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| << | < | > | >> |Indice3 Prologo Sotto il Danubio 11 1 I viaggi spaziali 13 2 Quella cosa chiamata luce 19 3 I cani da pastore e le particelle di luce di Einstein 28 4 Einstein, ossia come nasce un premio Nobel 30 5 Il conflitto 32 6 L'aspetto determinante dell'indeterminazione 36 7 L'indeterminazione quantistica: una conseguenza della nostra ignoranza o il mondo funziona davvero così? 45 8 La meccanica quantistica è contro il teletrasporto? 48 9 L'entanglement quantistico accorre in aiuto 62 10 Alice e Bob nel laboratorio di fisica quantistica 71 11 La polarizzazione della luce: a lezione dal professor Quantinger 91 12 Alice e Bob scoprono i gemelli... 104 13 John presenta Einstein, Podolsky e Rosen 128 14 Sulle variabili nascoste locali 133 15 L'esperimento di Alice e Bob dà strani risultati 138 16 La storia di John Bell 147 17 Alice e Bob scoprono che le cose non sono come sembrano 151 18 La velocità della luce e i viaggi nel tempo 156 19 Alice, Bob e la velocità della luce 164 20 Le falle dei primi esperimenti 170 21 Tra le montagne del Tirolo 182 22 La lotteria quantistica 189 23 La lotteria quantistica con due fotoni 200 24 Il denaro quantistico: un dramma per i falsari 207 25 Un camion quantistico riesce a trasportare più di quanto possa caricare 212 26 Le sorgenti atomiche di particelle entangled: i primi esperimenti 216 27 La supersorgente: progressi nelle falle sugli esperimenti 220 28 Teletrasporto quantistico tra le sponde del Danubio 231 29 Il multifotone: una sorpresa e, come per incanto, il teletrasporto quantistico 238 30 Teletrasportare l'entanglement 251 31 Gli altri esperimenti 257 32 L'informazione quantistica 261 33 Il futuro del teletrasporto quantistico 267 34 Segnali dal cielo su Tenerife 272 35 Gli sviluppi recenti e alcune questioni aperte 279 36 Che cosa significa tutto ciò? Appendice 285 L'entanglement: un puzzle quantistico 305 Glossario 309 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina 4In un angolo, lontana da noi, scorgiamo una piccola stanza dalle pareti di vetro. Avvicinandoci notiamo che all'interno ci sono laser e altri strumenti tecnologici d'avanguardia, come moderni apparati elettronici, computer e cose simili, e incontriamo Rupert, uno studente di dottorato dell'università di Vienna. Rupert sta lavorando alla sua tesi, che, ci confida, spera di finire presto per ottenere così il titolo di Ph.D. Il suo progetto di ricerca è intitolato Teletrasporto quantistico a lunga distanza. Chiediamo dunque a Rupert se ci può spiegare in poche parole che cosa siano tutti i macchinari intorno a noi, e lui ci racconta che lo scopo dell'esperimento su cui sta lavorando è di teletrasportare una particella di luce, un fotone, dalla riva dell'Isola del Danubio all'altra sponda del fiume, dal lato di Vienna.Rupert si accorge che non stiamo capendo un granché, e quindi ci spiega che il teletrasporto è un po' come un'«incursione» nel campo della fantascienza «ma non più di tanto» e, con un gran sorriso, prosegue la sua spiegazione. Noi continuiamo a non capirci molto, ma lo ascoltiamo sempre più affascinati. Ci promette che più tardi ci descriverà il tutto in maniera dettagliata; per il momento, quindi, vogliamo solo acquisire familiarità con l'argomento e con i concetti che sta studiando, con il linguaggio che usa, e conoscere un po' gli strani strumenti che ci circondano. Impariamo così che i laser nella stanza servono a produrre un tipo di luce davvero particolare. La luce è formata da particelle, i cosiddetti fotoni, e questi laser producono coppie speciali di fotoni detti entangled, ossia correlati quantisticamente l'uno con l'altro. Come impareremo meglio tra poco, questo significa che i fotoni della coppia sono strettamente legati e interconnessi tra loro e che, quando eseguiamo una misura su uno dei due fotoni, l'altro ne sarà istantaneamente