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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 Capitolo primo - Il male oscuro 13 Sulla pelle dell'università 13 Appelli e manifesti 16 Una legione di scontenti e una schiatta di raccomandati 22 Accostamento ardito di due lettere: Gino Giugni e Paola Romano 29 Capitolo secondo - Razza barona 33 La storia di Antonina e delle regole bizantine 33 Asinus asinum fricat 36 Guerra tra clan 43 Le catene parentali 52 I professori imbrogliano: c'è la prova matematica 58 La cupola di Firenze 62 Pizzo, trucchi e «notule» 65 Capiscuola e sistema di poteri 76 Capitolo terzo - La tela del ragno 83 Geni corrotti. Dal male oscuro al «cardio-gate» 83 Mafia contro mafia 89 Le buone regole: galateo di un concorso truccato 92 «Abbiamo bocciato il migliore», Pisa 96 La leggerezza dell'apparenza, Bari 100 Dissidenti e fronde, Firenze 108 Ritiri forzati, punizioni e crediti futuri 117 Apprensioni paterne 122 La «banda» di Gastroenterologia 125 Cortocircuito nel sistema: le cattedre di Otorinolaringoiatria 132 Come anello di fidanzamento ti regalo un bel concorso su misura per te 137 Un concorso spericolato (e surrealmente innovativo) 143 Delinquenti pochi, molluschi tanti 145 Il potere che genera potere e il cambiamento impossibile 150 Capitolo quarto - Al mercato degli esami 153 Mercato dei titoli 153 Duecentomila euro per un «pezzo di carta» 159 Il fante e l'ufficiale 164 Libri «strettamente» necessari 171 Lauree a luci rosse e dottorandi al limoncello 174 L'università delle donne 183 Capitolo quinto - Università e politica 191 Il legame pericoloso 191 Le libere università fai da te 195 Le lauree d'esperienza 203 Appetiti politici e poteri accademici: il caso controcorrente di Urbino 205 Decentramento uguale frazionamento: le fabbriche di posti 208 Università polverizzata 215 Autonomia: la politica delle non scelte Dal punto di vista dei piccoli 221 Capitolo sesto - False verità, idee e modelli da sperimentare 229 Un'università non migliore, diversa 229 Un pugno di idee per «aggiustare» il sistema 233 Il genocidio dei baroni: impossibile La battaglia di Franco Frabboni 234 Squadra sbagliata si cambia Chiacchierata con Alessandro Finazzi Agrò 237 Le riforme non sono rivoluzioni Il modello americano di Roberto Perotti 240 Il valore legale della laurea, pericoloso feticcio Pier Luigi Sacco e Alberto Pagliarini 245 Liste aperte di idonei, tra localismo e concorsi nazionali La teoria di Dario Antiseri 249 La moralità non si può imporre per legge Il codice etico di Nicola Colaianni 252 Capitolo settimo - Arringa finale 261 Il nuovo governo Prodi: programmi e sfide 261 Ad occhi aperti 273 Appendice I. Lettera di Walter Leszl alla professoressa di Harvard 279 II. Lettera di Quirino Paris 285 III.Lettera di Oscar Di Simplicio 287 IV. Dichiarazioni programmatiche di Fabio Mussi alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati 289 V. Intervento di Guido Trombetti, eletto nuovo presidente della Crui 307 VI. Il risanamento dell'università Lettera di Padoa Schioppa al «Corriere della Sera» 309 VII.Padoa Schioppa e le mie ragioni Lettera di Fabio Mussi al «Corriere della Sera» 311 Ringraziamenti 313 Bibliografia 315 Indice dei nomi 321 |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneProfessori che si tramandano le cattedre come fossero un'eredità di famiglia, come se l'istituzione fosse una cosa propria. Concorsi truccati, commissioni pilotate, nepotismo, ingiustizie, corse al potere. È questa l'università di «cosa nostra», che genera docenti tanto corrotti, quanto inefficienti, e studenti che un giorno, imparata bene la «lezione», saranno i loro replicanti. Fino a trent'anni fa, l'università era il luogo in cui cresceva e si formava la classe dirigente, le donne e gli uomini, che avrebbero occupato i posti chiave dell'economia, della politica, della medicina, dell'informazione. Oggi, invece, sempre di più la laurea ha valore solo in quanto «pezzo di carta». Negli atenei italiani non c'è selezione e quindi manca anche la competizione. In tutt'Europa, l'obiettivo è quello di