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Italo Zannier
«A partire dagli anni ottanta del diciannovesimo secolo — osservava Paolo Costantini in un volume sui "paparazzi", il primo in Italia — la caratteristica principale del fotografo è stata la sua aggressione. La volontà, il desiderio di violare ogni convenzione sociale per poter "prendere" una fotografia»; e alludeva principalmente a fotoamatori «signorili» (la definizione è di Lamberto Vitali, primo storico della fotografia italiana). Nobili e signorili, come il conte Chigi o il barone Nesci, ma tra i protagonisti da ricordare eccellono gli splendidi aristocratici Gegè e Lulù Primoli — Giuseppe Napoleone e Luigi —, il primo addirittura con la vocazione del paparazzo, già sul finire dell'Ottocento. Nasceva allora la fotografia snapshot, scatta e fuggi (ma Gegè non scappava!), rapida come l'istantanea che finalmente prometteva, con la semplificazione del procedimento alla gelatina-bromuro d'argento, e gli apparecchi più piccoli, gli obiettivi più luminosi ecc., gesti fotografici prima impossibili, mentre si avviava la cosiddetta massificazione della pratica di questo mezzo espressivo, che allora aveva neppure cinquant'anni. Anche la foto-ricordo e quella famigliare si fecero pettegole e impertinenti; il fotografo cercava di cogliere, meglio se all'insaputa e quindi di sorpresa, altrimenti sfuggevoli atteggiamenti, espressioni fugaci e, se possibile, anche divertenti, come lo possono essere specialmente certe candid fotografie d'epoca. I teatri, gli spazi resi o intuiti come scenografici per questi souvenir, furono le strade, i caffè, gli ippodromi, le spiagge, che iniziavano ad essere considerate luoghi d'incontro mondano e non soltanto elioterapico. Ancora è presente Gegè Primoli, il campione antesignano di questa categoria, che coglieva Degas mentre a Parigi usciva da un Vespasiano abbottonandosi i pantaloni, o mentre, in un centesimo di secondo, una bella ed elegante dama sollevava la gonna prima di attraversare con un breve salto una pozzanghera d'acqua nel marciapiede, e poi gli amici che sbalordivano con l'espressione del tifoso, mentre un cavallo superava l'ostacolo più difficile all'ippodromo di Tor di Nona. | << | < | > | >> |Pagina 25L'età dell'innocenza. Sophia, Virna, Claudia e le altre...
Irene Bignardi
Una immortale canzone vintage di Johnny Cash diceva: Harry Truman was our president / A burgh and coke would cost just seven cents, e via tracciando, a ritmo di country rock, di presidenti e del costo degli hamburger e delle coche a diciassette cents di dollaro, la mappa di come si viveva in quegli anni in America. Per stendere la mappa italiana dei non tanto formidabili ma estremamente interessanti anni di queste fotografie — grosso modo dal 1950 ai primissimi anni sessanta, prima dei rivolgimenti che avrebbero resi obsoleti molti riti e molte bellezze — possiamo provare a dire che il nostro presidente era Einaudi, seguito da Gronchi e poi da Segni, che i governi erano invariabilmente democristiani, che il boom arricchiva l'Italia, Andreotti suggeriva al cinema di lavare i panni sporchi in casa, le ragazze erano (apparentemente) molto modeste nei loro atteggiamenti, i costumi da bagno erano delle corazze e i bikini un'audacia, gli anticoncezionali restavano un segreto di famiglia, il biglietto del tram (e il caffè) costava venti poi trenta poi trentacinque lire, la televisione faceva i primi passi per unire, almeno linguisticamente, l'Italia, il vescovo di Prato arringava dal pulpito contro coloro che si sposavano civilmente, la censura colpiva duramente chi difettava d'amor patrio o abbondava di altri amori, dall'America arrivava di seconda mano l'isteria anticomunista innescata da McCarthy, e tutti andavano pazzi per la Coca-Cola (come adesso, ma adesso in versione light). E ogni settembre un festival illustre e famoso che aveva attraversato giorni duri, era stato sospeso durante la guerra, era ricominciato nel 1946, si era riconsolidato come uno dei maggiori