Copertina
Autore Richard Wrangham
CoautoreDale Peterson
Titolo Maschi bestiali
SottotitoloBasi biologiche della violenza umana
EdizioneMuzzio, Roma, 2005, Nature 15 , pag. 278, ill., cop.fle., dim. 140x210x19 mm , Isbn 978-88-7413-127-3
OriginaleDemonic Males. Apes and the Origins of Human Violence [1996]
CuratoreSimona Petruzzi
TraduttoreEmanuela Luisari
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe biologia , etologia , antropologia , evoluzione
PrimaPagina


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Indice

Introduzione di Enrico Alleva e Francesca Matteucci

1.  Il paradiso perduto 3
2.  La macchina del tempo 27
3.  Le radici 47
4.  I raid 59
5.  Il paradiso immaginato 75
6.  Una questione di temperamento 89
7.  Violenza di relazione 101
8.  Il prezzo della libertà 125
9.  I retaggi 145
10. La grande scimmia gentile 169
11. Messaggio dalle foreste meridionali 187
12. Ammansire il demonio 197
13. Le bambole di Kakama 215


Albero genealogico 221
Mappe 222
Note 225
Bibliografia 239
Ringraziamenti 267
Indice analitico 269

 

 

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Pagina VII

Introduzione


Charles Percy Snow, nel 1959, spiegava dei limiti e della perniciosa separatezza delle Due Culture, quella scientifica e quella "umanistica". Nell'alba storica di questo terzo millennio, le menti migliori si cimentano con la medesima sfida: analizzare fenomeni che nei due-tre secoli scorsi furono patrimonio forse più della filosofia che delle scienze "dure" (essere per natura violenti, le cause prossime e remote delle guerre nella storia dell'umanità, simpatie, empatie e attrazioni etero- e omo-sessuali, e altre amenità sociologiche) utilizzando i metodi derivati dalle discipline fisico-matematiche per arrivare finalmente a studiare fenomeni umani complessi – quel platonico nosce te ipsum che dai primordi della nostra cultura è all'ordine del giorno del pensiero ragionante dell'umanità colta e curiosa. Quella "sindrome di Diogene" che cerca l'uomo, incessantemente e da secoli.

Co-autore di questo libro è Richard Wrangham, docente di Antropologia nell'assai prestigiosa Università di Harvard e attualmente presidente della Società internazionale di primatologia: in altre parole a firmarlo è probabilmente il più autorevole e illustre "scimmiologo" oggi operante nella comunità scientifica. Uno scienziato che trascorre lunghi periodi in quelle giungle dove, a saperlo fare – e vi assicuriamo che non è affatto facile! – si riesce a cogliere qualche raro comportamento in natura delle scimmie antropomorfe. (Ma bisogna sopportare pulci sotto i calzettoni, e qualche sanguisuga annidata nell'ombelico.) Quegli scimpanzé, bonobo, gorilla, oranghi (orang uthan significa in Borneo "uomo della foresta", terminologia che dimostra bene come i locali "tagliatori di teste" considerino loro fratelli naturali questi rossicci e ragniformi scimmioni) così simili alla specie umana e che popolano questo libro proprio perché specchi di quanto di "darwinianamente" naturale sia riscontrabile nel comportamento di noi esseri umani.

Ma fino a che punto possiamo riconoscerci nelle altre scimmie antropomorfe, ovvero quanto di "innato" c'è davvero nel nostro comportamento? Non a caso il libro si sofferma su un fenomeno vituperabilmente orribile come lo stupro di un maschio su una meno muscolosa femmina: perché se questo fenomeno fosse (sbagliando di grosso!) spiegato come una tendenza innata – e magari perciò non del tutto volontaria – a inseminare con i propri geni un utero ricettivo, allora violentare una donna potrebbe non essere atto così riprovevole. Ed è da queste visioni riduzioniste, sessiste, reazionarie che la biologia darwiniana deve tenersi distante. Questo libro, leggiadramente, tenta di farlo.

Θ proprio stato scritto per capire quanto è delicato il confine tra visioni caricaturali dell'istintualità umana che però risultano scusanti per atti socialmente esecrabili. Lo stupro non è una tattica di fecondazione, è un atto volontario, deliberato, penalmente assai rilevante.

La violenza e la guerra sono altri fenomeni su cui è intessuto il ragionamento darwiniano di questo libro. Ovviamente sono temi caldi, caldamente attuali quando ci si trova a voler spiegare la spontanea, irrazionale violenza del tifoso che ferisce l'avversario, o il calciatore dell'"altra" squadra, o assale l'arbitro e che sfascia con ferocia auto e semafori; o vuole comprendere per vie biologiche quei fenomeni di guerriglia endemica che sembrano "iscritti" nel genotipo culturale di alcune popolazioni povere del pianeta Terra: quelle che però vivono dove diamanti, petroli e ori attirano esterofile avidità.

Nel libro Gauguin, Melville e Darwin – ma anche Michelangelo, col suo David – si affiancano a storie di sesso tra guerriere Dahomey, che proprio trasformandosi in soldati crudeli sarebbero rinate uomini; e che vivevano l'infibulazione del clitoride come guerresca riduzione della naturale libido femminile e forse negazione di una ben più utile maternità.

Qualcuno rimprovererà al libro un certo sottile biologismo, qualcun altro leggerà tra le righe un eccessivo utilizzo di esempi tratti da popolazioni "primitive" e messi accanto a comportamenti di scimmie — peccato comune a molti antropologi fisici e culturali e storica autopenalizzazione di quella contestata disciplina di solito intesa come "etologia umana". Ma questo libro è stato celebrato alla sua primigenia uscita (nel 1996) come una sorprendente novità intellettuale. Ed è ancora un libro ampiamente – utilmente – provocatorio.

Come il celebrato saggio Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond (Einaudi 2000), si iscrive in un filone terzomillenista che vuole edificare un ponte robusto tra discipline scientifiche e mondo delle humanities sociologiche e socioculturali.