creare isole di eccellenza, in cui si concentrano i docenti più preparati e glí studenti più promettenti, in modo da dare una spinta alla ricerca. In Italia succede l'esatto contrario: le risorse pubbliche cadono a pioggia, indistintamente, su tutti gli atenei. Così, nel timore di creare disuguaglianze, si scivola nell'omogeneità mediocre. Alcune università che sono alla disperata ricerca di studenti, oltre a fare pubblicità, utilizzano i risultati della customer satisfaction per catturarli andando incontro ai loro desideri. Se gli studenti rispondono che una materia è difficile la eliminano, se un professore è troppo esigente lo isolano, insomma fanno di tutto perché il corso di studi diventi sempre più facile, in discesa. È il principio di Pinocchio. Sappiamo tutti che Pinocchio, simbolo universale dei ragazzi, non aveva voglia di studiare e, fra andare a scuola e a uno spettacolo di burattini, preferiva il secondo. Così, seguendo la sua personale customer satisfaction, non finisce nel paese della cultura, ma in quello dei balocchi e diventa un somaro. Questo è uno degli effetti dell'autonomia (senza responsabilità) degli atenei. E di un'università, guarda caso, completamente incapace di attrarre studenti e professori stranieri e spesso polverizzata in sedi decentrate, una miriade di nuovi atenei che oscillano tra superlicei e dottorifici. Non ci sono i risultati. E la qualità si abbassa, generazione dopo generazione. Così, chi vuole davvero tentare il salto di qualità deve andare all'estero o seguire costosissimi master post laurea. Il titolo di «dottore» serve solo dopo il cognome sull'elenco telefonico o sui biglietti da visita, ma se un neo-dottore vuole lavorare deve ricominciare tutto daccapo, a trentatrentacinque anni. Anche se poi, a dispetto dell'evidenza, chi propone di abolire il valore legale del titolo di studio, per aprire a un regime di «concorrenza», viene considerato quasi come un eretico. L'abolizione del valore legale del titolo di studio è dunque un argomento tabù: in Italia il pezzo di carta è sentito come una protezione in uno degli ambiti a cui i giovani si rivolgono con maggior facilità per cercare un posto di lavoro, quello dei concorsi pubblici. Nel pubblico, infatti, il valore legale del titolo di studio assicura una certa protezione; nel privato, invece, è tutto diverso. È Giancarlo Cesana, ordinario di Medicina del lavoro presso l'università degli studi di Milano «Bicocca», che tenta di rompere i tabù in un articolo su «Atlantide» in cui chiede ai suoi colleghi di non nascondersi dietro finte verità: Per cercare di capire quale possa essere l'importanza di questo tema, dobbiamo riflettere sui concorsi per l'accesso alla docenza universitaria, che oggi, dopo la riforma Moratti, sono indetti su base nazionale, per correggere l'insufficienza dei concorsi locali: chi non è ipocrita sa che l'ingresso nell'università è avvenuto e avviene per cooptazione, anche con i concorsi e nonostante essi. Insomma, l'università non piace a chi la frequenta e a chi ci lavora, e l'aspetto più drammatico è che nonostante questo senso di frustrazione diffuso, tutti, docenti e studenti, si adeguano. Tutto sommato non c'è da stupirsi. Perché l'università non è un universo astratto, un mondo a sé. Riproduce solo lo schema di una società altrettanto malata, in cui i pochi cambiamenti che si tenta di introdurre, incontrano ostilità e impedimenti, più o meno mascherati. In fondo, nella vita quotidiana di chiunque, cosa c'è di diverso? Chi vuole lavorare in televisione, in un giornale, in un grande studio legale che chance ha di dribblare il sistema di cooptazione nepotistica? Quasi nessuna. Nepotismo, cordate, ma c'è anche da parte dell'università un'assoluta mancanza di controllo. Non a caso, forse. Perché l'assenza di controllo è funzionale all'intero sistema. Tutto comincia con i docenti: scelti spesso per il loro cognome o la loro fedeltà, e non per merito, e che quindi si circonderanno di mediocri per paura del confronto con i propri eredi. Mediocrità e paura, due parole che ritorneranno spesso nelle prossime