influenzato, non importa quanto distante si trovi. Il concetto di entanglement, o correlazione quantistica, fu introdotto nel 1935 dal fisico austriaco Erwin Schrödinger per descrivere una situazione davvero particolare. Qualche tempo prima Albert Einstein aveva accennato a un nuovo e interessante fenomeno che appariva in meccanica quantistica, descrivendolo in un articolo che pubblicò insieme ai suoi giovani colleghi Boris Podolsky e Nathan Rosen. Per capire qualcosa sul concetto di entanglement, consideriamo due particelle che abbiano interagito in qualche modo l'una con l'altra. Supponiamo, per esempio, che si siano scontrate, come due palle da biliardo, per poi allontanarsi. Nella fisica classica (la fisica, diciamo, "tradizionale"), se una palla si muove verso destra, l'altra va a sinistra. Inoltre, se conosciamo la velocità della palla in movimento, in che modo essa ha colpito la palla a riposo, e anche la velocità e la direzione in cui si muove la palla colpita dopo l'urto, possiamo calcolare esattamente dove quest'ultima andrà a finire. In pratica, si tratta del piccolo esercizio che un buon giocatore di biliardo fa ogni volta che colpisce una palla con la stecca. Le palle da biliardo quantistiche si comportano in maniera molto più insolita; anche loro si allontanano dopo l'urto, ma con alcune strane e davvero interessanti differenze rispetto al caso classico. Anzitutto nessuna delle due palle ha una velocità ben definita, e non si muove neppure in una direzione specifica. In realtà, pur allontanandosi l'una dall'altra, dopo la collisione le due palle non hanno proprio una velocità o una direzione del moto assegnate. Il fulcro della questione è che, non appena osserviamo una delle palle da biliardo quantistiche, essa istantaneamente assume una certa velocità e si muove lungo una certa direzione, allontanandosi dal punto dell'impatto. In quel preciso istante, ma non prima, l'altra palla assume la velocità e la direzione corrispondenti; questo avviene a prescindere da quanto le due palle siano distanti in quel momento. Quindi, le palle da biliardo quantistiche sono entangled, sono gemellate quantisticamente. Ovviamente non è possibile osservare questo tipo di fenomeno usando palle da biliardo vere e proprie, tuttavia è qualcosa di perfettamente normale per le particelle elementari. Due particelle che collidono rimangono intimamente connesse anche a grandi distanze; è il vero e proprio atto di osservare una delle due particelle che influenza istantaneamente l'altra, non importa quanto lontano questa sia andata. Questo strano comportamento non piaceva ad Einstein: egli infatti lo definì una «misteriosa azione a distanza», e sperava che i fisici potessero trovare un modo per liberarsene. Al contrario di Einstein, Schrödinger accettò questo fenomeno come qualcosa di completamente nuovo, e coniò per esso il termine entanglement. L' entanglement è la caratteristica distintiva della fisica quantistica, che ci costringe ad abbandonare tutte le nostre amate convinzioni su come funzioni il mondo. Quando gli chiediamo a che cosa servano i suoi fotoni entangled, Rupert sorride e risponde: «Proprio qui sta il trucco». Mentre uno dei due fotoni viene trattenuto all'interno del suo minilaboratorio sotto il livello dell'acqua, l'altro viene inviato lungo una fibra ottica verso un ricevitore che si trova dall'altro lato del fiume. | << | < | > | >> |Pagina 11Capitolo 1
I viaggi spaziali