In questa chiave di scurrile provocazione, per stuzzicare il dibattito nazionale in era post-crociana, lo proponiamo al lettore italiano: è un libro che ci fa riflettere su di noi, sulla nostra intrinseca attitudine ad atti violenti, sulle eventuali basi biologiche dei nostri desideri sessuali e sulla storia dei tabù culturali che hanno saputo, ma non sempre, arginarli.

Enrico Alleva e Francesca Matteucci

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Pagina 6

Il 7 gennaio 1974, all'incirca vent'anni prima del nostro viaggio nello Zaire, in Tanzania, al Gombe National Park, un gruppo di otto scimpanzé si stava spostando intenzionalmente a sud, verso i confini del suo home range. Era un gruppo agguerrito: sette maschi, sei dei quali adulti e un adolescente. Con loro c'era anche il maschio alfa, Figan. E c'era pure il suo rivale, Humphrey. Gigi era l'unica femmina. Senza figli, robusta, non rallentava la marcia dei maschi.

Mentre erano in cammino, udirono dietro di loro i richiami della comunità vicina, ma non emisero grida di risposta. Al contrario, mantennero un insolito silenzio e sveltirono il passo. Raggiunta l'area periferica del loro home range non si fermarono e presto la oltrepassarono, muovendosi in assoluto silenzio nel territorio dei loro confinanti. Hillali Madama, un'assistente di campo di Jane Goodall del centro ricerche di Gombe, li stava seguendo.

Nel territorio confinante, Godi stava tranquillamente mangiando da solo su un albero. Godi era un maschio ordinario: un giovane di circa ventun anni, membro della comunità di scimpanzé di Kahama in cui vivevano altri sei maschi, e le grida che prima aveva udito gli indicavano dove fossero alcuni dei suoi compagni. Spesso si spostavano tutti insieme. Ma quel giorno Godi aveva scelto di mangiare da solo. Un errore.

Quando si accorse degli otto intrusi, questi erano ormai giunti sotto l'albero. Saltò giù e si mise a correre, ma i suoi inseguitori gli si precipitarono dietro, i primi tre fianco a fianco. Humphrey fu il primo ad assalirlo afferrandogli una gamba. Godi, sbilanciato, cadde. Humphrey gli saltò addosso. Lo immobilizzò bloccandolo, come fa un lottatore, appoggiandosi sopra con i suoi 50 chili e tenendogli fermi gli arti superiori. Godi giaceva inerme, la faccia nella polvere.

Mentre Humphrey lo teneva, gli altri maschi attaccarono. Erano estremamente eccitati, urlavano e caricavano. Hugo, il più anziano, azzannava Godi con i denti consumati fin quasi alle gengive. Gli altri maschi adulti gli tiravano pugni sulle scapole e alla schiena, mentre l'adolescente osservava la scena a distanza. La femmina, Gigi, gridava girando attorno agli attaccanti. (Immaginate di essere malmenati da cinque pugili pesi massimi e avrete un'idea di come si sentisse Godi. Test di misurazione hanno dimostrato che gli scimpanzé, anche in cattività e in condizioni fisiche non buone, sono quattro o cinque volte più forti di un atleta umano in perfetta forma).

Dieci minuti più tardi Humphrey mollò le gambe di Godi. Gli altri smisero di pestarlo. Godi giaceva con la testa nel fango; gli scagliarono addosso una grossa pietra. Poi, ancora eccitatissimi, si addentrarono nel territorio di Kahama, urlando e caricando. Dopo pochi minuti tornarono indietro, verso il loro territorio. Godi, sollevandosi a fatica da terra, gridando per il terrore e l'angoscia, vide i suoi torturatori andarsene. Aveva orribile ferite sulla faccia, sul corpo e sugli arti. Era stato malmenato pesantemente. Aveva dozzine di tagli e squarci sanguinanti.

Non è stato mai più visto. Θ possibile che abbia vissuto ancora per qualche giorno, o qualche settimana. Ma sicuramente è morto.

L'attacco a Godi fu il primo. Certamente non la prima volta che degli scimpanzé facevano un raid all'interno del territorio confinante per attaccare un nemico – ma di sicuro la prima volta che un osservatore umano li vedeva in azione. Θ il primo caso documentato di incursione mortale fra scimpanzé, e per gli osservatori di scimpanzé e gli studiosi di animali in generale, questo evento toccò una corda fondamentale.

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Pagina 21

L'idea della scimmia antropomorfa assassina fa parte della nostra cultura da molto tempo: Tarzan dovette fuggire dalle scimmie antropomorfe malvage, King Kong era un mostro assassino dall'aspetto di gorilla. Ma prima delle osservazioni di Kahama, pochi biologi avevano preso seriamente in considerazione l'idea. Per una semplice ragione. Le prove di animali assassini di membri della propria specie erano talmente scarse da indurre i biologi a ritenere che tali episodi succedessero solo quando qualcosa andava storto – un incidente, o a causa di un innaturale affollamento negli zoo. L'idea si accordava con le teorie sul comportamento animale allora preminenti, secondo cui il comportamento animale era progettato dall'evoluzione per un mutuo vantaggio. Si supponeva che la selezione naturale darwiniana fosse un filtro per eliminare la violenza omicida. Fino agli anni Settanta, per la maggior parte degli scienziati l'assassinio tra le scimmie antropomorfe come in qualsiasi specie animale, era solamente una fantasia da romanzo.

E così il comportamento degli uomini appariva molto diverso da quello degli altri animali. L'assassinio, ovviamente, è il tipico risultato delle guerre umane e si supponeva che gli esseri umani in qualche modo avessero infranto le regole della natura. Ma la guerra deve pur essersi originata da qualche parte. Dall'evoluzione del cervello, per esempio, che diventò abbastanza intelligente da pensare di utilizzare degli strumenti come armi, come sostiene Konrad Lorenz nel suo famoso libro, L'aggressività, pubblicato nel 1963.