pagine, parole indissolubilmente legate da una spinta a nascondere più che a capire. Poi, gli studenti. Demotivati, con una formazione liceale scadente con un livello culturale generico Sono ammalati gli insegnanti. Si ammalano gli studenti. C'è nell'università italiana «un perverso effetto di trascinamento verso il basso» dice Aldo Schiavone, «che riguarda il percorso degli studenti come dei professori». Così, a fronte di un'università incapace di controllare se stessa, sembra che il difficile compito di fare le verifiche sia stato affidato alla magistratura, come spesso accade in altri campi della vita sociale. Quanto più i meccanismi di controllo interni sono inefficienti, tanto più le inchieste giudiziarie sembrano essere l'unico argine in una società di «fazioni» in lotta. E così intercettazioni telefoniche, confessioni, conversazioni rubate con microspie e denunce raccontano in presa diretta il volto malato dell'università. Che tutti vogliono nascondere, negare, minimizzare. Ecco il perché di questo libro, in cui tento di sollevare il velo sull'università nascosta e le sue leggi sotterranee: l'affiliazione (per diritto di sangue, fedeltà, convivenza, amicizia, ricatto), lo ius loci (l'ereditarietà della cattedra), la cooptazione forzata, la migrazione (in altro ateneo, per svincolarsi dalla tutela del maestro), lo scambio di favori, l'omertà, la difesa a oltranza della casta. Leggi «bizantine» difficili da mettere in discussione, ma che allo stesso tempo spregiudicatamente vengono piegate, modificate, adattate in un'università in cui i singoli casi non sono eccezioni. Questo lavoro non vuole prendere posizione, né dare soluzioni; che l'università italiana sia gravemente malata, è una diagnosi che tutti condividono e ripetono. Né serve lo scandalo fine a se stesso. Questo libro vuole solo avere il coraggio di capire cosa sta succedendo, senza finti pudori. È una ricostruzione per atti giudiziari. Un immaginario processo all'università, in cui accusa e difesa si alternano. È un tentativo di ricostruire una storia dell'università partendo da tante storie di singoli che, al di là della cronaca, diventano esempi generali. Uno sguardo ad occhi spalancati, senza censure né paure, su un'università in cui esiste un «galateo» delle buone regole per truccare i concorsi, nella quale in una logica tribale si accavallano e si sovrappongono leggi di «territorio», «di sangue», «di fedeltà», e dove comunque vince quasi sempre il potere. Il potere che fa gola. E nelle aule universitarie non si respira più il desiderio di imparare, non c'è più tempo. Tutti sono troppo impegnati nella corsa a far parte di una casta, quella che conta. È un meccanismo perverso che fa andare avanti solo chi se lo può permettere (i baroni e la loro genia) e fa sopravvivere chi si piega alle regole, corrompendo così anche chi all'università magari ci va per studiare. Nelle aule universitarie, tra i professionisti del domani e i loro educatori, nasce l'idea, la convinzione che chi non ha alleati potenti non sarà mai nessuno. E da qui, dall'università, bisogna ripartire per spezzare il sistema delle omertà e dei ricatti, e restituire al merito scientifico il valore di criterio guida. | << | < | > | >> |Pagina 233Un pugno di idee per «aggiustare» il sistema
Vorrei chiudere questo processo a un'università colpevole,
cercando di sfatare cinque false convinzioni: 1) i baroni saranno
sconfitti; 2) i concorsi nazionali sono molto più trasparenti di
quelli locali o viceversa; 3) le riforme universitarie sono rivoluzioni;
4) l'università è un mondo a sé che gode di licenze speciali; 5) la moralità si
può imporre per legge. Miti da demolire,
grazie alle proposte di chi nell'università vive. Non si tratta di
riforme, né di leggi, ma di idee per «aggiustare» il sistema, pareri raccolti in
lunghe chiacchierate a volte di persona, altre via e-mail, con un gruppo di
«saggi» e di «baroni», perché no, che sui giornali, nelle aule universitarie,
nei forum on-line, in rubriche, da tempo propongono nuovi modelli da
sperimentare e si battono per un'università «diversa».
