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| << | < | > | >> |Pagina 11Testa, croce, testa, croce. Era una normale moneta. Valeva dieci normali pence britannici. Sufficienti per una mezza telefonata. Sufficienti per una caramella o due. Ma i due uomini che la guardavano vorticare a mezz'aria sapevano che le cose non stavano così. Il valore di quella particolare moneta andava al di là di quello che chiunque alla Zecca reale avrebbe potuto immaginare. La differenza fra testa e croce... ebbene, era enorme. Il primo uomo si fece atterrare la moneta con gesto esperto sul polso destro, seppellendola sotto una sudaticcia mano sinistra. Una passante, nell'udire il secco clic del metallo contro la fede matrimoniale, li guardò da sopra gli occhiali e si allontanò. Veniva dal Tesco Metro, notarono i due uomini. Il gonfiore sul lato della sua sporta suggeriva che aveva comprato una baguette. Il bicchiere di carta col caffè che reggeva in mano proveniva tuttavia da un'altra catena... e questo li portò a dedurre che la donna fosse una consumatrice molto esigente, preparata a guardarsi intorno prima di acquistare. I due si guardarono in faccia per un secondo. Dietro di loro si svolgevano i rituali londinesi dell'ora di punta. Gli autobus passavano eruttando gas di scarico nell'aria gelida della sera. I pendolari rientravano sospirando nelle stazioni. I baveri erano sollevati, le bocche emettevano scie di vapore e il freddo cancellava dai volti qualsiasi traccia di colore. Tutti ignari della moneta. Tutti inconsapevoli della sua importanza. Tutti all'oscuro del fatto che qualunque fosse stato il risultato, testa o croce, uno di questi due uomini sarebbe morto. Ma ciò che importava in quel momento era chi. "Buona fortuna", disse il primo uomo. "Anche a te", rispose il secondo, che non portava una fede. Tuttavia un'occhiata più attenta avrebbe rivelato una lieve cicatrice sul dito che avrebbe potuto sfoggiarla. I due fecero un breve sorriso e abbassarono gli occhi. La regina Elisabetta II scoccò loro un'occhiata di traverso. Cicatrice sul Dito fece un cenno di assenso e cominciò inconsapevolmente a schioccare le nocche. "Bene", borbottò arrischiando un lieve sorriso. "Mi dispiace", disse Fede Matrimoniale.
Cicatrice sul Dito si strinse nelle spalle, ostentando l'indifferenza di un
cameriere parigino.
Non ti preoccupare,
sembrava voler dire.
La gente muore ogni giorno.
La cabina telefonica era abbastanza innocua. Sporca, arrugginita, se ne stava imbronciata al centro di una piazza deserta. Sollevando l'apparecchio e cominciando a comporre il numero che avrebbe cambiato ogni cosa, Fede Matrimoniale si ritrovò a intrattenere un pensiero, un'idea fuori contesto che si era fatta strada nel suo cervello e pretendeva di essere ascoltata. Ti è piaciuto quel thriller, gli stava dicendo il pensiero, quello che hai letto di recente. Era ottimo. Fede Matrimoniale proseguì a comporre il numero, ma il pensiero non voleva abbandonarlo. Stranamente rassicurante, insisteva. Perché malgrado tutte le incognite, tutte le svolte e i colpi di scena, c'era sempre la certezza assoluta che avresti potuto saltare qualche pagina e andare a leggere com'era finita. Il numero stabilì il collegamento. Ne risultò una breve conversazione, niente di speciale, uno scambio funzionale, una secca stretta di mano verbale. Una voce gli disse di restare in linea, e lui lo fece. Un altro suono lo distrasse. Una motocicletta Yamaha uscì con un rombo da un vicolo vicino. Due secondi dopo, le sue ruote fumarono tracciando una mezza curva. Un secondo più tardi, la moto si mise di traverso lungo la cabina. A quel punto il pensiero, che in precedenza se n'era andato, tornò. Molto diverso da adesso, diceva. Perché ora tutto è possibile; questa è la vita reale, sei aggrappato all'orlo di un precipizio e non puoi saltare nessuna pagina. L'unico modo in cui puoi sapere come andrà a finire è procedere da solo, un secondo alla volta. Il motociclista estrasse il lanciarazzi portatile dalla borsa laterale e se lo mise a spalla in un unico, plastico