Qualunque fosse la sua origine, in generale la guerra era considerata una caratteristica umana. Combattere le guerre significava essere un umano, e al di fuori della natura. Questa diffusa supposizione valeva anche per teorie non scientifiche, come il concetto biblico di una colpa originale che portò gli esseri umani fuori dall'Eden, oppure quella secondo cui il guerreggiare era un'idea instillata dagli alieni, come immaginava Arthur C. Clarke in 2001 Odissea nello spazio. Nella scienza, nella religione, nella fantascienza, la violenza e l'essere umano erano parenti stretti.

Le uccisioni di Kahama sono state dunque traumatizzanti, ma sono servite anche da stimolo per pensare. Hanno minato la convinzione che la violenza estrema sia un attributo unicamente umano, come lo sono la cultura, il potere del cervello o il castigo da parte di un dio incollerito. Hanno reso credibile l'idea che la nostra inclinazione bellicosa risalga al nostro passato preumano. Ci hanno resi un po' meno speciali.

Eppure la scienza non è ancora riuscita a rispondere alle domande fondamentali sorte con le uccisioni di Kahama: da dove viene la violenza umana, e perché? Naturalmente si sono fatti grandi progressi nel modo di pensare questi temi. Negli anni Settanta, lo stesso decennio in cui si verificarono le uccisioni di Kahama, è emersa una nuova teoria evolutiva concernente la selezione naturale, la teoria del gene egoista, chiamata in vari altri modi: teoria della fitness inclusiva, sociobiologia o, più in generale, ecologia comportamentale. Una teoria che ha rivoluzionato il pensiero darwiniano, insistendo sul fatto che la spiegazione ultima del comportamento di tutti gli individui sta nel massimizzare il successo genetico: passare i geni individuali alle generazioni successive. La nuova teoria, elegantemente divulgata da Richard Dawkins nel libro Il gene egoista, è ora comunemente accettata in biologia poiché spiega molto bene il comportamento animale. Giustifica l'egoismo, perfino le uccisioni. E viene applicata con sempre maggior sicurezza al comportamento umano, sebbene il dibattito sia tuttora animato e irrisolto. In ogni caso, il principio generale che il comportamento evolva a fini egoistici è stato ampiamente accettato; e l'idea che gli esseri umani possano essere stati favoriti dalla selezione naturale a odiare e uccidere i propri nemici è diventata assolutamente, anche se tragicamente, ragionevole.

Questi sono i principi generali, ma mancano ancora i dettagli. La maggior parte degli animali non è violenta quanto gli uomini, allora perché un comportamento così violento si è evoluto in particolare nella stirpe umana? Perché uccidere il nemico, invece di cacciarlo semplicemente via? Perché stuprare? Perché torturare e mutilare? Perché questi pattern sono presenti in noi e negli scimpanzé? Domande che sono state sollevate di rado e ancor più raramente rivolte a qualcuno.

Visto che scimpanzé e umani sono parenti stretti, questo genere di domande ha implicazioni singolari, soprattutto perché lo studio dei nostri antenati sta avvicinando gli uomini e gli scimpanzé più di quanto immaginassimo. Tre importanti scoperte recenti ci parlano della relazione tra noi e gli scimpanzé, e tutte e tre puntano nella stessa direzione: a un passato, 5 milioni di anni fa circa, quando gli antenati degli scimpanzé e degli uomini erano indistinguibili.

La prima: fossili scoperti di recente in Etiopia indicano che oltre 4,5 milioni di anni fa sul suolo africano camminava un bipede antenato dell'uomo con la testa straordinariamente simile a quella dello scimpanzé.

La seconda: nell'ultimo decennio in diverse parti del mondo sono state effettuate prove di laboratorio che hanno dimostrato come gli scimpanzé siano geneticamente più simili a noi di quanto non lo siano perfino ai gorilla, nonostante le somiglianze fisiche fra loro.

La terza: studi sul comportamento degli scimpanzé, sia sul campo sia in laboratorio, hanno prodotto numerosi ed evidenti parallelismi con il comportamento umano. Non solo perché queste scimmie antropomorfe si prendono la mano per dimostrare affetto, si baciano o si abbracciano. Non solo perché vanno in menopausa, sviluppano amicizie durevoli e dimostrano sofferenza per la morte dei loro piccoli trasportandoli per giorni o settimane. E neanche per la loro abilità nel fare somme come 5 + 4, o perché comunicano con gesti, o perché si servono di strumenti, sono collaborativi o barattano i favori sessuali. E nemmeno perché sono capaci di invidie durature, nascondendo deliberatamente i sentimenti, o perché costringono due competitori a fare la pace.

Secondo noi la serie di fatti più interessante sul comportamento degli scimpanzé è quella di cui abbiamo già parlato: la natura della loro società. Il mondo sociale degli scimpanzé è costituito da un gruppo di individui che condividono un territorio comune, con i maschi che vivono tutta la vita nel gruppo in cui sono nati, mentre le femmine nel periodo dell'adolescenza si spostano nei gruppi confinanti, il territorio viene difeso e a volte viene ampliato da gruppi di maschi legati da una parentela geneticamente patrilineare che usano l'aggressività e la violenza potenzialmente letale.

Θ la comparazione a rendere il loro mondo sociale così straordinario. Sono rari gli animali che vivono in comunità patrilineari, a vincolo maschile, dove le femmine riducono i rischi di accoppiamenti tra consanguinei spostandosi nei gruppi confinanti per la riproduzione. Si conoscono solo due specie animali che lo fanno usando il sistema di un'intensa aggressività territoriale maschile, con incursioni letali nelle comunità confinanti in cerca di nemici vulnerabili da attaccare e uccidere. Fra quattromila mammiferi e dieci milioni o più di altre specie animali esistenti, quest'insieme di comportamenti è conosciuto solo negli scimpanzé e negli umani.