Il genocidio dei baroni: impossibile
La battaglia di Franco Frabboni Ma i baroni esisteranno sempre? Sì. E questa è la prima verità dietro cui è inutile nascondersi. Non si può promettere lo sterminio dei poteri forti. Il problema è, come al solito, l'intensità del fenomeno. Se il potere diventa strapotere. «Alla stampa e in televisione il ministro Moratti ha dichiarato che questa legge toglie il potere ai cattedratici, introducendo una ventata di democrazia all'interno delle stanze accademiche. Qui sta la bugia». A dirlo è un gruppo di professori in una lettera a «la Repubblica», docenti che provocatoriamente si firmano «i baroni». Secondo i firmatari: L'ispirazione gerarchica della legge attribuisce invece a noi «baroni», dal ministro esecrati, un potere assoluto. Questo perché in un'università «precarizzata» (contro la quale molti cattedratici si sono battuti) diventa impraticabile la pluralità e la pariteticità delle diverse figure di docenza che in esse operano. La vistosa logica verticalistica con cui il Ministero ha ridisegnato la ricerca (consegnata ai privati) e i corsi di laurea (consegnati alla domanda del mercato) allontanerà per sempre l'università italiana dalla comunità scientifica internazionale. Il primo firmatario della lettera è Franco Frabboni, ordinario di Pedagogia e preside della facoltà di Scienze della formazione a Bologna, che tenta di difendere l'università dagli effetti delle «picconate» della Moratti: Questa riforma si materializza in un attacco a tutto campo al nostro sistema di formazione superiore, reso «povero» (a partire dall'ingiustificata disseminazione del «numero-chiuso» d'ingresso all'università) della sua ricchezza democratica e culturale (la conoscenza e la formazione sono capitali culturali di cui ogni paese industriale non può fare a meno) e «derubato» della ricerca scientifica (data generosamente in mano a neofiti atenei privati). Dunque, reso «nudo» perché lasciato troppo solo, in questi mesi di dura contrapposizione, ai picconatori del Regime di centrodestra. La «solitudine» di cui soffre l'università (dove sono le forze democratiche e progressiste che hanno fatto tanti girotondi in difesa della scuola pubblica?) la sta indebolendo nella difesa delle sue vesti più nobili: il pari credito formativo e investigativo delle sue aree culturali (umanistiche e tecnologico-scientifiche) e la sua ontologica autonomia: sia quale spazio di pensiero e di libertà intellettuali, sia quale antica identità di laboratorio permanente di costruzione di nuovi paradigmi – anche dirompenti e inattuali – di cultura e di scienza. Frabboni si sente una campana stonata nell'intero mappamondo accademico e boccia sia sul metodo che sul merito la riforma Moratti. Sul metodo: Indossando una volta ancora un abito «autoritario» (di cui ha già fatto sfoggio durante la Riforma della scuola: legge 53/2003), il ministro Moratti cambia sia il volto culturale e formativo (la qualità dell'insegnamento), sia il volto intellettuale e scientifico (la qualità e la libertà della ricerca) dell'università italiana. A partire dalla rottura della stretta relazione esistente, da sempre, tra didattica e ricerca, il cui «addio» facilita la precarizzazione, la gerarchizzazione e la ricentralizzazione della vita accademica: spogliata di autonomia la cultura e la scienza sono costrette a inginocchiarsi al potere politico, Passando dal metodo al merito, Frabboni è convinto che la Moratti «voglia assestare all'università di casa nostra