movimento. Che tragedia, concludeva il pensiero, avvertire che nella tua vita c'è bisogno di un ultimo colpo di scena. E che non arriva mai. La granata sssssibilò rabbiosa dalla bocca del lanciarazzi e l'impatto creò una fiammata bianca e infernale, incenerendo la cabina, fondendo le fessure per le monete, liquefacendo il pavimento fino alle tubature delle fogne e creando un fungo di fiamme e fumo che si levò nel cielo londinese. Quando la polvere si posò, sulla strada non era rimasto altro che detriti. Lacrime. Il suono distante delle sirene. | << | < | > | >> |Pagina 14Due giorni prima Il freddo penetrò dalla finestra attraverso le fessure lungo i pannelli di vetro e i buchi sul davanzale. Strisciò sui tappeti logori e chiazzati di birra. Superò le calze gettate a terra, salì sul piumone sporco e sulla scapola scoperta che si contraeva leggermente. Poi, lentamente, svegliò l'uomo. Charlie si strofinò i piedi l'uno contro l'altro. Contò fino a cinque e si lanciò di corsa verso la stufa elettrica. Uno scatto della manopola ed era di nuovo sotto le coperte. L'odore di polvere bruciata gli riempì le narici. Le resistenze grigie della stufa si tinsero di arancione. Nel giro di dieci minuti la stanza sarebbe stata adeguata a una presenza umana. Nel giro di cinque minuti sarebbe stata abbastanza calda per uno scozzese. Si alzò sei minuti dopo e si vestì con gesti frenetici da ballerino, tenendosi il più vicino possibile alla stufa entro i limiti del buon senso. Poco dopo si stava guardando allo specchio, tentando di mettersi le lenti a contatto. Quello, se non altro, era il vantaggio di vivere in una camera ammobiliata. Era tutto a portata di mano. La camicia gli irritava di nuovo la gola, e Charlie si disse che sarebbe stata soltanto questione di tempo prima che la gente cominciasse a pensare che dormiva con un cappio al collo. Poi usci al gelo e scese le scale per prendere il suo posto tra i condannati che arrancavano verso la metropolitana in una scena che gli ricordava sempre L'invasione degli ultracorpi. Si strinse al petto il malconcio cappotto e cercò di non fissare il marciapiede. Guardò invece i tetti, aguzzando gli occhi verso i comignoli e gli uccelli di guardia. Lo aveva imparato da un senzatetto che era andato a sbattere contro di lui una mattina come quella. "Fa' attenzione a dove metti i piedi", era scattato Charlie prima di sentirsi in colpa. Il senzatetto l'aveva fissato con un sorriso. "Era quello che facevo", aveva risposto. Dopo quell'episodio, Charlie si era sempre sforzato di guardare il più possibile in alto. In particolar modo ora che così tanti aspetti della sua vita puntavano verso il basso. E a volte, lassù, lontano lontano, per un attimo fuggente riusciva a scorgere il sole. Oggi sembrava un piattino grigio. Charlie scese nella stazione della linea Jubilee e cercò un posto in fondo all'ultima carrozza. Tre giapponesi in abito beige erano seduti in fila e fissavano le pubblicità in silenzio. Ciascuno di loro sfoggiava una piccola targhetta di plastica al taschino della giacca. "VISITATORE", diceva semplicemente. Nessuno sul vagone guardò Charlie. Nessuno notò la sua presenza. Lui faceva quell'effetto, sulla gente. E gli andava bene così. Arrivò in tempo, ovviamente. Charlie arrivava sempre in tempo. L'aveva sempre fatto.
Fin da allora.
Era un posto di lavoro prosaico, pieno di ritagli di carta, di pellicola trasparente, del vago odore di ozono. Quando la gente passava, lanciava sempre la stessa occhiata impietosita. Meglio a loro che a me, diceva. Charlie lavorava in una "stazione" di sviluppo fotografico. Tecnicamente era un baracchino, ma l'azienda da cui lui e il suo collega George dipendevano amava chiamarla "stazione" nei suoi opuscoli, e pertanto "stazione" era. Il fatto che si trovassero già in una stazione sembrava essere sfuggito ai loro dirigenti. Dieci metri più in alto, gli autobus londinesi percorrevano Oxford Circus a velocità suicida nei loro tragitti lungo Regent Street. Quaggiù, nell'atrio delle biglietterie della metropolitana, un bugigattolo accanto all'uscita