Gli esseri umani sono organizzati in gruppi patrilineari a vincolo maschile? Certamente. Per vincolo maschile si intende maschi che formano coalizioni aggressive di aiuto reciproco contro altri – gli Hatfields contro i McCoys, i Montecchi contro i Capuleti, i palestinesi contro gli israeliani, gli americani contro i vietcong, i Tutsi contro gli Hutu. In tutto il mondo, dai Balcani agli Yanomamφ del Venezuela, dai pigmei dell'Africa centrale alla dinastia cinese T'ang, dagli aborigeni australiani ai regni hawaiani: uomini imparentati, che abitualmente combattono in difesa del proprio gruppo. Questo vale anche per i villaggi etichettati dagli antropologi come "matrilineari" e "matrilocali," dove l'ereditarietà (da maschio a maschio) è calcolata secondo la linea materna, e dove le donne rimangono e fanno i figli nei villaggi nativi: questi villaggi funzionano socialmente come subunità di un più ampio insieme patrilineare. In breve, il sistema di comunità difeso da uomini imparentati è un universo umano che attraversa spazio e tempo, stabilendo così un pattern che perfino gli scrittori di fantascienza raramente osano sfidare.

Quando però si arriva a relazioni sociali che coinvolgono le femmine, scimpanzé e uomini sono molto diversi. Non è sorprendente. Le scoperte riguardanti il comportamento animale fatte fin dagli anni Sessanta, indicano che le società animali si adattano finemente ai loro ambienti, e ovviamente lo studio degli ambienti degli sermpanze e degli esser umani rivela grandi differenze. Ma questo non fa altro che ingigantire l'enigma. Perché scimpanzé e umani dovrebbero esibire pattern simili?

Θ un caso? Forse i nostri antenati vivevano in società completamente diverse da quelle degli scimpanzé. Magari erano matriarcati pacifici, relativamente simili a quelli di alcune scimmie nostre lontane parenti. E poi, per qualche strana coincidenza evolutiva, in un momento della preistoria i comportamenti sociali degli umani e degli scimpanzé conversero in sistemi simili per ragioni diverse, non correlate.

Oppure dipende da altre caratteristiche, come l'intelligenza? Una volta che i cervelli raggiungono un certo livello di sofisticazione, esiste qualche misteriosa logica che spinge una specie verso la violenza basata sulla coalizione maschile? Forse solo gli scimpanzé e gli umani hanno una capacità intellettiva sufficiente per comprendere il vantaggio di eliminare gli avversari.

Oppure vi è un'inerzia evolutiva di lungo termine? Forse gli umani hanno conservato un vecchio pattern degli scimpanzé che, sebbene una volta fosse adattativo, ha poi acquisito stabilità e vita propria e che resiste perfino negli ambienti moderni, in cui andrebbero meglio altre forme di società.

Oppure, come siamo convinti, le somiglianze esistono perché, malgrado le prime apparenze, nella linea umana e in quella degli scimpanzé continuano a lavorare forze evolutive simili, che mantengono e affinano un sistema di ostilità fra gruppi e di violenza personale che esisteva perfino prima che gli antenati degli scimpanzé e degli umani si accoppiassero per l'ultima volta in una foresta inaridita dell'Africa orientale, all'incirca 5 milioni di anni fa? Se così è, allora, di quali forze si tratta? Cosa ha generato vincoli maschili e raid letali nei nostri progenitori e cosa li mantiene ancor oggi negli scimpanzé e negli umani? Quali impronte hanno lasciato nella nostra psiche attuale queste antiche forze evolutive? E cosa ci possono dire sulle speranze e sui timori per il futuro?

Questi avvincenti problemi sono il fulcro del libro. Ma una scoperta strana e stupefacente degli ultimi due decenni li ha resi ancor più interessanti. Abbiamo visto che gli scimpanzé e gli umani condividono fra loro, ma non con altre specie, un pattern notevolmente violento di aggressività letale intergruppo ad opera dei maschi contro le comunità confinanti e sappiamo che una spiegazione possibile è l'inerzia evolutiva. Come mostreremo nei capitoli successivi, lo stesso è valido per altri pattern di violenza, come lo stupro e il maltrattamento. Un fatto decisivo però demolisce la teoria che scimpanzé e umani condividano questo retaggio orrendo solamente per aver condiviso un antenato comune che una volta si comportava nello stesso modo. Sappiamo che l'inerzia non può spiegare le analogie, perché gli scimpanzé hanno una specie sorella: il bonobo, detto anche scimpanzé pigmeo. Entrambi, bonobo e scimpanzé, si sono evoluti dal medesimo antenato che diede origine all'uomo, eppure il bonobo è una delle specie di mammiferi più pacifiche e non aggressive che vivano oggi sulla terra.

I bonobo sono cruciali per il punto di vista che svilupperemo nel libro e sono affascinanti in particolare per le loro straordinarie femmine, per diverse ragioni più simili all'essere umano delle femmine di scimpanzé. I bonobo sono in antitesi con gli scimpanzé e ci offrono un'idea di animale completamente diversa da qualsiasi altra cui eravamo abituati in passato. Hanno sviluppato modi per limitare la violenza che permea tutta la loro società. Molto più chiaramente di qualsiasi teoria, ci mostrano come la logica che collega gli scimpanzé agli umani in una danza di violenza evolutiva non sia inesorabile.

Tuttavia i bonobo sono comparsi tardi nel programma evolutivo proprio come sono comparsi tardivamente nella scienza occidentale, e come appariranno tardi anche nel libro. Per capire come i bonobo abbiano modificato il sistema, dobbiamo prima comprenderlo. Nell'esplorare i pattern condivisi da scimpanzé e umani, bisogna tener presente che il lato oscuro alla fine si illuminerà grazie a una strana specie che settanta anni fa nemmeno conoscevamo e che è stata osservata per la prima volta solo ventidue anni fa.

Per adesso, nel nostro prossimo viaggio dal passato al presente, percorreremo un terreno più familiare. Tutti sappiamo cosa sono gli scimpanzé. Sono una specie talmente simile a noi che su di loro testiamo i vaccini per uso umano, verifichiamo la sicurezza dei voli spaziali e con loro ci facciamo fotografare per divertimento. I nostri parenti più prossimi. Cosa vuol dire? Quanto sono prossimi?