due violenti colpi di piccone allo scopo di smantellarla quanto a libertà di pensiero e di ricerca». Il primo colpo di piccone, la mission dell'università: La legge non ha nel mirino lo Stato giuridico dei professori universitari. Non apre bocca sui «diritti» dei docenti (è preoccupante il silenzio che ricopre la libertà di insegnamento e di ricerca) e sui loro «doveri» (è grave la liberalizzazione per tutti dell'esercizio delle attività professionali esterne, che provocherà una crescente indisponibilità dei professori ordinari ad assumere cariche di governo istituzionale e di conduzione dei corsi di laurea). L'obiettivo è un altro. Duplice. Da una parte, quello di separare la didattica (l'insegnamento) dalla ricerca (la produzione scientifica). La prima resta nelle università pubbliche, tramutate in superlicei col compito di assicurare un'elevata formazione professionale: tanto da giustificare, nel nome del fabbisogno del mondo del lavoro, logiche meritocratiche e di dura selezione. La ricerca verrà invece finanziata in neofiti atenei privati e Centri di eccellenza (sempre privati) controllati dal potere politico. L'obiettivo del governo del Polo è quello di poter decidere (restando al governo) l'accelerazione o la decelerazione dei singoli settori scientifico-disciplinari. Probabilmente, saranno instradate su binari-morti le aree umanistiche e buona parte di quelle scientifiche, mentre sarà offerta l'alta velocità agli ambiti tecnologico-informatici. Indossando una volta ancora una veste aziendalistica, il ministro del Miur mira a demolire l'attuale architettura degli studi postsecondari, ridisegnandola su nuova ingegneria piramidale e centralistica. Il secondo colpo di piccone, la precarizzazione:
Con l'esaurimento, l'attuale ruolo dei ricercatori si pone contro i giovani
che per l'eccellenza dei loro esiti di laurea e di dottorato dispongono del pass
per intraprendere la carriera accademica. Abolendo la terza fascia universitaria
(per l'appunto quella dei ricercatori), i giovani talenti vengono costretti a
entrare nel tunnel della precarizzazione dei contratti di collaborazione a tempo
determinato. Una stabile collocazione nel mondo accademico potrà scoccare – se
tutto filerà liscio – poco prima del loro mezzo secolo di vita. Questo significa
che la fuga dei cervelli si farà endemica. Assumendo una metafora calcistica, il
nostro paese, probabilmente, disporrà di un ricco «vivaio» di talenti che
esporterà (con quali contropartite?) all'estero. La precarizzazione è figlia di
primo letto di una visione aziendalistica della scienza e della cultura,
governata da pochi (il potere tutto in mano ai cattedratici: ai baroni) e
gestita secondo la spietata legge della competitività-concorrenzialità
codificata dalla new economy. Il tutto, senza rendersi conto che una macchina
formativa e investigativa verticalistico/piramidale, resa inferma da una diffusa
instabilità della maggioranza di coloro che produrranno ricerca e nuove
professionalità, non potrà che andare a due cilindri: arrancando nelle retrovie
della scienza e rischiando una diffusa corruzione concorsuale. Dunque,
un'università pubblica sempre più costretta a lasciare il passo ai neofiti
Centri privati di ricerca (infioccati con il titolo di eccellenza dal ministro:
e perché?). Il tutto oscurato da Finanziarie che disinvestono cinicamente sulla
formazione, sulla cultura e sulla ricerca scientifica: di base e applicata.
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