numero sei svolgeva la doppia funzione di luogo di lavoro e luogo di discussione. Ciò malgrado, nelle stazioni la gente aspettava, e Charlie e George facevano lo stesso nella loro. In realtà, tenere due persone dietro il banco non aveva molto senso. Tanto per cominciare, il lavoro vero e proprio (ritirare le pellicole dei clienti e svilupparle in un grosso macchinario) era un'operazione sempre più obsoleta che poteva essere svolta da una scimmia ammaestrata. E, in secondo luogo, lo spazio era così limitato che perfino una scimmia ammaestrata avrebbe richiesto il trasferimento nel giro di un mese. George e Charlie lavoravano lì da poco più di un mese. "Chiedo il trasferimento", disse di nuovo George. Fronteggiava le scale mobili, ma Charlie immaginava che la frase fosse diretta a lui. Visto soprattutto che era la quarta volta che George la ripeteva negli ultimi dieci minuti. "Troppo stressante, qui", proseguì George con un vago gesto della mano in direzione dell'atrio. "Troppo." Charlie si voltò lentamente verso di lui. "Voglio dire, la scorsa settimana mio cugino è schiattato", insistette George, facendo una smorfia a indicare che si aspettava un'espressione di solidarietà da parte di Charlie. Charlie non lo accontentò, ma George proseguì lo stesso. "Un brutto colpo. Aveva il cuore di un leone." Charlie batté le palpebre un paio di volte e tornò a leggere il giornale. "Ma l'aorta di un moscerino, a quanto pare", riprese George. "Aveva un problema di valvola, capisci." Andò al banco e prese una biro da una tazza rubata in uno Starbucks. "Quando l'hanno aperto il dottore ha detto che le sue arterie sembravano l'interno di un calzone. Il che mi è parso molto indelicato, considerato quanto mio cugino amava la cucina italiana." Charlie non era sicuro se quella di George fosse una battuta. Decise di no. Si disse che perfino l'eterna, quasi psicotica amabilità di George si sarebbe tirata indietro prima di scherzare sulla morte di un parente stretto. D'altro canto... Tornò a voltarsi verso le fotografie che lo avevano turbato. Rimase in silenzio per un minuto, sfogliandole una per una, lasciando le impronte dei pollici sugli angoli e sperando che la conversazione fosse finalmente giunta al termine. Si sbagliava. "Ne ho uno nuovo", arrischiò George. "Un uomo viene trovato morto nella vasca da bagno. È stato pugnalato. L'acqua è ancora calda. Le uniche impronte che la polizia riesce a rilevare sono quelle della vittima. E il chiavistello del bagno è chiuso dall'interno. Come ha fatto l'assassino?" Charlie si rifugiò nella parte del suo cervello che conservava per momenti come questo, quando la sofferenza e la frustrazione significavano che poteva soltanto ritirarsi dentro. George lo stava guardando con aria speranzosa. "Qualche idea?" "Suicidio." "Macché." George stava cominciando a divertirsi. "Il libro s'intitola Gli omicidi del francobollo, a proposito. Non è un indizio, te lo sto solo dicendo." "Non mi interessa. È la soluzione?" Scosse la testa. "L'assassino", sorrise, "ha commesso l'omicidio indossando le scarpe della vittima. Poi è indietreggiato fino alla porta e ha usato una potente calamita per far scattare il chiavistello dall'esterno." "George?" "Sì." "Continua a non interessarmi." Gli aneddoti della camera chiusa di George erano una componente della vita fin da quando Charlie aveva cominciato a lavorare lì. Per qualche motivo, George aveva imparato a memoria quasi tutti i Delitti della camera chiusa di Robert Adey. Fra le prime parole che aveva rivolto a Charlie c'era stato il racconto dell'ingegnoso incendio comandato a distanza di una bottega di pescivendolo contenuto in Punto di infiammabilità, un romanzo di Hugo Blayn. Non "lieto di conoscerti", e nemmeno "in che zona vivi?". Al loro posto, una tazza di tè e un monologo di cinque minuti sull'ingegnosa idea di lasciare un blocco di nitroglicerina ghiacciata alla portata del martello del pescivendolo... Charlie si sentì riemergere dal ricordo mentre, clac-clac-clac, tre rullini fotografici apparivano in fila sul banco.
Ed eccola lì.
