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| << | < | > | >> |Pagina 11Postfordismo è termine la cui diffusione è ormai codificata in numerosi ambiti di ricerca: dalla sociologia all'economia, dalla politologia all'urbanistica, al diritto commerciale internazionale [Amin, 1994]. La sua fortuna è dovuta soprattutto alla "scuola regolazionista" francese, a sua volta ispiratasi all'"operaismo" italiano. Il termine indica un modello sociale il cui modo di produzione non è più dominato da forme di accumulazione verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate tra rappresentanze collettive e supervisionate dallo stato, bensì da forme di accumulazione flessibili, [Harvey, 1993, 151-244] capaci di integrare, di mettere in rete, modi, tempi e luoghi di produzione tra loro molto diversi: dalla fabbrica robotizzata alla cascina Hi Tech, dal distretto industriale alle maquilladoras messicane, ai templi della finanza globale. Ne esce ridisegnato il carattere internazionale dei processi di produzione e controllo. In primo luogo, è riformulato il rapporto tra sovranità politica e sfera economica; in secondo, i processi mondiali di creazione di ricchezza, al cui interno i differenziali salariali tra le diverse realtà nazionali vengono utilizzati per la costruzione reticolare delle imprese su scala transnazionale. Essenziale in ciò è il legame tra informazione, comunicazione, sapere e produzione. Saperi e conoscenze immagazzinati nelle reti telematiche, non meno che la più comune cooperazione linguistica di uomini e donne, nel loro concreto agire, sono il tessuto connettivo grazie a cui si costituisce il "capitale sociale" delle società postfordiste [Bagnasco, 1999, 65-85]. In esse gioca un ruolo decisivo un general intellect, un insieme di saperi e conoscenze non riducibile a un agire macchinico determinato (al "capitale fisso" marxiano), per quanto complesso esso sia [--> General intellect ]. Nei processi lavorativi contemporanei, ci sono pensieri e linguaggi che funzionano di per sé come "macchine" produttive, senza dover adottare un corpo fìsico, meccanico o elettronico. Tali pensieri e linguaggi appartengono - anche, non solo - all'esperienza degli individui [--> Capitale culturale ]. Ed è appunto nella progressiva difformità e nello scarto tra una intelligenza collettiva diffusa e il "cervello sociale" sussunto negli stessi processi lavorativi che si può scorgere la matrice conflittuale, complessa e contraddittoria della produzione postfordista e, allo stesso tempo, i processi che definiscono in termini di biopotitica [--> voce ] le modalità di controllo, di regolazione e di riproduzione della forza-lavoro e della soggettività su scala planetaria [--> Strategie lill.]. Delineiamo in breve questi punti. | << | < | > | >> |Pagina 13Una delle questioni frequentemente sollevate a livello macroeconomico è relativa alle posizioni di chi, dati alla mano, ritiene che l'economia mondiale fosse, comparativamente, più "globale" nel periodo tra il 1870 e il 1914, data la maggiore intensità del movimento di capitali per investimenti diretti esteri [ma cfr. Andreff, 2000]. Ora, è caratteristica di queste posizioni mostrare a quale impasse conducano le analisi della globalizzazione che non pongono al centro dell'attenzione i mutamenti dei modi di produrre e le trasformazioni della natura del lavoro. Come osserva Marazzi, inoltre, quello che queste interpretazioni perdono per strada è la forma sociale che i processi di globalizzazione comportano, essenzialmente: a) il ruolo del nuovo capitale finanziario dal punto di vista del risparmio operaio (rendita pensionistica); b) la finanziarizzazione delle economie domestiche; c) la crisi della relativa autonomia della regolazione monetaria del ciclo economico; d) la subordinazione delle politiche delle banche centrali alle dinamiche dei mercati borsistici; e) la disintermediazione bancaria come risultato della riduzione progressiva dei tassi di interesse; f) la crescita non inflazionistica, ossia la produzione di un'eccedenza strutturale di ricchezza sociale che le tradizionali manovre sui tassi di interesse per la regolazione dei cicli economici non riescono più a veicolare senza aggravare l'instabilità del sistema finanziario globale [--> Globalizzazione ].| << | < | > | >> |Pagina 17Il modo di produzione fordista non è stato di certo un modello universale, le sue realizzazioni sono state perciò diversificate a seconda delle realtà nazionali: dei loro assetti istituzionali, delle macrodinamiche creditizie, dell'impatto degli shock esterni [Boyer, 1999]. Nonostante tutto, è però possibile individuare delle caratteristiche comuni, che vanno dall'ipotizzare una crescita illimitata della produzione di massa e della capacità di assorbimento del mercato al ricorso costante alle economie di scala; dallo scientific management taylorista alle politiche anticicliche keynesiane; dall'imporsi, come soggetto politico autonomo, di una classe operaia unskilled, riconosciuta nella sua alterità politica, al suo radicalizzarsi in quello che fu definito turbulent environment. Tutto ciò assunse in Italia un profilo particolare e qualificò, da subito, la riflessione italiana sulla transizione postfordista come paradigmatica. Lo riconosce Krishan Kumar [2000], quando scrive che le radici della teoria postfordista affondano proprio negli sviluppi dell'economia italiana e che è dunque nel "caso italiano" che vanno ricercati i principali ingredienti dell'analisi postfordista.Una certa cautela è comunque necessaria quando si tratti di definire i caratteri generali della transizione postfordista, al fine di evitare inutili dispute nominalistiche o, peggio, pericolose piccole filosofie della storia. Il termine postfordismo ha suscitato "sentimenti" molto contrastati: da una sorta di vero e proprio "lutto" alla gioiosa prefigurazione di un nuovo - cela va sans dire, migliore - capitalismo delle opportunità [cfr. Rullani, Romano, 1998]. Nessuno di questi "sentimenti" è adeguato. In ogni caso, il delinearsi di alcune macrotendenze chiare e, ormai, di lungo periodo, ci sembra esplicito. Potremmo così sintetizzarle: a) accresciuta flessibilità di localizzazione e di delocalizzazione dei processi produttivi; b) espansione delle istituzioni finanziarie che operano in ambito internazionale e conseguente transnazionalizzazione della proprietà e del controllo delle grandi corporation; c) riorientamento dei flussi internazionale degli investimenti (affermazione degli Usa come principale destinatario degli investimenti esteri diretti); d) internazionalizzazione dei servizi; e) accesso a mercati del lavoro periferici, anche nei settori di punta; f) interazione tra mercati del lavoro tradizionali e informali locali e mercati del lavoro internazionali; g) forti differenziazioni salariali al loro interno, verticali e orizzontali. | << | < | > | >> |Pagina 19La fatica dei linguaggioIn quest'insieme di dinamiche, i mutamenti possono essere colti da diverse angolature. È tuttavia nostra convinzione che "spia" essenziale sia e rimanga il lavoro e, nello specifico, il suo caratterizzarsi sempre più - tenendo pur nel debito conto le diversità geopolitiche - come processo informale, che prefigura, accanto a un nucleo di occupazione relativamente stabile (ma non più necessariamente privilegiato), una precarizzazione di massa, un'intermittenza diffusa tra lavoro e disoccupazione, l'estendersi di ampi "moduli" di lavoro autonomo in settori non tradizionali, fortemente connessi alle attività di reti locali e globali, collegati alle nuove professioni, alla domanda di lavoro emergente nelle imprese della network economy, e caratterizzati da una varietà di figure lavorative [--> Lavoro aut. ; Bologna, Fumagalli, 1997]. Tali sviluppi sono da tempo identificati, [Harvey, 1990, 189] ma ciò che è fondamentale è riconoscere il tratto distintivo che accomuna gran parte dei processi lavorativi. Processi i quali, grazie al potente sviluppo della "information technology society", rivelano che la loro sempre più diffusa e spiccata natura comunicativa è da individuarsi nel fatto che la "fatica linguistica" risulta essere preponderante in tutti i settori produttivi, materiali o immateriali che siano, senza che questo comporti alcuna disincantata "convivialità". Nelle società in cui prevale l'informazione, le differenze non si tolgono, si amplificano. Ciò che è specifico in quello che Manuel Castells [1989] definisce "informational mode of development" è il fatto che la conoscenza, accumulandosi, induce nuova conoscenza come fonte primaria di produttività e di mutamento sociale, per mezzo del suo impatto sui processi produttivi, culturali, amministrativi. È chiaro che, nelle sue linee generali, ogni modo di produzione ha sempre comportato l'accumularsi di esperienze e saperi, generici e determinati. Nello specffico odierno, tuttavia, vi è una sorta di "produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza", determinata da costanti interazioni produttive, garantite non solo dai sistemi di infonnazione en général, ma anche, e soprattutto, dalle particolari nervature informazionali e comunicative che pertengono ai diversi processi produttivi e sociali nella loro interezza. Questi ultimi sfruttano tecnologie il cui "core" è costituito da elaborazioni di informazioni che sono, a un tempo, materia prima e prodotto. Conseguentemente, l'incarnarsi di quelle tecnologie in merci e servizi, in decisioni e procedure, è il risultato dell' applicazione del loro output informazionale, non ne costituisce l'output proprio. Lo stesso ruolo assolto dal macchinario in quanto tale viene dopo le sinergie rese possibili dal suo utilizzo. | << | < | > | >> |Pagina 25Non ci sono più saggi o maestri che possiedano come talento la propria vita da "narrare fino in fondo" a chi non ha "consiglio". Quest'ultimo è ormai un complesso di "istruzioni per l'uso", incessantemente rivisto e rinnovato: al "barbaro" benjaminiano succede un "comune" postfordista, sicuramente ingabbiato, ma in ogni modo dotato di una frastagliata esperienza dei confini, della mutabilità delle "chiavi d'accesso" , della mobilità/trasformabilità dei costrutti identitari. Questo "comune" può essere raffigurato, ancora, come una sorta di "barbaro", ma equipaggiato tecnologicamente, [--> Tecnica; Cyborg ] ricco di competenze sempre diverse, che tenta di dare un senso soggettivo alla sua mobilità attraverso i terminali applicativi, sempre più "ratificati", del sapere sociale generale, della potenza complessiva degli "agenti", dello stesso stato della scienza e della tecnologia, riscoprendo in tutto ciò il protagonismo del lavoro vivo, dunque dell' intellettualità di massa.
Il libro raccoglie circa sessanta
Voci,
selezionate, senza alcuna presunzione di completezza, dopo
mesi di lavoro e discussione, e scritte da autori e autrici
italiani e stranieri noti per il loro impegno di ricerca a
diversi livelli: accademico, pubblicistico, editoriale.
È organizzato come un "dizionario di idee", in ordine
alfabetico; ma è anche una sorta di ipertesto e consente
perciò più letture trasversali. È uno strumento che cerca
di fissare quelli che già sono una lingua e un apparato
concettuale comuni. Il semplice fatto che a questo lavoro
abbiano collaborato circa cinquanta persone rende palese la
mole del nostro debito. Ci preme comunque esprimere un
particolare ringraziamento a Raf "Valvola" Scelsi che, sin
dall'inizio, ha pensato e costruito con noi questo
Lessico.
Egli è davvero il terzo curatore.
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