eventi cinematografici del mondo, ogni settembre quel festival — la Mostra d'arte cinematografica di Venezia, diretta da austeri signori che si chiamavano Petrucci, Croze, Ammannati, Chiarini — inventava nuovi nomi che gli appassionati di cinema non dovevano dimenticare, innescava risse sui Leoni d'oro, che, come oggi, non erano sempre apprezzati all'unanimità, e attirava sulla spiaggia del Lido e per le calli e i campi di Venezia il meglio della bellezza internazionale, e le speranze e le aspettative di chi cercava un posto al sole. E squadre di fotografi, antesignani e amici del felliniano Paparazzo (che vedrà la luce sullo schermo solo nel 1960, ma che esisteva nella vita con la faccia e l'audacia di Tazio Secchiaroli), in quei magici dodici giorni di glamour e di tappeti rossi scatenavano i loro flash e la loro fantasia compositiva cercando la bella posa, l'inquadratura giusta, il tocco originale che avrebbe garantito alla loro foto il diritto di essere pubblicata. Le signore delle immagini che vengono qui proposte in un percorso attraverso la nostalgia per una bellezza d'antan — quelle di cui ci si ricorda il nome, perché sono molte le belle ormai dimenticate, che persino negli accuratissimi archivi dei nostri fotografi non hanno più un'identità — si chiamavano Ingrid Bergman, Maria Felix, Anna Maria Ferrero, Virna Lisi, Alida Valli, Sophia Loren, Franca Rame. C'erano le cantanti — come Juliette Greco. C'erano le grandi soprano come Maria Callas o Anna Moffo, che volteggia gambe al vento su un prato del Lido. C'erano le artiste, come Novella Parigini, e le ragazze della buona società veneziana e internazionale, come Marina Cicogna. E c'erano le aspiranti attrici e concorrenti del concorso per Miss Cinema, le ragazze carine, un po' troppo in carne per il modello ideale della bellezza anoressica di oggi, che in squadra, in formazione da «terzo stato», correvano ridenti sulla spiaggia con le loro fasce di seta a tracolla. Tutte, meno poche rimarchevoli eccezioni (Marina Cicogna con un favoloso abito bianco da principessa mentre si prepara per il leggendario ballo Besteguy, a palazzo Labia, o Jeanne Moreau giovane, naturale e già misteriosa, di profilo, accanto a una colonna di piazza San Marco, o un'incantevole Brigitte Bardot nello splendore del suo sorriso), tutte, persino la Callas dopo la dieta, a posare su quel mezzo chilometro di spiaggia dove oggi nessuno si fa più fotografare, manco fosse un imbarazzante retaggio del buon tempo antico, sdraiate sulla battigia che allora per molti si chiamava ancora bagnasciuga, o nuotando goffamente in un mare appena increspato, o in posa tra capanni orientaleggianti e tetti merlati, o nei luoghi più celebri e visti di Venezia, o — e qui si rivela la povertà dell'epoca — in certe stanzucce d'albergo senza stile né charme, coi copriletto fané a quadri e le lampade «moderne». E se non sono a Venezia, tentano la fortuna con foto destinate a uscire in concomitanza del festival, nelle intenzioni inventive e «originali», scattate a casa ma buone per approdare al Lido...
Foto spontanee, naturali, rubate? No, sono tutte in posa, queste signore,
per la posa che avrebbe confermato la loro notorietà o l'avrebbe creata. Ci
contava, sicuramente, su quella posa originale, la modella Anna Gatti, che, a
mo' di esibizionista, spalanca il soprabitino estivo per rivelare la opulenta
guepière di pizzo nero, a cui fa pendant un piccolo cappellino a tocco — e
che ritenta l'exploit in versione più casta, dal punto di vista cromatico,
scegliendo il bianco, ma sollevando maliziosamente la gonna. Ci contava,
sicuramente, sulla sua posa improbabile, Katia Magni, che rabbrividisce di
freddo, in castigatissimo bikini, sotto un ombrello - e sotto la pioggia — in
una cupissima spiaggia dell'Excelsior. 0 la starlet Virginia Pali che si
esibisce in una acrobatica posa su un tetto dall'aria pericolante dove chissà
come ha fatto ad arrivare (si sospetta la complicità del fotografo).
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