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| << | < | > | >> |IndiceI 11 Chiari del bosco II Il risveglio 23 La preesistenza dell'amore III Passi 43 Metodo 44 Le operazioni della logica IV Il vuoto e il centro 55 La visione — La fiamma 57 Il vuoto e la bellezza 58 L'inabissarsi della bellezza 60 Il centro — L'angoscia 63 Il centro e il punto privilegiato V 67 La metafora del cuore VI Parole 87 Prima che si proferissero le parole 90 La parola del bosco 92 La parola perduta 93 La parola che si custodisce 95 Lo scritto 98 L'annuncio 101 Il concerto 104 Solo la parola VII Segni 111 Segni, semi 113 I segni naturali 115 L'adorazione della luna — La cicuta 119 La Medusa 123 Gli occhi della notte 125 L'unità e l'immagine 126 Il punto 130 La meta 132 Il punto oscuro e la croce VIII L'abbandono indecifrabile 135 L'abbandono indecifrabile IX 143 I cieli 149 Appendice 151 Lo specchio di Atena 165 Postfazione di Carlo Ferrucci |
| << | < | > | >> |Pagina 11Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. È un altro regno che un'anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama l'attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell'istante e che mai più si darà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l'analogia del chiaro con il tempio può sviare l'attenzione. | << | < | > | >> |Pagina 23Il risveglio privilegiato non deve aver luogo necessariamente dal sonno. Posto che sonno e veglia non sono due parti della vita, che essa, la vita, non ha parti, bensì luoghi e volti. E così dal sonno e da certi stati di veglia ci si può risvegliare in questo modo privilegiato che è il risveglio senza immagini. Risvegliarsi senza immagine anzitutto di se stesso, senza alcuna immagine della realtà, è il privilegio di quest'istante che può trascorrere inafferrabile ma lasciando, questo sì, la sua impronta; un'impronta inestinguibile, ma che non si sa decifrare, perché non c'è stata conoscenza. E nemmeno una semplice registrazione di quell'esserci svegliati a questo nostro qui, a questo spazio-tempo in cui l'immagine ci assale. Dell'aver respirato soltanto in una solitudine privilegiata sulle sponde della fonte della vita. Un istante di esperienza preziosa della preesistenza dell'amore: dell'amore che ci concerne e che ci guarda, che guarda verso di noi. | << | < | > | >> |Pagina 44"Quoniam tu flagelas et salvas, deducis ad inferos et reducis", dice il libro di Tobia. Nel momento in cui il suo cantico prorompe dinanzi all'Arcangelo Raffaele, l'anziano Tobith dice al suo Signore: "Quoniam tu flagelas et salvas, deducis ad inferos et reducis." Sembra impossibile tradurre una frase del genere senza farle perdere qualcuno dei suoi significati, uno specialmente: la deduzione agli inferi, che non è certamente lo stesso che il condurre a essi. Non si può attribuire al geniale traduttore della Vulgata l'intenzione di mostrare che la deduzione, operazione logica, conduce agli inferi, o, inversamente – che sarebbe lo stesso – che l'inferno è qualcosa di dedotto. Eppure, al di là delle intenzioni dell'autore di tale testo, prevale l'impressione che agli inferi si scenda per deduzione, e che essi stessi siano qualcosa di dedotto. E che il tornare sia di conseguenza un'induzione che però rimane al contempo una ri-duzione. La tranquillizzante operazione de-duttiva, ovvero il più sicuro tragitto aperto alla mente dalla Logica formale, è dunque una fatalità, una fatale declinazione? E l'induzione, la modesta, cadetta induzione, un tirar fuori qualcosa di sommerso, appiccicato, aderito o lasciato semplicemente lì, nell'oscurità? | << | < | > | >> |Pagina 63Si tende a pensare che il centro di se stessi si trovi ben dentro la nostra persona. Ciò evita a quest'ultima di preoccuparsi di ciò che si muove nell'intimo. Il movimento più intimo non può essere che quello del centro stesso. E questo anche quando s'intenda il vivere come un'esigenza di intima trasformazione. La proprietà del centro è di attrarre, di raccogliere intorno a sé tutto quanto procede disperso. Il che comporta che esso sia sempre immobile. E il centro ultimo lo ha da essere, immobile. Mentre nell'uomo, creatura tanto subordinata, il centro dev'essere quieto, che non è lo stesso che immobile. È proprio la quiete, al contrario, a consentire al centro di muoversi a modo suo, in conformità alla sua incalcolabile "natura". Non c'è atto umano che non si verifichi seguendo una scala, senza dubbio ascendente, con la minaccia, raramente evitata del tutto, della caduta. Una scala che, per quanto seguita con una certa continuità, conosce periodi decisivi, tappe, indugi. | << | < | > | >> |Pagina 92Non solo il linguaggio ma le parole tutte, per uniche che ci appaiano, per sole che vadano e per inattesa che sia la loro comparsa, alludono a una parola perduta, come si sente e si sa all'improvviso con angoscia a volte, e in una sorta di albeggiare che palpitando la annuncia da un momento all'altro. E la si sente anche pulsare nel fondo della respirazione stessa, del cuore che la custodisce, garanzia di ciò che la speranza non riesce a immaginare. E nella stessa gola, in atto di sbarrare íl passo con la sua presenza alla parola in procinto di uscirne. Quella porta che l'alba chiude nel momento in cui si apre. L'amore che non arriva mai, che viene meno sul filo dell'aurora, l'inafferrabile che si separa da quelli che si accingono a morire o stanno già morendo, e che lottano – tormento dell'agonia – per lasciarla qui e diffonderla quando non gli è più possibile farlo. La parola che se ne va con la morte violenta, e quella che sentiamo che la precede come guida, la guida di quelli che, alfine, possono morire. Perduta la parola unica, segreto dell'amore divino-umano. E non si riferiranno per caso ad essa quelle parole privilegiate a stento udibili come mormorìo di colomba: Direte che mi sono perduta, / Che, andando innamorata, / Mi persi a bella posta e fui trovata? | << | < | > | >> |Pagina 93La parola che un essere umano custodisce come se fosse fatta della sua stessa sostanza, quantunque egli stesso l'abbia un giorno appresa o formata. Quella che non si dice perché il dirla significherebbe anche contraddirla col darla come nuova o coll'enunciarla come se potesse accadere; la parola che non può trasformarsi in passato e per la quale non si conta sul futuro, quella che è unita con l'essere. E che si presenta, e perfino si vede, come profetizzata in alcune creature non umane, in alcuni animali che sembrano portare con sé una parola che sono sul punto di lasciar intendere nel momento in cui muoiono. E anche nella quiete ineguagliata delle bestie che guardano il sole come se fossero i suoi guardiani, vedi le immagini che l'arte ha immortalato nel viale del tempio di Delo.
E nel firmamento, alcune costellazioni o astri sembrano solo custodire
qualche parola e vegliare per lei, con lei, sull'immensità inconcepibile degli
spazi interstellari, i vuoti e la cavità dell'universo, vedette del Verbo.
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