Quando sentiamo parlare di teletrasporto, spesso pensiamo che sarebbe il modo ideale di viaggiare. Scomparire semplicemente da dove ci troviamo per riapparire un attimo dopo nella nostra destinazione sarebbe davvero il modo più veloce di muoversi: decisamente allettante! Tuttavia a questo punto un avvertimento è d'obbligo: spostarsi con il teletrasporto è ancora appannaggio della fantascienza e non della scienza. Fino ad oggi gli uomini sono riusciti unicamente ad arrivare sulla Luna, che, su scala cosmica, è qualcosa di molto vicino, in pratica equivalente al nostro giardino di casa. Solo all'interno del sistema solare, i pianeti a noi più vicini, Marte e Venere, sono circa mille volte più distanti della Luna, per non parlare dei pianeti più esterni. Come esercizio interessante, possiamo provare a calcolare quanto tempo impiegheremmo a raggiungere le altre stelle. Il programma Apollo, grazie al quale i primi uomini sono giunti fin sul nostro satellite, ci ha insegnato che ci vogliono circa quattro giorni per viaggiare dalla Terra alla Luna. Una navicella spaziale impiegherebbe invece circa 260 giorni per raggiungere Marte, e solo per il viaggio di andata. È chiaro che i nostri esploratori avrebbero di che annoiarsi e potrebbero decidere di fare buon uso del loro tempo compiendo esperimenti sul teletrasporto quantistico. Per giungere ancora più lontano potremmo sfruttare il campo gravitazionale terrestre, o quello degli altri pianeti, ricorrendo alla stessa tecnica che in passato ha permesso a missioni senza equipaggio di esplorare i pianeti esterni del sistema solare. L'idea, piuttosto semplice, è di far passare la navicella sufficientemente vicina a un pianeta e, attraverso un effetto simile a quello di una fionda, accelerarla su una nuova orbita che la conduca molto più lontano. Grazie a questa soluzione, per esempio, in circa undici anni la sonda Pioneer 10 è riuscita a superare il pianeta più esterno del sistema solare, in un viaggio verso le stelle che forse durerà per sempre. Possiamo dunque stimare che alla velocità attuale ci vorranno altri 100.000 anni prima che Pioneer 10 raggiunga Proxima Centauri, la stella più vicina al Sole. Se le cifre sono queste, meglio disporre di qualche altra tecnica per coprire lunghe distanze e viaggiare nello spazio in maniera più efficace. L'ideale sarebbe raggiungere istantaneamente qualunque luogo, senza porre alcun limite alle lunghezze che possiamo percorrere. Ma, almeno in linea di principio, è davvero possibile? Gli scrittori di fantascienza hanno inventato il teletrasporto proprio per rispondere a quest'esigenza: scomparire magicamente da un luogo e, appena un istante dopo, ricomparire magicamente da un'altra parte. | << | < | > | >> |Pagina 19Capitolo 3
I cani da pastore e le particelle di luce di Einstein
Ogni anno, in tutto il mondo, decine e decine di concorsi cercano di stabilire quale sia il miglior cane da pastore. Una delle prove da superare consiste nel radunare un gregge di pecore per poi condurle in un luogo ben definito, per esempio all'estremità di un campo. Dal punto di vista di un fisico, nell'eseguire questo compito, un cane da pastore aumenta l'ordine di un sistema, perché prima del suo intervento, specialmente se non c'erano nemici in giro e si sentivano al sicuro, le pecore erano sparpagliate per tutto il campo. Il cane da pastore ha qualcosa nei geni che gli dice come radunare le pecore in un gruppo compatto, e nelle competizioni vince quello che impiega il minor tempo a condurle in maniera ordinata verso un punto stabilito dal pastore. La situazione che abbiamo appena descritto è davvero molto simile al dover riordinare tutto ciò che ingombra una scrivania: libri, fogli, articoli. Quando le si usa per un po', le scrivanie sono un completo disastro, con un pezzo di carta da una parte, un giornale dall'altra, una tazza di caffè appoggiata sul giornale, altri pezzi di carta in un angolo e così via. Proprio come il cane da pastore, che conduce tutte le pecore in un angolo del campo, per aumentare l'ordine su una scrivania possiamo semplicemente impilare gli appunti da una parte, i giornali e le riviste da un'altra, e i libri da un'altra ancora (Figura 3.1). Così facendo diamo all'improvviso un posto a tutto quello che prima era sparpagliato, lasciando il resto del tavolo libero. Tuttavia, se non facciamo attenzione, in