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| << | < | > | >> |IndiceIl lettore comune 5 Come si dovrebbe leggere un libro? 7 Che effetto fa a un contemporaneo 31 Note ai testi 51 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Nella Vita di Gray del dottor Johnson c'è una frase che meriterebbe di essere scritta in tutte quelle stanze, troppo modeste per essere chiamate biblioteche, eppure piene di libri, in cui l'interesse per la lettura viene perseguito da singoli individui: «... Sono lieto di concordare con il lettore comune; dopo il dogmatismo dell'erudizione e gli infiniti affinamenti dell'ingegno, è al senso comune dei lettori, non corrotti da pregiudizi letterari, che alla fine deve essere rimessa l'attribuzione dei massimi onori poetici». Una frase che definisce le qualità dei lettori, nobilita i loro scopi, conferisce a un'occupazione che divora una grande quantità di tempo, e che in genere non lascia dietro di sé nulla di veramente sostanziale, la sanzione dell'approvazione del grand'uomo. Il lettore comune, come suggerisce il dottor Johnson, differisce dal critico e dallo studioso. È meno istruito, e la natura, quanto a talento, non è stata così generosa. Legge per il proprio piacere e non per impartire la conoscenza o correggere l'opinione altrui. Ma, soprattutto, è guidato dall'istinto di creare per se stesso, con quello che gli capita di trovare, una specie di quadro generale – il ritratto di un uomo, il profilo di un'epoca, una teoria sull'arte dello scrivere. Quando legge, non smette mai di tirar su un suo pur sgangherato e traballante edificio che possa dargli la temporanea soddisfazione di essere abbastanza simile all'oggetto reale da permettere affetto, riso e discussione. Frettoloso, approssimativo e superficiale, afferrando ora questa poesia, ora quel pezzo di anticaglia, incurante di sapere da dove provenga o di che natura possa essere purché serva al suo scopo e perfezioni la sua struttura, i suoi difetti come critico sono fin troppo evidenti per essere segnalati; ma se ha, come sosteneva il dottor Johnson, una qualche voce in capitolo nella ripartizione finale degli onori poetici, allora, forse, può valere la pena mettere per iscritto qualcuna di quelle idee e opinioni che, di per sé insignificanti, contribuiscono però a un così notevole risultato. | << | < | > | >> |Pagina 7In primo luogo, voglio sottolineare il punto interrogativo alla fine del titolo. Anche se fossi in grado di trovare una risposta, questa varrebbe solo per me e non per voi. L'unico consiglio, infatti, che si può dare su come leggere un libro è di non accettare consigli, di seguire il proprio istinto, di usare la propria testa, di trarre le proprie conclusioni. Una volta che siamo d'accordo su questo, posso sentirmi libera di proporre alcune idee e suggerimenti, visto che non vi lascerete limitare nella vostra indipendenza, il più grande pregio che un lettore possa avere. D'altra parte, quali leggi si possono formulare sui libri? Non c'è alcun dubbio che la battaglia di Waterloo sia stata combattuta un certo giorno; ma l' Amleto è meglio del Re Lear? Nessuno può dirlo. Ognuno di noi deve risolvere la questione per proprio conto. Ammettere delle autorità nelle nostre biblioteche, per quanto togate e con tanto di ermellino, e permettere loro di dirci come leggere, cosa leggere, che valore dare a ciò che leggiamo, significa distruggere quello spirito di libertà che è come il respiro di quei santuari. In qualsiasi altro luogo siamo costretti da leggi e convenzioni: qui, non ce ne sono. Ma per godere della libertà, se mi perdonate questo luogo comune, bisogna sapersi controllare. Non dobbiamo sprecare le nostre capacità, comportandoci da inetti e sprovveduti, e bagnare mezza casa nel tentativo di annaffiare una singola pianta di rose; quelle capacità dobbiamo educarle, con rigore e con forza, lì nel punto giusto. Questa, forse, è una delle prime difficoltà che ci si presenta in una biblioteca. Qual è «il punto giusto»? Può sembrare infatti che non ci sia altro che un ammasso confuso di cose disparate. Libri di poesia e romanzi, libri di storia e memoriali, dizionari e almanacchi, libri scritti in tutte le lingue, da uomini e donne di ogni indole, razza ed età si spintonano a vicenda sugli scaffali. Mentre fuori l'asino raglia, le donne chiacchierano alla fontana, i puledri galoppano per i campi. Da dove dobbiamo cominciare? Come possiamo mettere ordine in questo immenso caos e ottenere il piacere più intenso e completo da ciò che leggiamo? Dal