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Pagina 27

2. La macchina del tempo


Aristotele è stato l'unico grande filosofo ad essere anche un biologo, per cui è giusto che inizi tutto da lui.

Nel quarto secolo a.C., Aristotele dissezionò alcune bertucce (una specie di scimmie non antropomorfe prive di coda) e notò una straordinaria corrispondenza tra l'anatomia di quelle scimmie e quella umana. Da lì iniziò una linea d'indagine, proseguita in maniera discontinua fino ai giorni nostri, che lentamente ha gettato una rete sulla relazione tra gli umani e gli altri primati, e alla fine ha portato la scienza a focalizzarsi su una grande scimmia dal pelo rosso, l'orango del Sud-Est asiatico, e su tre africane dal pelo nero, il gorilla, lo scimpanzé e il bonobo. Aristotele chiamò le bertucce "scimmie antropomorfe". Ma le vere scimmie antropomorfe, le quattro specie di grandi scimmie, sono state scoperte dal mondo occidentale solo due millenni dopo Aristotele. Esse sono straordinariamente più simili agli umani di quanto non lo siano le bertucce. Questa indiscutibile similarità ha spinto la gente a domandarsi se le grandi scimmie siano nostre parenti dirette, se i nostri antenati assomigliassero e si comportassero come loro, e in che modo possano dirci da dove veniamo.

Fin dai tempi di Darwin, l'interesse nei loro confronti e le domande che ne conseguivano hanno messo la scienza in subbuglio. Alcune erano dirette al lontano passato, tanto che è divenuto luogo comune pensare che gli umani si siano evoluti da scimmie antropomorfe antenate, sebbene scomparse da lungo tempo. Ma questo quadro non ha mai soddisfatto, perché non ci aiuta molto a capire da dove arriviamo. Le grandi scimmie erano un gruppo di specie, la linea ominide un'altra. Sembrava che i due gruppi fossero separati da così tanti milioni di anni, forse 10 o 15, che il senso delle nostre origini comuni siperdeva nel tempo. E le analogie comportamentali tra umani e qualsiasi particolare specie di scimmia antropomorfa moderna, come lo scimpanzé o il gorilla, non significavano nulla di particolare. Erano questioni interessanti e vagamente suggestive, perché insinuavano quello che poteva essere stato. Ricordo lo strano senso di frustrazione che fino a poco tempo fa aleggiava intorno alle discussioni dei ricercatori che studiavano le grandi scimmie. Potevamo elencare le analogie tra scimpanzé e uomini, dire: "Che strano!", ma poi non sapevamo come proseguire. Certo, le grandi scimmie erano i nostri parenti più stretti. Tuttavia sembravano imparentate con noi troppo alla lontana per dirci qualcosa di specifico sulle nostre origini e sul nostro viaggio evolutivo.

Fino al 1984 era tutto ciò che sapevamo.

Poi una affermazione radicale di due biologi di Yale, Charles Sibley e Jon Ahlquist sconquassò il mondo. I risultati, a cui erano arrivati con le analisi del DNA, collocavano, a quanto dicevano, gli esseri umani proprio dentro il gruppo delle grandi scimmie. Questa idea straordinaria, se vera, demolirebbe il concetto che le scimmie antropomorfe abbiano un loro gruppo distinto, separato da quello umano da un ampio spazio biologico ed evolutivo. Se le grandi scimmie sono un gruppo naturale, come ammettiamo senza alcun dubbio, allora secondo l'affermazione di Sibley e Ahlquist noi saremmo la quinta grande scimmia! O, più precisamente, la terza, con le altre quattro ai lati. Immaginate la foto: cinque coppie, un maschio e una femmina per coppia, di scimmie antropomorfe, oranghi e gorilla da un lato, scimpanzé, bonobo dall'altro, e noi umani al centro, felici in mezzo ai nostri cugini.

Volendo si potrebbe dire che questa nuova disposizione non è altro che un falso, uno scherzo. Perché, comunque sia, non cambia il fatto che le altre grandi scimmie sono pelose, hanno la bocca grande e in confronto all' Homo sapiens sono terribilmente primitive. Ma per una ragione ben precisa questo nuovo concetto, cioè che gli esseri umani siano inseriti nel gruppo delle grandi scimmie, stravolge l'idea di essere separati dal mondo animale. La nuova teoria sulla parentela ci rimanda ai fossili e alle grandi scimmie viventi per esaminare una volta ancora l'intero puzzle delle analogie e delle diversità. E questa volta, con l'aiuto della nuova prospettiva fornita dalla genetica moderna, il quadro che ne esce è chiaro, sorprendente. Improvvisamente scopriamo che ci siamo separati dalle grandi scimmie molto più di recente di quanto credessimo in precedenza. E aiutati dalla nuova cronologia, con lo sguardo rivolto ancora una volta alle altre grandi scimmie, adesso scopriamo che gli umani non discendono da un antenato scomparso da lungo tempo e che ci unisce solo in modo remoto e irrealistico alle nostre cugine grandi scimmie odierne. Ciò che risulta dalla ricerca sul nostro antico antenato è un'immagine assai familiare e incredibilmente simile a qualcosa che conosciamo del mondo contemporaneo: uno scimpanzé di oggi, che vive e che respira.

Questa l'affermazione. I dati ricavati dai fossili, dai geni e dalle grandi scimmie viventi, combinati, ci forniscono un modo per guardare indietro, per immaginare il passato con vivida chiarezza. E contro tutte le nostre recenti intuizioni, forniscono un nesso per dirci a cosa assomigliavamo 5 milioni di anni fa, quando lasciammo le foreste africane e iniziammo il viaggio verso l'umanità. Ci forniscono una macchina del tempo.


