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| << | < | > | >> |Pagina 9- Bene... - disse lei. - È stato tanto tempo fa. - disse lui. - Non ne sei mai venuto fuori. - Sei tu che non ne sei mai venuta fuori. Lei trascinò dalla sua parte il giornale sul tavolo e guardò la fotografia. Il volto era ben illuminato, tratti troppo perfetti per essere veri, capelli biondissimi, sguardo remoto. - È una vecchia foto - disse lei. Lui non disse niente. - Indossa una specie di guaina di rete simile a una gabbia. Ecco perché sembra così snella. Lui sollevò la tazza e abbassò il viso, fuggendo la verità, come aveva fatto per tutta la vita. - È andata a letto con più uomini di quanto la maggior parte della gente vada fuori a cena. Con chiunque portasse i pantaloni. Anche donne. Lui sbatté giù la tazza, il piattino si spaccò in tre pezzi. - Un vecchio scheletro rattrappito su una sedia a rotelle. Le pareti attorno parvero soffocarli. La tappezzeria scelta da lei, fiori rosa su un graticcio, si trasformò in una gabbia. Le tendine, lavate la settimana prima perché l'unto, le mosche e gli spruzzi del lavandino si attaccavano così facilmente al cotone, sembrarono di nuovo sporche. I piatti - Estate, Autunno, Inverno - sullo scaffale sopra la credenza persero la loro lucentezza. | << | < | > | >> |Pagina 22"Una donna che viaggia da sola," aveva detto sua madre, "è alla mercé dei farabutti. Una donna che viaggia sola è una preda. Porta con te quella graziosa ragazza del tuo ufficio." (Sua madre non aveva il senso della realtà: per lei qualsiasi donna sotto i quaranta era una ragazza.) Sharon aveva da sopportare ancora tre anni da ragazza e Kim cinque.In un certo senso Kim era davvero una ragazza. Ne aveva l'aspetto. Era snella per via dell'ansia, non perché non mangiasse. I capelli lisci, senza traccia di tinture. Diceva che le piaceva viaggiare. Quando rientrava da un viaggio descriveva le città e le cose viste con tale vivezza da far sembrare elettrizzante ogni singola vicenda. Ma durante i viaggi era assalita dalla nostalgia di casa, di notte vagava per la stanza, non dormiva, a volte vomitava. Adesso era china sulla tomba, come se vedesse putrefarsi la carne che aveva incominciato a decomporsi in vita. A novantadue anni era ovvio che ci fosse stata una separazione, la carne dalle ossa, la vita dalla mente. Sharon prese la macchina fotografica per scattare una foto a Kim mentre si chinava sul tumulo, ma esitò chiedendosi se fosse giusto. Mostrarla ai colleghi in ufficio. Questa è Kim in vacanza. Avrebbero riso di lei, della sua espressione triste? Così piegata in avanti i suoi seni erano più pronunciati nella maglietta rosa. Erano perfetti, piccoli e sodi. Sharon distolse lo sguardo e infilò rapidamente la macchina fotografica nell'astuccio. In ufficio Kim era brava, ma continuavano a scavalcarla. Faceva le cose sbagliate. Non aveva idea di come entrare nella corsa alle promozioni. L'autunno precedente erano stati invitati da Marty, il responsabile vendite, a una specie di festa aziendale al lago fuori città. E mentre l'acqua lambiva i ciottoli della spiaggia, il sole splendeva e tutti gli altri ascoltavano Marty parlare di quote di mercato e di nuove iniziative, Kim se ne era andata in giro per conto suo. Era tornata un paio d'ore dopo, raggiante di felicità, con un pezzo di legno levigato dall'acqua, contorto, simile a un animale torturato con la coda attorcigliata e la bocca aperta per urlare - o per cantare. Lo aveva dato a Sharon e le si era seduta accanto, le lunghe gambe arrossate dal sole. E ora erano qui, sulla tomba di una donna talmente diversa da loro da sembrare irreale; Era piena di fascino, famosa in tutto il mondo, aveva gambe perfette, il profilo come un'opera d'arte. Quando cantava, l'universo si fermava per ascoltarla. In un'intervista aveva detto: "Sono in gamba in quello che faccio. Sono disciplinata." Kim aveva ragione. Era brava in quello che faceva. Lo portava fino in fondo. Su al lago, Marty aveva preso Sharon in disparte, le aveva detto che Kim non sarebbe stata promossa perché non aveva le capacità di relazione necessarie per