Autore Wu Ming
Titolo L'invisibile ovunque
EdizioneEinaudi, Torino, 2015, Stile Libero Big , pag. 204, cop.fle., dim. 13,8x21,6x1,2 cm , Isbn 978-88-06-22591-9
LettoreElisabetta Cavalli, 2015
Classe narrativa italiana , guerra-pace , paesi: Italia: 1900












 

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Pagina 7

1.


I due cacciatori scendevano il sentiero che conduceva a casa della donna. Tutti, da quelle parti, la chiamavano Strolga, cioè astrologa, cioè fattucchiera. Grigia, oscura, rannicchiata all'ombra degli alberi, la casa della Strolga sembrava sorta dalla terra come un fungo. L'aia era polverosa, attrezzi in disordine ovunque, una sedia diroccata proprio in mezzo al cortile. Il gallo non sembrò felice di vederli. Ma era in cattive condizioni: smagrito, spennacchiato, di taglia molto ridotta, le sue proteste si ridussero a uno svolazzo d'ali, polvere e piume e qualche grido di rabbia. Le galline, erano messe anche peggio. Minuscole, grigiastre come la casa.

C'era un pozzo, i due tirarono su il secchio e bevvero da un bricco di metallo legato al manico con un grosso filo di spago. C'era odore di fumo, come avessero bruciato delle foglie aromatiche.

I due, molto giovani, avevano scambiato ben poche parole nel corso della lunga camminata sui monti sopra Luminasio, nell'Appennino bolognese, vicino a una località nota come Panico.

La questione che li spingeva fin li era importante, grave.

Si guardarono negli occhi e il piú basso, vincendo un'esitazione, bussò alla porta.

Il piú alto dei due interrogò l'altro con lo sguardo. - È sorda, - spiegò il piccolo. Batté piú forte e finalmente aprirono.

La donna era avvolta in uno scialle scuro e aveva un fazzoletto in testa. Non appariva certo come si aspettavano. Era alta, robusta, appena curva nelle spalle. Non sembrava nemmeno tanto vecchia. Eppure dicevano che aveva passato gli ottanta.

- Chi siete?

- Cantelli Adelmo, - rispose il piú piccolo.

- Donati Cesario, - rispose il piú grande.

Il piú piccolo spiegò il motivo della visita. La vecchia lo guardò. Gli occhi erano di un grigio profondo, come la casa e tutto il resto.

- Tutti e due? - domandò.

- No, solo io.

- Che stia fuori a badarmi le galline allora, - disse puntando lo sguardo vuoto sul piú alto e sul fucile che portava a tracolla.

La Strolga tirò dentro il piú basso per un braccio e chiuse la porta con forza dietro di sé. Sorda, non lo era affatto.


Gli indicò una sedia, mentre una gallina schizzava sotto il tavolo. Adelmo sedette e si guardò attorno. L'interno era buio, sopra alla stufa c'erano tegami di rame, una falce e un Lunario. C'era un'immagine della Madonna di San Luca. La Strolga doveva essere scesa fino a Bologna per averla, oppure, piú probabilmente, si trattava di un dono.

All'interno, stagnava l'odore di fumo che avevano avvertito fuori.

- Ci vai in Chiesa?

Adelmo fece cenno di no.

La donna scosse il capo e bofonchiò per un po' mentre raccoglieva delle foglie su un braciere. Adelmo colse qualche parola, ma non capi il senso del discorso.

La Strolga tirò fuori una bottiglia dalla madia e bevve un sorso, facendo schioccare le labbra.

Poi si avvicinò ad Adelmo, si chinò verso di lui, e incominciò ad annusarlo rumorosamente.

Si fermò su un punto preciso, in mezzo allo sterno. Aspirò con la bocca vicino al petto dell'uomo, strabuzzò gli occhi e ruttò. Ripeté l'operazione diverse volte: sugli occhi, vicino all'ascella sinistra, sul fegato.

La donna ruttò un'ultima volta, poi sedette a gambe larghe e snodò il fazzoletto sulla testa. I capelli erano bianchi, lisci e radi. Prese a sventolarsi con l'orlo della gonna.

Adelmo si alzò, si lisciò i panni ed estrasse del denaro da una tasca. Avanzò di un passo e lo porse alla Strolga, ma lei gli fece intendere di lasciare il compenso sulla sedia che aveva appena occupato.