Disidratati dal caldo secco, vivendo nelle ostili regioni desertiche, in luridi accampamenti provvisori, alla ricerca della verità e della gloria, i paleontologi sono stati fortunati, perché le testimonianze fossili degli antenati degli esseri umani degli ultimi 4,5 milioni di anni sono tra le migliori mai trovate. Sono talmente chiare, infatti, che perfino i creazionisti ormai accettano i fatti basilari. Tutti concordano nel ritenere che alcuni fossili sono più antichi di altri, e che in quelli più antichi (che gli evoluzionisti datano da 1,5 a 4,4 milioni di anni) le caratteristiche umane sono combinate con quelle della scimmia antropomorfa.

Le testimonianze sono talmente evidenti che non è più il caso di metterle in discussione.

Prendiamo l' Australopithecus afarensis, la famosa "Lucy". I resti fossili del tipo di quelli di Lucy scoperti nel nord-est africano sono datati da 3 a 3,8 milioni di anni. Si trattava di una delle specie di un gruppo vittorioso, quello delle australopitecine o grandi scimmie dei boschi, come le chiameremo, che comparvero circa 5 milioni di anni fa e sopravvissero 4 milioni di anni circa. I loro corpi avevano le dimensioni degli scimpanzé moderni. Avevano il cervello, la bocca e probabilmente l'intestino grandi come quelli delle grandi scimmie. Le mani, le spalle e la parte superiore del corpo dimostravano che erano abili scalatori e che probabilmente potevano stare a penzoloni tenendosi con una sola mano come le grandi scimmie moderne. Eppure, per diversi motivi, non assomigliavano alle grandi scimmie di oggi. La struttura dei piedi, delle gambe e delle anche mostrano che senza dubbio camminavano eretti bene quanto noi. Nemmeno i denti erano come quelli delle grandi scimmie. I molari, in particolare, erano molto più grossi di quelli umani o di quelli delle grandi scimmie, sebbene fossero ricoperti da uno strato di smalto spesso, come quelli umani, mentre negli scimpanzé e nei gorilla lo strato dello smalto è sottile. Parte superiore del corpo, cervello, bocca e addome come le grandi scimmie. Gambe, bacino e denti smaltati come gli umani. Un miscuglio vero e proprio.

Queste grandi scimmie, forse sei o più specie, vissero nelle boscaglie africane per 4 milioni di anni circa. A grandi linee, la loro storia è la nostra preistoria, che si protrae verso il presente anche dopo il periodo in cui – circa 2 milioni di anni fa – il cervello di una specie di grande scimmia dei boschi crebbe in dimensioni, convertendola in una creatura con i primi bagliori di umanità.

E noi vogliamo sapere il più possibile sulla vita e la provenienza di queste australopitecine. Sembrerà strano, ma un buon inizio è osservare le grandi scimmie viventi.

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Per un animale è naturale cercare di uccidere un individuo della stessa specie? Certamente è insolito per gli adulti uccidere altri adulti. Come abbiamo visto in precedenza, di solito i combattimenti tra adulti finiscono con la vittoria di uno dei due: non continuano fino alla morte. Θ questo che rende i raid letali degli scimpanzé e degli uomini un enigma interessante. Ma se si osserva con maggior attenzione la natura, ci si accorge che l'uccisione di per sé non è insolita. In molte specie, l'uccisione dei piccoli è una routine; è l'uccisione di un adulto a essere rara. Sono poche le specie che fanno eccezione, i leoni, i lupi e le iene macchiate. Come gli scimpanzé, in determinate circostanze puniscono l'adulto competitore con la morte. Eppure ci sono importanti differenze tra queste specie. Negli scimpanzé e negli esseri umani l'uccisione è predominio maschile e caratterizzata da incursioni; nei leoni è predominio dei maschi che partecipano al controllo, non alle incursioni; mentre le iene macchiate non uccidono nei raid e sono le bande di femmine a dare inizio alle uccisioni. Il quadro si fa subito più complicato. Ma è comunque possibile trovare elementi in comune che aiutino a rispondere alla domanda principale del problema delle grandi scimmie. Cosa rende alcune specie deliberati killer del proprio genere?

Negli anni Sessanta le nostre conoscenze sugli animali furono rivoluzionate dal crescente numero di persone che invece di fare congetture cominciò a osservare come vivono gli animali in natura. Le grandi scimmie sono solamente un minuscolo sottoinsieme di animali il cui comportamento ci è divenuto familiare. Negli ultimi decenni delle specie più grandi ne sono state studiate talmente tante, che ormai è difficile per uno studente ambizioso trovare un cosiddetto megavertebrato carismatico sul cui sistema sociale non siano state fatte ricerche per almeno un anno. Dopo tanti anni di osservazione, la nostra opinione sul ruolo della violenza in natura è cambiata radicalmente. Sappiamo che gli animali sanno manipolarsi, ingannarsi, attaccarsi e sfidarsi in modi che prima della rivoluzione nelle osservazioni comportamentali si potevano solo supporre. Anche eventi rari che magari si verificano solo una volta nel corso della vita di un animale, adesso fanno parte della dottrina scientifica. E grazie a tutti questi anni di osservazioni, sappiamo che per molte specie l'infanticidio è una parte fondamentale della vita.

Negli anni Sessanta, quando per la prima volta fu osservato l'infanticidio tra le scimmie, la scienza convenzionale lo considerò un fatto anomalo – un incidente forse, o il risultato dell'interferenza umana. Ci sono stati tempi ingenui in cui eminenti scienziati come il premio Nobel Konrad Lorenz, potevano affermare che gli animali ben adattati, non si uccidevano tra loro. In particolare, per gli antropologi era allarmante il concetto che un atto aberrante come l'infanticidio facesse parte del normale funzionamento della natura; l'infanticidio animale andava contro l'idea del gruppo che evolve per il bene sociale. Ma la nuova fase dell'evoluzionismo, iniziata negli anni Sessanta, rivelava che l'infanticidio dei maschi di scimmia era un comportamento che avvantaggiava il killer accrescendo il suo personale successo riproduttivo, indipendentemente dall'effetto che aveva sugli altri.