far carriera all'Ufficio del Personale. E quello del Personale era l'ufficio dove in quel momento c'erano più opportunità. Sharon aveva provato un piccolo lampo di soddisfazione, si rendeva conto che parlava con lei perché la considerava affidabile; poteva passare al quadro successivo, senza ostacoli. Ma poi si sentì triste perché voleva che anche Kim avesse il meglio. Organizzava quei viaggi perché Kim potesse divertirsi. E poi se ne pentiva. - Vado in quel caffè che abbiamo visto venendo qui. Ho voglia di una torta al cioccolato e caffè con panna. Rimani qui, se vuoi. Kim aveva lo sguardo vuoto. Era come a Venezia, dove tutta quell'arte e quella storia italiana l'avevano sopraffatta, mettendola in uno stato di muta passività. Rivide il suo sguardo fisso su di lei a tavola, a Poitiers o a Madrid. | << | < | > | >> |Pagina 53Quando quella domenica Harold Fryer entrò in chiesa, intendeva ricordare a Dio la propria esistenza. Da bambino aveva cantato Gesù mi ama abbastanza di frequente da credere che lassù in cielo, tra le nuvole e gli angeli, lo conoscessero. Una volta, aveva più o meno undici anni, aveva avuto una visione a colori di Gesù Bambino sulla parete della sua stanza. Ma a dodici anni aveva perso la fede e aveva imparato a far saltare le rane con i petardi. Ora, dopo trent'anni, doveva rinnovare la sua polizza e non sapeva come comportarsi. Si era preso le domeniche per sé, per tenersi aggiornato sulle notizie, per andare a vedere qualche partita, per preparare il lavoro della settimana. Betty aveva smesso di andare alle funzioni dopo che avevano venduto la casa. Mentre saliva i gradini della chiesa, mormorò "Salve, sono Harold Fryer." Non ci fu risposta. Non si aspettava che Dio si chinasse per dirgli: "Bene, sono sempre lieto di vederti, Hank" o perfino "Dove diavolo sei stato?" ma gli sarebbe piaciuto sentirsi sfiorare la spalla, un rassicurante respiro divino sulla guancia, un improvviso caldo raggio di luce mentre saliva l'ultimo gradino. E non c'era niente. Se non altro, l'Onnipotente non lo aveva spinto giù dalle scale. Era andato lì perché i premi assicurativi dovevano essere pagati in anticipo. Era la regola. Si trattava di incidenti e di vita. Una questione di buon senso. Non si può stipulare una polizza su un fatto già accaduto. Incendi e incidenti non si possono, o almeno non si dovrebbero, prevedere. "La mia non è una professione macabra" rispondeva a chi gli faceva domande in proposito. È un lavoro che aiuta la gente a vivere meglio. Porta conforto, conforto e tranquillità alle persone già abbastanza stressate senza doversi preoccupare anche di infortuni e inondazioni. Per tutta la sua vita professionale, tralasciando il lavoro temporaneo da Happy Hamburger e le due estati passate ad asfaltare strade, era entrato nelle case con la mano tesa, dicendo "Salve, sono Harold Fryer e lavoro per la Midway Insurance." "Dì alla gente come ti chiami, cosa fai, spiega bene di cosa ti occupi. Sii chiaro fin dall'inizio," gli aveva detto il suo capo, il vecchio Crowley, come se dopo questa precisazione lui potesse giocare qualsiasi brutto scherzo. Aveva lasciato Betty a casa a prepararsi per il viaggio, mentre ascoltava alla radio un concerto in memoriam di una cantante che a lui non era mai piaciuta. Una volta in cui la conversazione era uscita dal seminato della quotidianità, Betty gli aveva detto di essere certa che una donna come Marlene Dietrich l'avrebbe capita. Le aveva risposto ridendo che la diva capiva solo il sesso e il denaro. Ripensandoci adesso sapeva di aver dato la risposta sbagliata. Ma le lacrime che avevano solcato le sue guance quella mattina erano sia per il padre ucciso in guerra sia per la cantante o per chissà quale altro motivo. Se anche si fosse domandata che cosa improvvisamente lo avesse spinto ad andare a messa quella mattina, era troppo presa dalla musica per chiederne spiegazione. Harold entrò in chiesa facendo un cenno con il capo a quelli che conosceva. Alcuni dei suoi clienti erano lì per stipulare una polizza diversa che li assicurasse nell'altra vita, sempre se ce n'era una. Ma sapeva che in quel