A Londra c'è molta bella gente. Alcune di queste persone si mostrano alla luce del giorno, poche usano la metropolitana. La metropolitana londinese è più che altro un impero troglodita; la bellezza laggiù non dura molto, ed è per questo che di solito la bellezza viaggia in carrozza su Old Brompton Road. Ma la donna che ora si parava davanti a Charlie apparteneva a una razza diversa. E il fatto che si trovasse lì, sottoterra, nel paese dei brutti, non faceva che contribuire alla sua aura mitologica. Era praticamente un unicorno. Era poco più alta di George, un metro e settantadue, e i suoi capelli lucenti si riversavano sul completo Donna Karan. Charlie, essendo vicino al metro e ottantacinque, vide che le radici erano perfette. O si ossigenava usando batuffoli di cotone, oppure era una bionda naturale. Le sue mani giunte rivelavano un'esistenza di beatitudine idratata. Un'abbronzatura da vacanza. E un anello. Non una fede matrimoniale, non una pietra preziosa da fidanzamento. Qualcosa nel mezzo. Un mistero per Charlie, ma anche un raggio di luce nel buio. La donna lo guardò negli occhi. Ecco un altro suo aspetto: gli occhi. Tradivano una certa ironia, una scintilla di pura e maliziosa intelligenza che Charlie trovava irresistibile. "Ne ho bisogno per domattina", disse lei. "Nessun problema, signora." Charlie si avvicinò a una pila di togli A4 sistemata più o meno senza pensarci sotto una graffettatrice. Ma quando tornò a voltarsi vide che George aveva usurpato la sua posizione, modulo in mano, e si stava sporgendo sul banco con un sorriso. "Se potesse scrivere nome e indirizzo", disse in tono sciropposo indicando il fondo del foglio. Estrasse una biro dal taschino e la offrì alla donna. Afferrandola il più vicino possibile al pennino, lei scrisse il proprio nome. "Torno domattina presto", sorrise. E poi si allontanò. George stava ancora parlando, le labbra arricciate in un dolce mezzo sorriso carico di aspettative. "Assolutamente, nessun problema." Lei non si voltò. Se l'avesse fatto, questo è ciò che avrebbe visto: un uomo sulla trentina e uno sulla cinquantina che la fissavano. I loro visi pallidi, impietriti in un'espressione di malcelata meraviglia. Charlie, il più giovane, aveva capelli corti che stavano cominciando a diradarsi, anche se con gusto. Le sue braccia erano leggermente più lunghe di quanto sembrasse normale, snodate e bianco mozzarella, e finivano con dita ossute e unghie da chitarrista sulla mano sinistra. Un dito sfoggiava un cerotto. Accanto a lui ciondolava una patata d'uomo con occhi color silice che brillavano amabilmente sotto una massa disordinata di capelli. Le guance di George erano costellate di ricci di barba non regolata che erano più il risultato dell'assoluta riluttanza a radersi che di una cosciente scelta di stile. La sua felpa di pile viola era prodotta da una ditta di tavole da surf, malgrado la schiacciante prova visiva che George avrebbe affondato qualsiasi mezzo nautico su cui avesse messo piede. Fu Charlie a interrompere il momento. "Lo è", disse. "No che non lo è", sospirò George. Per le successive quattro ore, nessuno dei due aprì più bocca. | << | < | > | >> |Pagina 73"Il Fotogramma Tredici", disse Forbes, "denota un'azione specifica. Nei miei tredici anni di lavoro sul 'campo', come viene definito in modo a mio modesto parere ironico, visto che non ha quasi mai a che fare con il verde, ho ricevuto quest'ordine soltanto una volta. E, anche in quel caso, in extremis. Con il mondo in preda al caos odierno, le regole sono cambiate. In passato, il bipolarismo della guerra fredda aveva in sé una sorta di regolamento, la sensazione che si stava giocando una partita; una partita brutale ma con regole e codici da seguire, e trasgredire, con attenzione. "Tuttavia il nuovo ordine mondiale ha frammentato questi codici, e in qualità di agenti di Sua Maestà potreste in certi casi ricevere un Fotogramma Tredici vuoto. "Un tredicesimo vuoto significa che avete l'ordine di uccidere. "Sconvolgente, è naturale. Ma non quanto il fotogramma successivo. Perché il Fotogramma Quattordici conterrà la fotografia dell'essere umano a cui dovete tassativamente togliere la vita. E non importa quante morti abbiate sul vostro curriculum, il primo faccia a faccia con il bersaglio produce sempre un impatto. Io dovrei saperlo. La prima volta che mi accadde, sviluppai una forma di psicosi traumatica a quei tempi ancora ignota alla scienza. "Il mio problema era che non potevo credere che quella persona, quello sconosciuto che mi guardava dalla fotografia, avesse potuto fare qualcosa di male. E così mi rifiutai di agire, chiamai il mio superiore, commisi l'errore di pensare troppo e agire troppo poco. "E lui mi disse quello che vi ripeterò ora: 'i Fotogrammi Tredici e Quattordici non vanno affrontati a cuor leggero. I fotogrammi Tredici e Quattordici non si sbagliano mai'." | << | < | > | >> |Pagina 97Charlie rovistò nel cassettino del cruscotto e trovò il vecchio volantino del servizio da asporto di un ristorante indiano. Lo piegò in due e cercò una penna. Piantò i piedi sul cruscotto, si posò il foglio sulle ginocchia e con dita tremanti prese a redigere una lista. Era un elenco delle certezze della sua vita, e si intitolava "Cose che so". Per un orribile istante non gli venne in mente niente. Poi cominciò:COSE CHE SO • Mi chiamo Charles Lachlan Millar. • Ho 27 anni. • Mia madre si chiama Jane. • Il mio segno è il Capricorno. • Sono un dipendente di una divisione del Servizio di Sicurezza britannico.
Succhiò la punta della penna e cercò di trovare qualcosa da
aggiungere. Non ci riuscì. Poi ci riuscì.
• Ho firmato l'Official Secrets Act. • Il mio cibo preferito sono i fagioli al forno con pane tostato. • Mi piace la musica di Orbital e Groove Armada. • I miei datori di lavoro mi vogliono morto. | << | < | |