In principio, l'idea che l'infanticidio avesse un senso nelle società animali fu bollata come reazionaria. Le campane dell'antropologia suonarono a battaglia tra la vecchia e la nuova guardia. Adesso che il polverone si è posato, sappiamo che l'infanticidio è un comportamento tipico di certe specie all'interno di tutti i maggiori gruppi di animali. Si verifica tra i pesci, gli uccelli e gli insetti. Nei mammiferi, l'infanticidio imperversa tra i roditori, i carnivori e i primati. E non è tutto: le ossa fossili di un cucciolo di dinosauro trovate all'interno della cassa toracica di un dinosauro adulto fanno pensare che anche i dinosauri, 220 milioni di anni fa, lo praticassero. A seconda delle specie, i killer tipici possono essere maschi o femmine, adulti o immaturi. E i benefici evolutivi sono vari: dall'utilizzare il cucciolo come cibo all'accelerazione delle disponibilità sessuali della madre. Lungi dall'essere anormale, l'infanticidio per gli animali è routine.

I leoni che vivono negli spazi aperti possono essere osservati per giorni. Sono soggetti perfetti per studiare gli eventi rari, perché imparano presto a tollerare la vicinanza dei veicoli. Nel 1988 nel parco nazionale del Serengeti, in Tanzania, una troupe cinematografica inglese seguì due leoni maschi per settimane, nella speranza di riuscire a filmare un infanticidio. Il team sapeva cosa aspettarsi. I leoni maschi si insediano in un branco dopo aver sconfitto i maschi dominanti residenti. Poi cercano i loro cuccioli e li uccidono. L'azione dei maschi intrappola le madri, poiché più esse ritardano a tornare fertili, adesso che il cucciolo lattante è morto, più diminuiscono le probabilità di trasmettere i loro geni. E siccome è la selezione naturale e non l'etica umana a plasmare le sue emozioni, la leonessa sfida il nostro senso della morale accettando la perdita del suo cucciolo e facendo subito la civetta con i maschi killer. Entro pochi giorni seduce i nuovi maschi, usando i movimenti della sua coda e strofinandosi con il corpo come fa un gatto domestico al colmo della felicità. E dopo qualche mese nasce la nuova prole. In questo modo contribuisce involontariamente al ciclo evoluto della violenza maschile, perché la sua strategia riproduttiva, prendendo il meglio dal peggio, dal punto di vista genetico premia i maschi infanticidi. Nel Serengeti, un quarto di tutti i cuccioli viene sacrificato sull'altare dell'egoismo maschile infanticida.

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Nell'introdurci nel mondo sociale dei bonobo, pensiamo a loro come a scimpanzé che hanno trovato tre vie verso la pace: hanno ridotto il livello di violenza nei rapporti tra i sessi, nei rapporti tra i maschi e nei rapporti tra le comunità.


In particolare, i maschi, come trattano le femmine? Le prove sono chiare. Tra i bonobo non è mai stata documenta una copulazione forzata, un maltrattamento di femmine adulte o un infanticidio.

In apparenza, i bonobo hanno una vita sociale molto simile a quella degli scimpanzé, vivono in comunità, si dividono un home range con ottanta o più individui, si muovono all'interno dell'home range della comunità in associazioni temporanee di dimensioni variabili, vivono in gruppi a discendenza maschile e difendono il loro territorio dai maschi estranei. Altro fatto importante, nei bonobo le dimensioni dei maschi e delle femmine sono le stesse degli scimpanzé. Perché allora i bonobo maschi non esercitano il loro potere fisico sulle femmine, come fanno gli scimpanzé? La risposta ci porta proprio al cuore della società dei bonobo.

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I dati di Wamba indicano dunque che tra i bonobo il potere delle femmine è il segreto della gentilezza maschile. Tuttavia le femmine non fanno valere spesso il loro potere. Occasionalmente un maschio può andare in collera e attaccare una femmina abbastanza duramente da lacerarle un orecchio, per esempio. Ma questi casi, come evidenzia la ricerca di Kano, sono insoliti. Raramente i maschi attaccano le femmine (la metà delle volte in cui si attaccano tra loro), e quando succede, vengono respinti da una banda di femmine.

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Tutte le osservazioni che abbiamo a disposizione raccontano la medesima storia. Le femmine di bonobo capovolgono la situazione a danno dei maschi. E se i maschi spadroneggiano e diventano troppo aggressivi, vengono frenati dalle femmine. La questione principale dunque è quale sia il legame che rende le femmine così forti da sostenersi l'una con l'altra. Non è la consanguineità. Al riguardo, i bonobo sono come gli scimpanzé: quando una femmina entra nell'adolescenza lascia la sua famiglia, migra verso una nuova comunità e lì si stabilisce. La maggioranza delle femmine con le quali passerà la vita non sono imparentate con lei. No, i legami tra le femmine non nascono dalla parentela ma dall'esperienza. In altre parole, l'adolescente appena arrivata in un gruppo deve lavorare per crearsi una rete di supporto.

Il pattern è stato osservato solo in poche femmine, ma è sorprendente. Le descrizioni più attendibili giungono da Gen'ichi Idani che ha osservato tre femmine adolescenti durante il trasferimento dalla propria comunità al gruppo E di Wamba. Ognuna di loro prese di mira una precisa femmina adulta del gruppo E. Tutte iniziarono a sedersi vicino alla femmina prescelta, in evidente subordinazione ma mostrando un certo interesse. Appena le femmine più anziane mostrarono interesse, avviarono i primi contatti. Nel corso di poche settimane, i contatti fra le coppie divennero più frequenti. Le particolari attenzioni agli sguardi e alle intenzioni della prescelta, l'attendere timidamente un segnale d'amicizia e di contatto... Segnali che ricordano l'innamoramento.