poco tempo sarà di nuovo tutto alla rinfusa. Quindi, sia nel caso delle pecore, sia nel caso della scrivania, esiste una naturale tendenza a che le cose si sparpaglino in giro occupando in maniera più o meno uniforme tutto lo spazio a disposizione; inoltre notiamo come raccogliere e riordinare nuovamente il tutto richieda un certo sforzo. Infine, il livello di ordine è maggiore quando gli oggetti sono raccolti e messi da parte piuttosto che quando sono sparpagliati in maniera uniforme. È interessante notare che un gas contenuto in un contenitore si comporta proprio nello stesso modo. Immaginiamo di avere un recipiente diviso in due vani da una parete, e che su questa parete ci sia un'apertura che possiamo aprire e chiudere a piacere (Figura 3.2). All'inizio, l'apertura è chiusa e il gas è completamente contenuto in uno dei due vani, mentre l'altro è vuoto. È scontato che cosa accadrà quando apriremo la fenditura: il gas si diffonderà uniformemente occupando l'intero contenitore e, poiché diventerà più rarefatto, la sua densità diminuirà. Un gas è una miscela di atomi e molecole. Possiamo dunque paragonare questa situazione a quella in cui abbiamo due campi e un gregge di pecore che ne occupa solo uno. Assumiamo che la quantità di cibo disponibile sia pari da entrambe le parti e che non ci siano pericoli – e nemmeno cani da pastore – a influenzare il movimento degli animali. Allora, se apriamo il cancello che divide il campo occupato da quello libero, dopo qualche tempo le pecore saranno distribuite uniformemente su entrambi. Consideriamo ora la situazione diametralmente opposta. Ipotizziamo che il gas riempia entrambi i vani del contenitore e chiediamoci se, a un certo punto, gli atomi possano spontaneamente dirigersi verso una delle due metà del contenitore e occupare solo quella, lasciando vuota l'altra. Probabilmente no. Perché? Il comportamento che abbiamo appena descritto non è impossibile a priori. Osservando il gas bene da vicino, notiamo che gli atomi attraversano l'apertura tra i due vani del contenitore in entrambe le direzioni, alcuni da destra verso sinistra, altri da sinistra verso destra. Potrebbe quindi succedere che, in maniera totalmente casuale, a un certo punto tutti gli atomi si trovino raggruppati in uno dei due vani, mentre l'alto sia perfettamente vuoto; tuttavia, apparentemente ciò è molto improbabile. Altrettanto improbabile è che a un certo punto tutti gli atomi all'interno di un singolo contenitore si raggruppino in un angolo, lasciando il resto dello spazio completamente vuoto. Anche in questo caso il comportamento non è in linea di principio impossibile: ogni molecola, infatti, si muove seguendo un proprio percorso a zig-zag, e potrebbe semplicemente accadere che a un certo punto tutte le molecole si trovino vicine. Evenienza estremamente improbabile, come abbiamo detto, anzi è facile che accada il contrario: se localizzassimo tutte le molecole in un angolo e all'improvviso le lasciassimo libere di muoversi, in pochissimo tempo riempirebbero in maniera omogenea tutto lo spazio a disposizione. Grazie a queste semplici considerazioni, possiamo dedurre che il grado di disordine dell'universo tende ad aumentare. Il livello di ordine della configurazione in cui tutti gli atomi sono raggruppati in un angolo è molto alto, al contrario di quella in cui essi riempiono in maniera uniforme tutto lo spazio disponibile. Inoltre, possiamo notare come il concetto di ordine sia strettamente legato a quello di probabilità: una particolare configurazione diventa tanto meno probabile quanto più è ordinata. I fisici descrivono il disordine attraverso il concetto di entropia, che, in soldoni, è una misura di quanto un sistema sia disordinato. Più in dettaglio, l'entropia rispecchia in quante configurazioni è possibile che si verifichi una certa situazione: maggiore è l'entropia di un sistema, tanto più esso è disordinato