Poi fece cenno di avvicinarsi. Gli toccò la fronte e il cuore con un santino della Madonna, poi con uno di San Cipriano, e lo congedò mostrando la porta.

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Pagina 28

Mentre faticava ai lati della strada, sull'avvio della scarpata, Adelmo pensò che morire si doveva, e allora era meglio vivere, prima.


Nel caso l'aereo tornasse, era stata sistemata una mitragliatrice a protezione di quella parte della strada dove gli italiani stavano recuperando il materiale ancora utilizzabile fuoriuscito da camion e carri. L'aereo tornò. Adelmo senti il rumore del motore avvicinarsi e il crepitare della mitragliatrice in risposta. Si lanciò a terra e strisciò fino al cadavere del cavallo. La conformazione del terreno era tale che la mole del cavallo morto lo schermava da un lato, ma poi l'aereo avrebbe virato per tornare indietro e lanciare un'altra bomba sulla strada, dall'altra direzione. Poteva girare, sistemarsi dietro il fianco opposto della carcassa, ma sarebbe stato piú esposto. Però, pensò, avrebbe potuto prendere la mira con calma.

Dall'altra parte del cavallo, le mosche banchettavano sulla ferita e il sangue scuro era un lago.

Adelmo vide l'aereo abbassarsi e farsi piú vicino. Sparò e senti un'ovazione, una salva di evviva. Aveva colpito l'aereo sul muso. In aria, la macchina aveva dato uno scarto mentre il motore perdeva colpi e cacciava fumo. L'aereo virò, ferito, e scomparve dalla vista.




9.

— Non sopporto piú i pidocchi. Non ho paura dell'assalto, ma cosí a che cosa serve? Sono partito volontario per fare qualcosa, imparare. In trincea che cosa imparo, la vita del topo?

Adelmo studiò il volto dell'interlocutore. Sembrava compiaciuto, nella divisa da maggiore. Segnò qualcosa con una matita, mentre Adelmo proseguiva.

— Per quello che voglio entrare negli Arditi. Per imparare qualcosa. E poi voglio stare con qualcuno che la guerra la vuol fare davvero.

Il maggiore annui con una certa convinzione. Studiò le referenze controfirmate dagli ufficiali del reparto. In due mesi, soldato scelto. Aveva già ricevuto un encomio, per aver colpito un velivolo nemico.

— Non ti si può dire propriamente prestante, Cantelli. Ma sei un soggetto motivato.


Uscito dalla baracca dove avevano apprestato l'ufficio d'arruolamento, ad Adelmo parve di respirare a pieni polmoni dopo molti mesi. La vita di trincea era divenuta insopportabile. La cosa che pesava di piú non era rischiare la morte, ferite orrende, la mutilazione, e nemmeno l'assurdità della situazione sul campo, che non gli sfuggiva. Si sentiva solo un volto tra la folla inesorabilmente uguale a sé stessa, che andava a morire. Era parte della stessa folla di Castiglion dei Pepoli, quando avevano accompagnato il fratello tra le fanfare, solo che era giunta a destinazione, pronta a una morte anonima. Questo era insopportabile: morire cosí, uno tra migliaia, come non si fosse mai nati. Della fotografia che avevano preso alla compagnia il giorno che li avevano dislocati in prima linea, pochi erano ancora vivi. Non era passato nemmeno un mese.

Cosí quando aveva saputo che si stavano costituendo reparti d'assalto che avrebbero condotto un'altra guerra con altri metodi, Adelmo aveva pensato che la divisa degli Arditi gli sarebbe stata bene, non come il vestito del padre che conservava avvolto nello zaino, e certo meglio del grigioverde indistinto dei fanti.


Adelmo si era accorto di una cosa, di un fatto, di una condizione che aveva luogo nel cuore e nella testa, e lo aveva spinto a decidere. Mentre era in azione, mentre sparava da dietro un riparo ai corpi che venivano avanti, o mentre cercava il momento giusto per correre da una roccia all'altra, mentre le pallottole alzavano nuvolette di polvere sotto e vicino ai piedi, il suo corpo reagiva in modo automatico, facile. La tensione si mutava in energia forte, compressa, direzionabile. La prossimità della morte lo tranquillizzava, lo esaltava, alle volte. Era la vita cosí come era stata a fargli paura. La guerra quando si combatteva davvero era un tempo vivido, un presente dilatato, una libertà inattesa, lontano dai comandi insensati del padre, dei superiori, di una parte della sua testa, che li ripeteva con stanchezza, per abitudine, senza dargli piú nessun vero valore.