Ovviamente non sappiamo cosa provassero effettivamente le adolescenti, per cui se l'idea di un sentimento romantico non convince, atteniamoci ai fatti. In cosa consistono le loro interazioni amichevoli con le femmine più anziane? Due femmine che stanno sedute vicine e si fanno grooming a vicenda rientrano nella vita ordinaria del primati; tra le femmine di bonobo però c'è qualcosa di più, vi è anche un comportamento romantico. Hanno rapporti sessuali fra loro.

Il termine con cui i ricercatori definiscono il sesso tra le femmine di bonobo, in noi desta qualche turbamento: sfregamento genito-genitale. Eppure il termine sfregamento-GG (come viene abbreviato) non riesce a cogliere lo stato di abbandono e di eccitazione esibito dalle due femmine che lo praticano. Molto meglio usare l'espressione che usano i Mongandu per descrivere questo stupefacente atto: hoka-hoka.

Espongo un caso tipico di hoka-hoka. La femmina adolescente è seduta a guardare l'anziana. Quando quest'ultima ha voglia di fare hoka-hoka e vede che l'adolescente sta aspettando, si sdraia sulla schiena e spalanca le cosce. L'adolescente si avvicina subito e le due si abbracciano. Sdraiate faccia a faccia, le due femmine hanno un rapporto sessuale rapido ed eccitante. I movimenti dei fianchi sono laterali e rapidi mentre avvicinano i loro organi sessuali più sensibili, i clitoridi. Il clitoride dei bonobo è largo (paragonato a quello degli umani o di qualsiasi altra grande scimmia) ed è spostato ventralmente rispetto a quello degli scimpanzé. Kano è convinto che la sua posizione e la sua forma si siano evolute per permettere un hoka-hoka soddisfacente – che termina in modo tipico, con urla reciproche, contrazione degli arti e dei muscoli, e infine il rilassamento. Sembra un orgasmo.

Stando vicine, pulendosi e facendo hoka-hoka, il legame tra l'adolescente e l'adulta diventa più profondo. Dopo pochi mesi, l'adolescente ha un'"amica" – nel senso tecnico di un individuo con il quale ha una relazione particolarmente affettiva. Sviluppando un'amicizia di questo tipo, è cominciata la sua integrazione nella nuova comunità.

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Fra le due specie ci sono anche molte diversità. E tutte raccontano la stessa storia. Mentre i maschi di scimpanzé sono preparati a lottare fieramente e a rischiare per raggiungere la posizione alfa, i bonobo no. I maschi di bonobo non sembrano interessati a diventare capi. Lottano meno di frequente, con minor intensità e hanno comportamenti meno elaborati per prevenire o risolvere le loro disparità. Gli "attacchi" dei maschi di bonobo non sono altro che tipiche esibizioni di vario genere – per lo più cariche – senza contatto fisico. Tra gli scimpanzé, la deposizione di un maschio alfa dal livello gerarchico di massima dominanza può provocare ferimenti gravissimi, mai osservati nelle competizioni dei bonobo. L'aggressività dei bonobo è molto meno seria.

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Gli uomini spesso sono convinti e orgogliosi di essere i migliori amanti fra i primati. Diamo uno sguardo ai bonobo: possono accoppiarsi dozzine di volte al giorno; maschi e femmine si dedicano con passione a rapporti etero e omosessuali; si manipolano a vicenda i genitali con le mani e la bocca; adottano una varietà impressionante di posizioni copulatorie; in proporzione, i genitali dei maschi e delle femmine sono più grandi di quelli degli umani; iniziano ad avere rapporti sessuali molto prima della pubertà, intorno all'anno di età.

Ma nei bonobo il fatto più interessante forse è lo scopo dell'atto sessuale. Molte persone pensano che fosse vero quanto affermava sant'Agostino, che gli umani sono gli unici animali a sfidare "l'inseparabile collegamento... tra i due sensi dell'atto coniugale: il senso unitivo e il senso procreativo". Povero sant'Agostino. Sarebbe dovuto andare a Wamba. I bonobo usano il sesso per molto più che per procreare. Lo usano per fare amicizia. Per calmare qualcuno che è teso. Per riconciliarsi dopo uno sfogo di aggressività. Questi tre pattern sono stati documentati alla perfezione in cattività e le osservazioni in natura indicano che quantomeno i primi due, ma probabilmente tutti e tre, si verificano anche tra gli individui in libertà. Sappiamo che la loro attività sessuale in molti casi non ha nulla a che fare con la riproduzione, se non altro perché spesso hanno rapporti omosessuali o con individui immaturi. Sembra che anche i rapporti eterosessuali tra i bonobo adulti spesso avvengano per ragioni diverse dalla riproduzione. In altre parole, proprio come le persone usano il sesso per approfondire una relazione, per confortarsi, per conoscersi, per non dire per semplice divertimento e godimento, così fanno pure i bonobo.

Una sessualità così varia tra queste scimmie antropomorfe ci sbalordisce e allo stesso tempo porta a domandarci perche si sia evoluta. Ancora una volta, il paragone con gli scimpanzé offre qualche spunto. Quando una femmina di scimpanzé mostra il rigonfiamento genitale mensile, è soggetta agli attacchi dei maschi. Deve schivare le chiassose e pericolose lotte dei maschi che si sfidano. Θ stressata, si nutre poco e può essere ferita. Vulnerabile alla forza maschile, paga a caro prezzo il fatto di essere seducente. Invece le femmine di bonobo sono in grado di controllare i maschi e dunque il loro fascino sessuale non è uno svantaggio ma una forza, in particolare perché, nascondendo il periodo dell'ovulazione, i maschi non sanno con precisione qual è il momento migliore per dar inizio alle competizioni.

La terza via percorsa dai bonobo per vivere in pace è stata l'ultima a essere scoperta ed è la meno compresa. La violenza intercomunitaria è ridotta; alcuni incontri tra individui di comunità diverse sono perfino amichevoli. In verità le associazioni temporanee piccole evitano quelle più numerose e se associazioni temporanee di comunità differenti si incontrano può nascere un conflitto. Ma quando gli incontri tra comunità sono rilassati, allora sono straordinari.

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