e, in modo simile, maggiore è la sua entropia, tanto più è probabile che il sistema si trovi in quella particolare configurazione. Consideriamo di nuovo l'esempio del gas che riempie un determinato volume: la sua entropia aumenta con l'aumento del volume stesso. In questo senso, mettere tutti gli atomi in un volume minore equivale a radunarli in un angolo del contenitore. Nel 1905 il giovane Albert Einstein fece una scoperta davvero importante. Studiò l'entropia di un gas contenuto in un determinato volume e la confrontò con l'entropia della luce racchiusa esattamente nello stesso volume. Einstein lesse e raffrontò articoli scientifici che erano in circolazione da più di cinque anni, quindi a priori chiunque avrebbe potuto fare la stessa scoperta. Tuttavia, nessun altro notò una coincidenza interessante: a parità di volume occupato, l'entropia della radiazione – che, ricordiamoci, è una misura del suo disordine –, sia in generale che, nello specifico, della luce, è molto simile all'entropia di un gas. In particolare, Einstein notò che l'espressione matematica introdotta dal fisico tedesco Wilhelm Wien per descrivere l'entropia della radiazione confinata in un certo volume era la stessa che il fisico austriaco Ludwig Boltzmann aveva usato qualche tempo prima per descrivere l'entropia di un gas in un contenitore. O meglio, entrambe le espressioni mostravano la stessa dipendenza dell'entropia dal volume. Einstein notò quest'analogia e azzardò una congettura davvero audace. Sapeva che l'espressione per l'entropia di un gas può facilmente essere spiegata sulla base del moto delle molecole, e su quanto sia improbabile che riempiano solo parte dello spazio a disposizione. Vista l'analogia tra le espressioni matematiche per la luce e per il gas, Einstein ipotizzò che la luce fosse composta di particelle che si muovevano esattamente come le molecole di un gas, e alle quali non piaceva stare confinate in un angolo quando avevano a disposizione un grande spazio in cui muoversi. Einstein fu molto prudente e nel titolo dell'articolo, Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt (Su un punto di vista euristico sulla creazione e sulla conversione della luce), definì appunto la sua idea un punto di vista euristico; in generale si parla di euristica quando si discute di un'intuizione che aiuta a fare una scoperta, permette di fare congetture o di ipotizzare come funzioni un particolare fenomeno, ma che non implica necessariamente che sia possibile dimostrare la propria idea. Forse Einstein non voleva urtare troppo i sostenitori della teoria ondulatoria della luce; tuttavia, nel testo dell'articolo del 1905, fu estremamente esplicito e utilizzò il concetto di particelle di luce in senso letterale, come punti localizzati che si muovono nello spazio, proprio come gli atomi. Inoltre, Einstein non si limitò a esprimere il suo audace punto di vista. Si chiese infatti dove, in natura, l'origine corpuscolare della luce avrebbe potuto avere conseguenze interessanti e suggerì che, se corretta, la sua idea avrebbe potuto far luce su un fenomeno che i fisici del tempo non erano ancora riusciti a spiegare: l' effetto fotoelettrico. Questo fenomeno fu scoperto dal fisico tedesco Wilhelm Hallwachs nel 1888. Egli notò che, illuminando una placca di metallo, accade qualcosa di interessante: la luce libera dal metallo una serie di elettroni, che possiamo rilevare facilmente sotto forma di corrente elettrica. A quel tempo gli scienziati spiegavano il fenomeno nei termini della natura ondulatoria della luce. Tuttavia, di fronte agli esperimenti veri e propri, tale rappresentazione della luce andava incontro a seri problemi. Uno di questi processi inspiegabili era proprio rappresentato dagli elettroni che apparivano istantaneamente, non appena qualcuno indirizzava un fascio di luce verso una lastra di metallo. Per capire perché questo fenomeno rappresentasse