E mentre era il turno degli austriaci uscire dai ripari e attaccare in discesa, nel fuoco di sbarramento frenetico, Adelmo si era accorto di un'altra cosa, sconcertante.

Molti dei suoi commilitoni non sparavano per uccidere. Tiravano deliberatamente fuori bersaglio. Alcuni certe volte, altri sempre. Non avevano il cuore di uccidere un uomo. Erano camerati pericolosi, privi di vera capacità combattiva. E i superiori non se ne accorgevano.

Un'altra cosa, poi, non sopportava, le litanie e i rosari snocciolati in accenti lontani, la puzza di merda, di corpi sudici e paura.

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Pagina 53

In prima linea, il tempo inciampa nelle trincee, nelle voragini dell'artiglieria. Inciampa, si frantuma ed è tutto presente, tutto in mano alla Patria. Cosí il soldato perde abitudine al domani. Dimentica che il compagno con il quale ha scrutato le stelle, all'alba sarà un caduto dilaniato dalle schegge.

[...]




8.

«A dar di matto ci avevo pensato, - disse Ennio dopo una lunga boccata, - ma poi temevo di farmi scoprire. Solo che della guerra non ne potevo piú, ero talmente stanco e disgustato, che ogni mattina mi preparavo alla fuga e ogni sera rimandavo al giorno successivo. Quando c'era da combattere, mi scoprivo confuso, lento, incapace di mettere ordine ai gesti. Sotto una pioggia di shrapnel, m'è capitato di chinarmi ad allacciare le scarpe, invece di mettermi al riparo. Sono andato avanti cosí per settimane, finché non mi sono reso conto che c'era un'alternativa. Se non mi sentivo abbastanza bravo come bugiardo, allora era sufficiente che smettessi di mentire. Tu mi conosci: nella vita di tutti i giorni ho la mia mesticheria, mi piace dipingere e non sarei capace di scannare un coniglio. È dunque la Patria, per prima, che mi ha imposto di essere quel che non sono. Un assassino, un guerriero, uno che mantiene la calma a vedere uomini col ventre squarciato, giusto un minuto dopo che ci ha fumato assieme. Cosí ho capito che non avevo alcun bisogno di fingere, mi bastava disertare l'incantesimo nel quale m'ero calato come se fosse reale, come se davvero m'importasse di tornare a casa con una medaglia sul petto. Avevo paura? Certo che sí, una paura disperata e mai provata prima. Non di morire, ma di conoscere il dolore che avevo visto grondare da troppi volti simili al mio. Avevo voglia di gridare, di strapparmi i capelli, di togliermi la divisa e scappare via nudo? Ebbene, lo avrei fatto. Tuttavia, siccome l'idea di una pallottola in testa mi terrorizzava poco meno delle granate, evitai gesti inconsulti in risposta a ordini diretti o durante un assalto in faccia al nemico. Il mio maggiore diceva che in quei casi non è buona cosa sprecare le munizioni di un intero plotone: la pistola di un ufficiale è l'arma migliore contro le mele marce. Decisi di usare la paura come una bomba a tempo. Sotto il fuoco dell'artiglieria nemica ne mandavo giú fino all'orlo, ci mettevo su il tappo, badavo che fermentasse fino alla fine dell'inferno, e poi al primo botto innocuo, come lo scoppio di un motore, lasciavo esplodere la bottiglia tutta d'un colpo. Mi ci sono abituato talmente bene, che adesso non posso piú evitarlo. Basta una porta che sbatte e per qualche minuto mi pare di essere ancora sotto il fuoco di sbarramento. Se questo lo chiami "essere matto", allora sí, sono matto. Se invece lo chiami simulazione, sono un simulatore. Il professor Boschi, a Ferrara, lo chiamava "malattia nervosa". Per parte mia, preferisco chiamarlo Ennio Bettini».

