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| << | < | > | >> |Pagina 13August ricorda: come tutti i bambini che alla fine della guerra arrivavano alla stazione ferroviaria del Meclemburgo senza genitori, era stato interrogato su quando e dove avesse perso sua madre. Ma lui non lo sapeva. Gli aerei avevano bombardato il convoglio dei profughi prima o dopo il passaggio sul grande fiume che chiamavano Oder? Non sapeva neanche questo. Dormiva. Quando cominciò l'orrendo frastuono e la gente si mise a urlare, un'estranea, non sua madre, lo ha afferrato per un braccio e l'ha tirato giù dal convoglio. Si è gettato nella neve dietro la boscaglia ed è rimasto disteso finché il rumore è cessato e il capoconvoglio ha gridato che tutti quelli rimasti vivi dovevano risalire subito. August non ha mai più rivisto né sua madre né quell'estranea. Sì, sul campo giacevano sparse qua e là persone che non sono risalite sul convoglio, il quale poi si è subito rimesso in moto.E suo padre? A parere di August la donna della Croce Rossa non era bella, capelli grigi, un viso rugoso, molto stanca, se ne accorse da come parlava. Suo padre era soldato. August non le disse di più. Sua madre aveva appallottolato la lettera appena arrivata, poi l'aveva lisciata di nuovo, aveva pianto, è vivo, aveva detto, è vivo, lo so. E anche la signora Niedlich, la vicina, aveva detto: disperso non significa morto. Ma questo August non lo raccontò alla donna della Croce Rossa. Suo padre, che lui quasi non conosceva, era vivo e lo avrebbe cercato, lui e la madre, che August aveva perduto e che a sua volta non avrebbe smesso di cercarlo finché non lo avesse trovato. Fu in grado di dire alla donna la sua data di nascita, la madre lo aveva addestrato allo scopo, per ogni evenienza. Dunque aveva appena compiuto otto anni. E sapeva anche il nome del suo paese. Ah, Prussia orientale, disse la donna. Allora vieni da lontano. E poi gli attaccò addosso un cartoncino su cui stava scritto "orfano" e le informazioni che lui le aveva riferito. August vede davanti a sé il cartoncino che per tanto tempo aveva conservato. Poi andò dunque in un'altra stanza da un medico che era stanco quanto la donna della Croce Rossa, e che lo visitò, lo auscultò a lungo e poi disse: il solito. Così arrivò al castello che portava il nome di ospedale, i cui ricoverati avevano tutti un'unica malattia, "i tarli", e dove restò a lungo. Un'estate, e un autunno. Conosceva le stagioni, solo che qui erano diverse da com'erano al suo villaggio, non così belle. August non conosceva la parola "nostalgia", e anche adesso, a più di sessant'anni di distanza, non gli viene in mente mentre pensa alle stagioni nel suo villaggio e guida concentrato e coscienzioso il grosso pullman turistico da Praga a casa. È uno dei suoi ultimi viaggi, ha raggiunto l'età della pensione, e gli sembra che le immagini del villaggio, che non ha mai più rivisto, lo accompagnino sempre più spesso. Qualche suo conoscente è tornato con continuità nella vecchia patria, lui non ne ha sentito il bisogno, lui ciò che vuole vedere, vede: il cespuglio di sambuco che si arrampica sul muro rosso di mattoni della casa, l'enorme campo di grano giallo sole, leggermente ondulato. Le masse di fiordalisi blu e papaveri rossi selvatici ai bordi. Le forme cangianti delle nuvole nel cielo azzurro intenso. La pompa davanti alla casa. Ed è sempre estate. La gente del villaggio continuava a chiamare "castello" l'ospedale, ma i pazienti lo chiamavano solo "Rocca dei tarli". I padroni del castello erano fuggiti, dai russi diceva la gente, e siccome dopo la guerra tutti avevano la tubercolosi, diceva la capoinfermiera, sull'onda della necessità erano stati costretti a trasformare in ospedali quegli edifici inadatti. Ma non avevano la bacchetta magica per far comparire il personale di cui ci sarebbe stato bisogno, diceva la capoinfermiera. Era rotonda ma molto agile e non le sfuggiva niente. August non si accorgeva che il personale era insufficiente, lui era ricoverato nel reparto maschile, di cui era responsabile l'infermiera Erika, e lei aveva educato i suoi pazienti a fare parecchie cose da soli. Diceva che in fin dei conti la maggior parte di loro non era costretta a letto. Quindi potevano lavarsi da soli, rifarsi il letto, a volte anche spazzare il pavimento. Erano cose che non avevano mai fatto male a nessuno. L'infermiera Erika aveva un viso spigoloso, guance scavate e minuscoli ricci in testa. Naturali, diceva. August pensava che avesse una qualche pena che non voleva rivelare a nessuno, ma la faccenda non lo interessava, perché tutti quelli che incontrava in quel periodo avevano qualche pena. Bisogna sbrigarsela da soli, diceva il signor Grigoleit, che stava nel letto di fronte a quello di August, veniva anche lui dalla Prussia orientale e avrebbe potuto essere suo zio. Aveva certi baffi cespugliosi che ne accentuavano la bonomia. August vede distintamente davanti a sé le persone che ha conosciuto a quel tempo, più distintamente della maggior parte di quelle che ha incontrato nel corso della sua lunga vita successiva. È ovvio che si ricordi benissimo di Lilo. Ma quando l'ha vista per la prima volta, non lo sa più.
Dev'essere stato in autunno, può darsi
durante il pranzo nel "salone dei cavalieri",
come i malati chiamavano la grande sala da
pranzo alle cui pareti erano ancora appesi i
ritratti degli avi dei castellani fuggiti, i più
antichi in cotta ed elmo. Lì tutti i ricoverati del castello si incontravano
alle dodici in punto per il pranzo, ammesso che così si
potesse chiamare ciò che veniva loro servito. Lì potrebbe aver visto Lilo per la
prima volta.
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