momento che i libri sono suddivisi in generi – narrativa, biografia, poesia –, è facile dire che quello che dovremmo fare è distinguerli e prendere da ciascuno quello che è giusto ci dia. Eppure sono poche le persone che chiedono ai libri quello che possono dare. Più comunemente ci ritroviamo davanti ai libri con le idee incerte e confuse, chiedendo alla narrativa di essere vera, alla poesia di essere falsa, alla biografia di essere lusinghiera, alla storia di rafforzare i nostri pregiudizi. Se, quando leggiamo, potessimo mettere da parte tutti questi preconcetti, sarebbe già un buon inizio. Non date ordini al vostro autore, provate a immedesimarvi in lui. Siate per lui un compagno di lavoro e un complice. Se fin da subito vi mostrate riluttanti, dubbiosi e critici, vi precludete di apprezzare nel modo migliore ciò che leggete. Ma se aprite la mente più che potete, allora, fin dal dispiegarsi delle prime frasi, segni e accenni di una sottigliezza quasi impercettibile vi condurranno alla presenza di un essere umano diverso da chiunque altro. Immergetevi nel libro, familiarizzate, e presto scoprirete che il vostro autore vi sta dando, o sta tentando di darvi, qualcosa di più definito. | << | < | > | >> |Pagina 25Mentre leggiamo, possiamo intensificare al massimo il nostro coinvolgimento, possiamo cercare di annullare il più possibile la nostra identità, ma sappiamo pur sempre che non possiamo aderire del tutto o annullarci del tutto; in noi c'è sempre un demone che sussurra: «Io odio, io amo», un demone che non riusciamo a far tacere. Infatti, è proprio perché odiamo e amiamo che il nostro rapporto con i poeti e i romanzieri è così intimo da non ammettere la presenza di nessun altro. E anche se i risultati sono esecrabili e i nostri giudizi errati, nondimeno il nostro gusto – il nervo della sensibilità che ci trasmette gli impulsi – resta la nostra fonte principale: noi apprendiamo attraverso il sentimento, non possiamo mettere a tacere le nostre idiosincrasie senza impoverirlo. Ma con l'andar del tempo potremo forse educare il nostro gusto, magari tenerlo un po' sotto controllo. Solo dopo essersi nutrito con abbondanza e avidità di libri di ogni genere – poesia, narrativa, storia, biografia – ed avere smesso di leggere per contemplare a lungo la varietà, l'incongruità del mondo vivente, solo allora ci accorgiamo che il nostro gusto un po' è cambiato: non è più così avido, è diventato più riflessivo. Inizierà allora non solo a fornirci giudizi sui singoli libri, ma ci dirà anche che tra certi libri esiste una caratteristica comune.| << | < | > | >> |Pagina 28[...] Tuttavia, come lettori abbiamo le nostre responsabilità e la nostra importanza. I criteri da noi scaturiti, insieme ai giudizi da noi espressi, si insinuano nell'aria fino a diventare parte dell'atmosfera respirata dagli scrittori durante il loro lavoro. Si viene a creare un'influenza che, pur non approdando mai all'onore della stampa, finisce per incidere su di loro. E quella influenza, se ben preparata, vigorosa, originale e autentica, può anche rivestire una grande importanza ora che la critica è inevitabilmente vacante: quando i libri vengono passati in rassegna come animali in processione in un poligono di tiro, e il critico ha a disposizione solo un secondo per caricare, puntare e far fuoco, allora lo si può scusare se scambia i conigli per tigri, le aquile per fagiani, oppure li manca del tutto, sprecando il suo colpo su una pacifica mucca che bruca in un campo lì accanto. Se dietro all'erratico mirino della stampa l'autore sentisse che c'è un altro tipo di critica, l'opinione della gente che legge per puro amore della lettura, lentamente e liberamente, e che giudica con grande indulgenza ma anche con grande severità, non potrebbe forse questo migliorare la qualità del suo lavoro? E se grazie a noi i libri dovessero diventare più solidi, più ricchi e più vari, questo sarebbe un fine ben degno di essere perseguito.Tuttavia, chi è che legge per raggiungere un fine, per quanto desiderabile? Non ci sono forse degli obiettivi e dei piaceri che perseguiamo solo perché buoni di per sé? E questo non è forse tra quelli? A volte ho sognato, almeno, che all'alba del Giorno del Giudizio, quando i grandi conquistatori e avvocati e statisti saliranno in cielo per ricevere i loro premi – le corone, gli allori, i nomi incisi in maniera indelebile su marmi imperituri – l'Onnipotente, rivolgendosi a San Pietro, dirà, non senza una certa invidia nel vederci arrivare con i nostri libri sotto braccio: «Senti, questi non hanno bisogno di premi. Non abbiamo nulla da dargli: hanno amato la lettura». | << | < | > | >> |Pagina 37Ma per produrre un critico, bisogna che la natura sia generosa e la società matura. Le disseminate tavole del mondo moderno, i solchi e i vortici delle varie correnti che compongono la società del nostro tempo, potrebbero essere dominati soltanto da un gigante dalle dimensioni favolose. Ma dove mai si trova l'uomo perlomeno altissimo che abbiamo il diritto di pretendere? Abbiamo dei recensori, ma nemmeno un critico; un milione di poliziotti competenti e incorruttibili, ma nemmeno un giudice. Sempre gli uomini di gusto e cultura e capacità istruiranno i giovani, e sempre celebreranno i morti. Ma troppo spesso il risultato delle loro abili e laboriose penne è un disseccamento del vivo tessuto della letteratura in una rete di piccole ossa.[...] Se prendiamo l'arco di un secolo come metro, e ci domandiamo quante delle opere prodotte in questo periodo in Inghilterra esisteranno ancora a quell'epoca, dovremo non solo rispondere che non possiamo concordare su uno stesso libro, ma che nutriamo seri dubbi sul fatto che un libro del genere esista. La nostra è un'epoca di frammenti. Alcune strofe, alcune pagine, un capitolo qua e là, l'inizio di questo romanzo, la fine di quello, corrispondono al meglio di qualsiasi epoca o autore. Ma davvero possiamo passare alla posterità con un fastello di pagine sciolte, o chiedere ai lettori del futuro, con tutta la letteratura di fronte a loro, di separare con il setaccio le minuscole perle dai nostri enormi cumuli di spazzatura? Sono queste le domande che i critici potrebbero legittimamente rivolgere ai loro compagni di tavola, i romanzieri e í poeti. [...] Il signor Lawrence, di certo, ha momenti di grandezza, ma ore di qualcosa assai diverso. Il signor Beerbohm, alla sua maniera, è perfetto, ma non è proprio una grande maniera. Alcuni brani di Un mondo lontano passeranno senza alcun dubbio alla posterità nella loro interezza. L' Ulisse è stato una catastrofe memorabile – immenso nell'audacia, terrificante nel disastro. [...] Ma questa è la vita; il discorso è sulla letteratura. E noi dobbiamo tentare di districare l'uno dall'altra, e motivare l'impetuosa ribellione dell'ottimismo contro la superiore plausibilità, la più fine distinzione, del pessimismo. Il nostro ottimismo, dunque, è in gran parte istintivo. Scaturisce dalla bella giornata, dal vino e dalla conversazione; scaturisce dal fatto che quando la vita tira fuori i suoi tesori di ogni giorno, ogni giorno suggerisce più di quanto la persona più loquace possa esprimere, e per quanto ammiriamo i morti, preferiamo la vita così com'è. C'è qualcosa nel presente che non scambieremmo mai, neppure ci venisse offerta una qualsiasi delle epoche passate in cui preferiremmo vivere. E la letteratura moderna, con tutte le sue imperfezioni, ha su di noi la stessa presa e lo stesso fascino. È come un parente che ogni giorno snobbiamo e critichiamo duramente, ma del quale, dopo tutto, non possiamo fare a meno. Ha la stessa attraente qualità di essere ciò che siamo, ciò di cui siamo fatti, ciò in cui viviamo, invece di essere qualcosa, per quanto ammirevole, a noi estraneo e osservato dal di fuori. Né esiste generazione che più della nostra abbia bisogno di prendersi cura dei propri contemporanei. Tra noi e i nostri predecessori esiste una netta separazione. Un cambiamento nella scala – l'improvviso scivolare di masse tenute al loro posto per secoli – ha scosso l'edificio da cima a fondo, rendendoci estranei al passato e forse fin troppo consapevoli del presente. Ogni giorno ci ritroviamo a fare, dire, o pensare cose che non sarebbero state possibili per i nostri padri. E per questo percepiamo le differenze che non sono state notate molto più distintamente delle somiglianze che invece sono state espresse alla perfezione. I nuovi libri ci invitano ad essere letti con la parziale speranza che riflettano questo riassetto del nostro atteggiamento – le scene, i pensieri, e í raggruppamenti di cose incongrue solo in apparenza fortuiti, che si ripercuotono su di noi con un così acuto senso di novità – e, come fa la letteratura, ce lo restituiscano, intero e ben assimilato. Qui c'è davvero da essere ottimisti. Non esiste epoca più ricca della nostra di scrittori determinati a dar voce alle differenze che li separano, piuttosto che alle somiglianze che li legano al passato. [...] Ed eccoci così di nuovo al punto di partenza, vacillanti da un estremo