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Pagina 101

1.


Dove vanno le zanzare quando il vento soffia forte? Se lo chiede il ragazzo... No, a diciannove anni si è uomini, se lo chiede l'uomo alto dai capelli rossi. La strana bufera che inizia stasera risparmia un fastidio, niente punture, ma rinfocola una curiosità: se fossi una zanzara delle campagne qui intorno, una zanzara di queste zone umide del Nordovest, delle rive fluviali di Nantes, dove mi nasconderei questa sera, in attesa di tornare a colpire?

Forse nell'erba. Le cime dei fili d'erba oscillano, investite dall'intemperia, ma piú giú gli steli si toccano, si incrociano come spade in mille stemmi di famiglia, si sostengono a vicenda e formano una barricata, o un tetto, e il vento non può ghermirti.

Il giovane uomo studia ingegneria, sebbene con poco impegno. Preferisce fare altro: scrivere e disegnare, mettersi in ghingheri, leggere De Quincey e spacciarsi per inglese, yessir. Era inglese sua nonna, la madre di suo padre. Si chiamava Mary Jane.

Andare a donne? Gli interessano poco. Con tre amici manda avanti una rivista di poesia, «Le canard sauvage». Ne sono usciti quattro numeri, ma al quinto volo l'anatra si è persa.

La zanzara nell'erba che attende il calare del vento. L'immagine lo intriga, ha qualcosa di romantico e al tempo stesso di ignobile, di manigoldo. La zanzara come un bandito di strada che trova riparo in... in un tempio, ecco. Un tempio pagano. E i complotti dei neri malfattori... Roba da Baudelaire andato a male, mancano solo le grida lamentevoli dei lupi | e delle fameliche streghe.

Ora il giovane uomo — Jacques, Harry James, Jack, Tristan Hylar — si sente egli stesso un brigante in cerca di un tempio. L'immagine gli piace sempre di piú, la soppesa e l'assapora, sí, if I were a mosquito, I would do just that.

I would be an outlaw.

Stasera un vento caldo soffia sull'Europa, raffiche dure e stolide, an idiot wind dal cuore del continente, aria fradicia che colpisce alle spalle, folate lunghe centinaia di miglia che quando ti investono sanno di ruggine sulle labbra. Di ruggine e unghia incarnita. Le raffiche arrivano di colpo ma poi indugiano, rallentano, formano un mantello pesante sui prati e nei cortili, i cortili di Nantes e stasera - Jacques lo sente - di tutta la Francia, e forse è lo stesso in Austria e in Germania.

Well, well, well...

Dove si nasconderanno gli umani, se il vento peggiora?

È il ventisette luglio 1914, e nessuno pensa a nascondersi. La guerra che sta per iniziare farà tribolare per qualche settimana, poi un futuro radioso attende la Francia, o in alternativa attende i crucchi. In ogni caso la guerra durerà poco, pensano tutti, e in ogni caso who cares?, pensa l'uomo dai capelli rossi, che piú alla grande di cosí non potrebbe fottersene.

O forse sí. Potrebbe fottersene da piú vicino.

Suo padre è un alto ufficiale. Questa guerra che inizia è suo padre. Piú se ne fotte della guerra, piú se ne fotte di suo padre.

Ma è tutta una posa. L'uomo veste una corazza. Della guerra non può fottersene davvero, men che meno di suo padre. È un ragazzo di diciannove anni e sente, come lo sentono da tempo i suoi poeti, che si sta svoltando un angolo, che l'epoca è al collasso. Il risveglio sarà brusco.

        Il mondo attendeva forse
        alla porta del dormiente.
        Nessuna clemenza per i sogni,
        nessuna uscita furtiva!

L'uomo dai capelli rossi andrà alla guerra, e i suoi amici andranno alla guerra, e i suoi amori andranno alla guerra, e i poeti andranno alla guerra, che vadano al fronte o meno. Tutta la Francia, dopo quarant'anni di pace - no, di guerre lontane - andrà alla guerra sull'uscio di casa. E si potrà morire.

Il vento... Bisogna tentare di fottersene.

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Pagina 115

Nelle pagine di Nadja, Marie-Louise ha ritrovato la città di suo fratello...