un problema per l'interpretazione ondulatoria della luce, dobbiamo pensare a un'onda come a un'oscillazione in avanti e indietro. Nel caso della luce, sono i campi elettrici e magnetici che oscillano e quindi, quando un fascio luminoso investe una lastra metallica, gli elettroni presenti nel metallo iniziano a oscillare, all'inizio solo un po', e poi, man mano che assorbono l'energia dell'onda, in maniera sempre più forte, fino a quando rompono i legami che li tengono ancorati alla superficie metallica e si liberano. Immaginiamo una persona sui pattini a rotelle che oscilli su e giù lungo un "mezzo tubo" (o halfpipe): spingendo con le gambe, a ogni oscillazione imprime al suo moto un'energia sempre maggiore, fino a quando riesce a staccarsi e a saltare più in alto della rampa. Evidentemente, ci vuole un po' prima che riesca ad accumulare l'energia sufficiente a farlo. Tornando all'effetto fotoelettrico, in teoria, un fascio luminoso abbastanza intenso può far compiere agli elettroni ampie oscillazioni in pochissimo tempo e quindi non dobbiamo stupirci se questi iniziano a staccarsi dalla superficie metallica non appena questa è illuminata da una luce molto intensa. Tuttavia, alcuni scienziati eseguirono lo stesso esperimento usando un fascio di luce molto debole, e videro che anche in quel caso gli elettroni si staccavano immediatamente dalla lastra. Secondo la teoria delle onde, però, eccitare gli elettroni fino a quando avessero accumulato abbastanza energia da staccarsi dal materiale avrebbe richiesto del tempo. L'effetto fotoelettrico costituiva un problema, quindi, per i sostenitori della natura ondulatoria della luce. Il problema in questione, invece, si risolve all'istante se ipotizziamo che la luce sia un insieme di particelle. Infatti, come ha fatto notare Einstein, in questo caso una singola particella di luce, un fotone, potrebbe semplicemente, per caso, scalzare via un singolo elettrone (Figura 3.3), spiegando così sia perché gli elettroni iniziano a liberarsi non appena accendiamo il fascio luminoso, sia perché il numero di elettroni emessi è direttamente proporzionale alla quantità di luce che colpisce la superficie metallica; infatti, in questo caso, raddoppiare l'intensità del fascio significherebbe raddoppiare il numero di fotoni che colpiscono la lastra, e di conseguenza il numero di elettroni emessi. Questo modello permise ad Einstein di fare un'altra importante predizione, ed è grazie a questo genere di cose che un fisico mostra il suo valore: la bontà di una teoria, infatti, non consiste nella sua capacità di spiegare i fenomeni già osservati in natura o in laboratorio; una nuova teoria è davvero convincente se è in grado di predire qualcosa che nessuno è stato ancora in grado di descrivere teoricamente o osservare in un esperimento. Einstein stimò quantitativamente la relazione tra la frequenza della luce incidente sulla lastra di metallo e l'energia degli elettroni emessi per effetto fotoelettrico. Immaginiamo, dunque, che un fotone con una certa energia colpisca una lastra metallica. Questo fotone potrebbe o no estrarre un elettrone dalla lastra. Supponiamo che lo faccia, e chiediamoci a quale velocità viaggi l'elettrone dopo aver lasciato il metallo. Qual è la sua energia? In base al tipo di urto, possiamo trovarci di fronte a situazioni diverse. Il fotone potrebbe urtare l'elettrone in modo tale da non riuscire a trasmettergli tutta la sua energia, proprio come una palla da biliardo che ne colpisce un'altra e poi continua a muoversi. Al contrario, nel caso in cui il fotone riesca a trasmettere tutta la sua energia all'elettrone, quest'ultimo si muoverebbe piuttosto velocemente, con il rischio però di perdere buona parte dell'energia all'interno del metallo prima di riuscire a liberarsi. Tuttavia, l'elettrone colpito potrebbe anche essere un elettrone superficiale, in grado quindi di liberarsi senza perdere