luogo bisognava abbandonare ogni dubbio. Qualcuno rispose al suo cenno con il sorriso speciale dell'eletto, lieto di dare il benvenuto al peccatore sul gradino più basso della scalinata. "Ho scelto la retta vià" comunicò a Dio mentre la musica riempiva la chiesa e uno scalpiccio sul pavimento lo avvertiva dell'inizio della funzione. Tra le note un pensiero echeggiò nella sua mente: "Le volevo bene mentre si allontanava sull'acqua." | << | < | > | >> |Pagina 103Non sono solita decapitare i fiori altrui - purché non mi si provochi. Oggi, è stata la musica. Ha fatto riaffìorare tutti i ricordi. Vividi come il dolore. Non dico che mi metterò a ballare perché lei è morta. Eppure ne sarei capace. Quarant'anni fa, avrei ballato e cantato e dato una festa. Ora sto festeggiando alla buona, per conto mio. Perché è morta. Finalmente. A quest'ora di solito il parco è vuoto. La gente viene presto a mangiare lo spuntino di mezzogiorno. Così ora posso starmene seduta sulla panchina con un bicchiere e una bottiglia, e bere un po'. Canterò, se ne avrò voglia. Ma non una delle sue canzoni. È una cosa molto sciocca avere delle certezze. Ma quando sei giovane hai fiducia nel futuro, in te stessa e anche in chi ti ama. Perfino in tuo marito. Geoffrey ed io ci sposammo subito, quando finì la Regia Accademia Militare. In piedi davanti all'altare, tutto era bello e perfetto - eccetto i fiori. Se n'era occupata mia sorella, li avevano consegnati a casa troppo presto e lasciati all'aperto con tutto quel caldo. Non ho mai saputo se l'abbia fatto apposta, una specie di cattivo augurio, perché avrebbe voluto Geoffrey per sé, o se fu solo la sua solita trascuratezza. Mi ritrovai nel mio vestito da novecento dollari, tutto di pizzo bianco, con un bouquet di camelie appassite. Cercavo di tenerle tra le braccia come in una culla, in modo che non si notassero. Tutto il resto era perfetto. Anche Geoffrey, per una volta. Il vestito da novecento dollari era una delle cose su cui i miei futuri suoceri di Toronto avevano insistito. A Ottawa Valley a quei tempi eravamo soliti calcolare le spese secondo il reddito, con un certo margine di sicurezza. Avevamo buon senso. Ma suppongo che la sua famiglia dovesse dimostrare qualcosa. Novecento dollari erano una fortuna nel 1932. Sarei entrata a far parte di un ambiente che dava un gran peso all'apparenza. Per loro le mie origini scozzesi erano qualcosa di curioso e il fatto che sapessi il francese uno svantaggio. Ero quella che era stata a Parigi. Quando ci tornai, decenni dopo, la lingua era cambiata. Incontrai Geoffrey in Algonquin Park. Io ero in vacanza, lui in licenza. Al terzo appuntamento, attorno a noi cominciarono ad aleggiare come formule magiche le parole solo, mai e per sempre. La mia famiglia possedeva un cottage. La sua aveva una grande dimora di legno su un'isola. Passeggiavamo nei boschi. Mi regalò l'anello di fidanzamento. Un anno dopo, il fastoso matrimonio. La mia famiglia era in gran soggezione di fronte al nome e alla ricchezza della sua. Sua madre pareva doversi spezzare se le si parlava in tono brusco, ma era solida come un paio di vecchi stivali. I miei genitori dissero che avevo fatto una buona scelta. Mia sorella non mi rivolse la parola per un anno. Anno Uno di vita coniugale. Immagini fisse e immagini mobili mi attraversano la mente. Gli abiti che portavo. Le cerimonie a cui lui prendeva parte e in cui lo seguivo. Le dalie che coltivava nel suo poco tempo libero. Non era un uomo estroverso, ma una volta o due lo vidi accarezzare i petali delle sue dalie sorridendo tra sé. Nell'anno Due piantò le Purity bianche. Fiorirono le Magnificat arancione. Le Prime Minister color lavanda promettevano di essere più rigogliose l'anno dopo. Mi permise di raccogliere delle Park Princess colore rosa acceso da mettere in casa.
Anno Tre: io cercavo di rimanere incinta. Lui cercava di fare carriera. A
volte ci impegnavamo insieme in una cosa o nell'altra. Lui otteneva risultati
migliori. Il tenente più giovane diventò il più giovane capitano. Piantò le
Red Imps
scarlatte.
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