Nantes: forse con Parigi la sola città della Francia nella quale ho l'impressione che mi possa accadere qualcosa che valga la pena, dove certi sguardi bruciano per sé soli di un fuoco troppo intenso... dove per me la cadenza della vita non è la stessa che altrove, dove forse ci sono esseri abitati ancora da uno spirito di avventura al di là di tutte le avventure, Nantes, dalla quale possono ancora arrivarmi degli amici, Nantes dove mi è piaciuto tanto un parco: il Parc de Procé.

... e suo fratello:

... con Jacques Vaché, ci sistemavamo per cenare nella platea della vecchia sala delle «Folies-Dramatiques», aprivamo delle scatole, tagliavamo il pane, stappavamo bottiglie e parlavamo ad alta voce come a tavola, con gran meraviglia degli spettatori che non osavano fiatare.


42


André Breton vive al terzo piano.

Marie-Louise inspira e si mette una mano sul cuore.

Controlla che non sia impazzito.




- Vostro fratello, lo avrete letto, chiamava la guerra «la macchina decervellante». Adattava un'espressione di Alfred Jarry, l'autore che piú lo aveva influenzato. E cos'era per me la guerra? Una bestia che si mimetizzava leccandosi, piú si leccava piú si confondeva col mondo intorno. Aveva occhi del colore impreciso di una bufera, occhi che erano vortici e risucchiavano il peggio del mondo - l'immondizia, la propaganda, l'amor patrio - per restituirlo moltiplicato in grandi occhiate fluorescenti. Le fauci aperte della bestia contenevano un palazzo dove andavano a morire in processione, come vacche ipnotizzate al mattatoio, schiere di giovani a petto nudo, accompagnate da una cacofonia di canti di gallo in una quasi-alba che rimase, per cinque anni, sul limine tra notte e giorno.

Quest'altra guerra da poco finita ha conosciuto addirittura piú «barbarie», come dicono i perbenisti per i quali non esiste che questa nostra civiltà d'occidente, la civiltà dei generali e mercanti che hanno causato entrambe le guerre da me vissute... Sarebbe meglio dire che quest'ultima guerra ha conosciuto piú civiltà: piú macchine decervellanti, piú tecniche per imprigionare e uccidere. Si è trucidato un maggior numero di uomini, donne e bambini, ma la prima... La prima non avrà mai eguali per l'ipocrisia con cui si portò avanti la mattanza. Mai eguali.

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Pagina 130

L'uomo dai capelli rossi appoggia i gomiti sulla balaustrata di pietra, si sporge in avanti e guarda il fiume.

«My dear friend, la vedete quella mano infuocata che affiora proprio al centro della Senna? L'acqua non spegne il fuoco, io lo so bene, acqua e fuoco sono la stessa cosa. Ma voi come la interpretate quella mano? A chi appartiene? Che ci fa dentro il fiume? Perché è in fiamme?»

André sta al gioco - se è un gioco - e finge di vedere la mano. La indica in un punto di fronte a sé.

«No, quello è solo un riflesso. La mano in fiamme è piú a sinistra... Eccola!»

André non vede nulla, ma annuisce.

L'uomo dai capelli rossi ride: «Mi date ragione come ai vostri pazzi, Breton?»

Poi lascia cadere l'argomento.


- «L'acqua non spegne il fuoco». La frase restò enigmatica per uno, due, cinque, venti giorni, dopodiché mi esplose tra le orecchie, quando giunsero da Ypres resoconti sul primo utilizzo di un'arma silenziosa, nuovo regalo della civiltà borghese: un liquido che, nebulizzato e affidato ai venti, calava nelle trincee divorando la pelle fino alla carne viva, bruciando gli occhi, piagando come mille scudisci arroventati l'interno della bocca, l'esofago, i polmoni... Ancora oggi il suo nome profano, «iprite», ricorda il luogo dove avvenne la prima strage.

Preveggenza? Oppure una coincidenza, nulla piú che una frase gettata nella notte? Ma le coincidenze sono aperture su altre dimensioni dell'esistere, e per cosa viviamo noi, se non per cercare quelle aperture, se non per farci portare da una frase gettata nella notte a un'altra frase, gettata in un'altra notte?

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Pagina 166

5.

