era già a casa nostra. Mi voltai a guardarla e, imbarazzata, le chiesi se volesse salirci per prima. "Okay", rispose. Si dondolò per un po', e poi mi aiutò a salire e mi spinse. Con mia grande sorpresa, mi resi conto che, lontana da Nay-Nay, era davvero simpatica. Imparai anche che la sua parola preferita era dannazione! La usava al principio di ogni frase. "Dannazione, i tuoi capelli sembrano peli." O: "Dannazione, perché i tuoi ti vestono da maschio?". E ancora: "Dannazione, sei proprio senza culo!".
Passammo un pomeriggio intero sull'altalena. Un paio
di volte tentai addirittura di cominciare le frasi come lei:
"Dannazione, mi piace dondolarmi... dannazione". O:
"Dannazione, guarda come vado veloce... dannazione".
Poi, quando cominciava a farsi buio, rientrai in casa,
esausta dopo tanto divertimento.
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