all'altro, per un attimo entusiasti e un istante dopo pessimisti, incapaci di giungere ad una qualsiasi conclusione sui nostri contemporanei. Abbiamo chiesto ai critici di aiutarci, ma hanno declinato il compito. È arrivato allora il momento di accettare il loro consiglio e correggere questi estremi consultando i capolavori del passato. Verso i quali in realtà ci sentiamo attratti non tanto da una serena valutazione, quanto da una sorta di bisogno impellente di ancorare la nostra instabilità alla loro sicurezza. Sinceramente però, lo shock del confronto tra passato e presente è sulle prime sconcertante. Senza dubbio c'è una certa ottusità nei grandi libri. Pagina dopo pagina, in Wordsworth, Scott, e nella signorina Austen c'è una tale imperturbata tranquillità da risultare sedativa al limite della sonnolenza. Càpitano diverse opportunità ed essi non le prendono in considerazione. Si accumulano sfumature e sottigliezze, ma essi le ignorano. Sembra quasi che si rifiutino deliberatamente di appagare quei sensi che i moderni stimolano con tanta sollecitudine: i sensi della vista, dell'udito, del tatto – soprattutto, il senso dell'essere umano, la profondità e la varietà delle sue percezioni, la sua complessità, il suo turbamento, in breve, il suo io. C'è poco di tutto questo nelle opere di Wordsworth, di Scott e di Jane Austen. Da cosa nasce, allora, quel senso di sicurezza che gradualmente, deliziosamente e completamente ci travolge? È la forza della loro fede – la loro convinzione, che si impone su di noi. In Wordsworth, il poeta filosofo, è piuttosto evidente. Ma è altrettanto vero per il trasandato Scott, che scribacchiava capolavori per costruire castelli prima di colazione, e per la riservata signorina che scriveva appartata e silenziosa semplicemente per allietare. In entrambi c'è la medesima innata convinzione che la vita sia di una certa qualità. Hanno il senso di come ci si debba comportare; conoscono i rapporti degli esseri umani gli uni verso gli altri e nei confronti dell'universo. Con molta probabilità nessuno dei due ha minimamente qualcosa da dire sull'argomento, eppure tutto dipende da quello. Basta credere, ci ritroviamo a dire, e tutto il resto verrà da sé. Basta credere – tanto per fare un semplicissimo esempio suggerito dalla recente pubblicazione di Gli Watson – che una brava ragazza cerchi istintivamente di consolare un giovane snobbato ad un ballo, e a quel punto, se ci credete senza dubbi né riserve, non solo cento anni dopo farete provare la stessa cosa agli altri, ma gliela farete provare come letteratura. Perché quel tipo di certezza è la condizione che rende possibile scrivere. Credere che le proprie impressioni siano valide per gli altri significa venir liberati dalla costrizione e dal confino della personalità. Significa essere liberi, come lo era Scott, di esplorare con una forza che ancora ci incanta tutto quel mondo di avventura e di fantasia. Questo è anche il primo passo di quel misterioso processo di cui Jane Austen fu una così grande adepta. Una volta selezionato, creduto e posto fuori di sé, il piccolo granello di esperienza poteva essere messo con esattezza nella sua giusta posizione, e la scrittrice sentirsi libera così di trasformarlo, secondo un processo che mai lascia trapelare i suoi segreti all'analista, in quella enunciazione perfetta che è la letteratura. Dunque, i nostri contemporanei ci affliggono perché hanno smesso di credere. Il più sincero tra loro può al massimo raccontarci quello che gli accade. Non possono creare un mondo, perché non sono indipendenti dagli altri esseri umani. Non possono raccontare storie perché non credono che le storie sono vere. Non possono generalizzare. Possono contare solo sui loro sensi ed emozioni, la cui testimonianza è attendibile, piuttosto che sul loro intelletto, il cui messaggio è oscuro. [...]
Quanto ai critici, il cui compito è quello di
giudicare i libri del momento, lavoro che, ammettiamolo, è difficile, pericoloso
e spesso sgradevole, a loro chiediamo di essere prodighi di
incoraggiamenti, ma parchi di quelle ghirlande
e coroncine che tendono spesso a stare storte,
ad appassire, e a far apparire chi le indossa, nel
giro di sei mesi, alquanto ridicolo. Che abbiano
una visione più ampia, meno personale della
moderna letteratura, e guardino di fatto agli
scrittori come se fossero impegnati nella costruzione di un enorme edificio,
tirato su dallo sforzo comune, i cui singoli lavoratori possono pure restare
anonimi.
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