Camouflage [seconda versione]


La verità storica non coincide con la verità dei singoli esseri umani. E non ce n'è una sola quando si tratta di capire come andarono davvero le cose. Occorre sommare, sovrapporre, scremare. Domandarsi perché nei laboratori della Section de Camouflage si lavorasse per salvare le macchine da guerra anziché i soldati è come domandarsi perché si stesse facendo una guerra mondiale anziché le Olimpiadi. Ed ecco una prima verità: le macchine erano piú preziose degli uomini.

Bonamore scopri l'altra faccia della medaglia, l'antefatto della storia del mimetismo militare che il suo cicerone aveva taciuto? Si può anche immaginare una coincidenza, idee che nascono identiche in due menti lontane... Oppure qualche forma di contatto indiretto, del quale però nemmeno un segugio come Henri Sarre ha trovato indizi.

Nel terzo capitolo del suo famoso libro Arlequin à la Révolution - enquête inhabituelsur le Surréalisme (Ed. Carte bianche, Parigi 1990), Sarre ha dato conto della lunga indagine condotta a partire dalle scoperte di Mazzetti. Seguendo la pista francese, Sarre poteva dare per certo che Piersanti e Bonamore fossero stati mandati a visitare il fronte, affinché potessero vedere il camouflage in azione. Quello che non ha potuto appurare è se passarono da Nancy, né se quello dei due che nella vita civile era un pittore smaniasse per visitare la capitale dell'Art Nouveau e la sua famosa Scuola. La Scuola di Nancy, in Lorena, era il luogo dove l'Arts & Crafts di William Morris era stata trasformata (dal genio francese, naturellement) e lanciata in tutta Europa. E dove un altro artista aveva dato una risposta alla domanda che Bonamore avrebbe potuto rivolgere a De Scévola alla fine del 1916.

Si chiamava Louis Guingot, ed era un decoratore cinquantenne, uno degli artisti formatisi alla Scuola d'arte di Nancy. Durante l'offensiva dell'agosto del '14 vide arrivare dal fronte poco distante i primi convogli carichi di feriti e ascoltò i racconti raccapriccianti dei soldati. Gli parve assurdo che i fanti dovessero avanzare allo scoperto come bersagli mobili variopinti. Cosí un giorno, osservando una giacca a strisce verdi verticali, ideata per gli appostamenti di caccia dal suo amico pittore Émile Friant, Guingot si fece venire un'idea. Gli serviva però uno sponsor. Il mecenate della Scuola di Nancy era il ricco Eugène Corbin, che in quel momento si trovava sotto le armi. Guingot gli scrisse per chiedergli di poter utilizzare il laboratorio di sartoria della catena Magasins Réunis, di proprietà della famiglia Corbin, per realizzare un'uniforme mimetica che avrebbe reso molto difficile individuare da lontano i fanti francesi. Ottenuto il consenso dell'amico, Guingot realizzò quindi il prototipo di una giacca di tela, scarabocchiata, macchiata e schizzata in modo da richiamare l'aspetto dell'ambiente naturale circostante. Per i colori si lasciò ispirare dal paesaggio. Miscelò un verde che riprendesse sia il prato sia le piante e le foglie degli alberi; un marrone-rossiccio che richiamasse la terra della Lorena; infine, per l'effetto ombra, scelse un blu di sua invenzione, della cui miscela deteneva il segreto. Quindi distribuí i tre colori sulla tela in maniera apparentemente casuale, a macchie, in modo da dare l'impressione di una natura mossa, di piante intricate. Sul piano meramente artistico si lasciò ispirare dal puntinismo. Per impedire che l'uniforme scolorisse, trattò la tela con una colla di sua invenzione, che una volta miscelata al colore lo fissava al tessuto. Infine appese l'uniforme nel suo giardino e la osservò da una certa distanza, riscontrando che se non focalizzava lo sguardo su un punto, ma lo lasciava scorrere lentamente all'intorno, l'occhio non coglieva affatto la forma della giacca.

- La chiamerò «uniforme camaleonte».

- Vuoi scherzare? - disse il suo amico Friant. - Se vuoi che l'esercito la adotti non puoi darle il nome di un animaletto innocuo. Devi sceglierne uno piú feroce.

- E come dovrei chiamarla?

- Leopardo. Ecco come.

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