energia. A prescindere da ciò, l'elettrone dovrebbe comunque staccarsi dalla lastra, e per farlo dovrà consumare parte della sua energia e vincere l'attrazione esercitata dalla superficie metallica, la cui intensità dipende dal materiale di cui la lastra è costituita. A questo punto, possiamo riassumere il tutto dicendo che, se siamo abbastanza fortunati e il fotone colpisce l'elettrone nella "maniera giusta", e se siamo ancor più fortunati e l'elettrone non perde parte della sua energia all'interno del metallo, allora l'elettrone estratto per effetto fotoelettrico avrà un'energia pari a quella del fotone incidente meno l'energia che deve consumare per liberarsi dal metallo. Ottimo, ma qual è l'energia originale del fotone? Per rispondere a questa domanda, Einstein si basò su un'ipotesi introdotta da Max Planck cinque anni prima, ossia che l'energia sia quantizzata, cioè che esista solo in quantità finite, multiple di un quanto fondamentale. Su queste basi, l'energia di un fotone E è data dalla sua frequenza ν, moltiplicata per il quanto d'azione di Planck h, ovvero: E = hν. In altri termini, la conseguenza più importante dell'ipotesi di Einstein era che, se egli avesse avuto ragione, l'energia massima degli elettroni che si liberano dalla lastra di metallo sarebbe dovuta crescere proporzionalmente all'aumento della frequenza della radiazione incidente sulla sua superficie. Nel 1916, con un esperimento molto bello, il fisico americano Robert Andrew Millikan confermò questa previsione, e nel 1921 Einstein fu insignito del premio Nobel per la fisica per i suoi studi sull'effetto fotoelettrico. | << | < | > | >> |Pagina 32Capitolo 6
L'aspetto determinante dell'indeterminazione
Correva l'anno 1925. Werner Heisenberg , un giovane fisico tedesco di appena 25 anni, aveva appena conseguito il dottorato e lavorava all'università di Gottinga, in Germania. Negli anni Gottinga era diventata uno dei centri mondiali della scienza: lì erano germogliate molte tra le nuove grandi idee che cominciavano a prendere piede in fisica e in matematica. Fu quello probabilmente uno dei motivi che attirarono il giovane Heisenberg, che negli anni precedenti aveva studiato alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. Heisenberg decise di dedicarsi al più importante problema irrisolto della fisica di quel tempo: spiegare la fisica atomica e la sua connessione con l'idea dei quanti. Ricapitoliamo la situazione, potremmo dire "disperata", e che durava ormai da qualche tempo. Nel 1900 Max Planck aveva introdotto il concetto di quanto puramente come un artificio matematico necessario per spiegare il colore di un corpo incandescente scaldato a una certa temperatura, per essere più precisi, la specifica distribuzione di colori emessa. L'artificio non fu ben accolto dalla comunità scientifica, anzi fu rigettato da molti fisici, tra cui Planck stesso. Qualche anno più tardi, nel 1905, un altro fisico colse al volo l'idea di Planck e le diede vita: Albert Einstein. Come abbiamo visto, Einstein fu abbastanza coraggioso non solo da considerare l'idea di Planck qualcosa di più che un semplice artificio matematico, ma suggerì addirittura che la luce fosse davvero composta di quanti, di particelle distinte. In questo modo egli riuscì a spiegare in maniera molto semplice l'effetto fotoelettrico – ossia come la luce estrae gli elettroni da una superficie metallica – uno dei problemi irrisolti del tempo. Di conseguenza, nel 1913, il fisico danese Niels Bohr adoperò i quanti per costruire il suo modello di atomo, molto simile a quello dei pianeti che ruotano attorno al Sole. Insomma, l'idea si rivelò un successo. E quindi dov'era il problema? I quanti ebbero un successo notevole perché riuscivano apparentemente a spiegare una gran varietà di fenomeni. Nonostante ciò, nel 1925 non esisteva ancora una vera e propria formulazione matematica della teoria quantistica: i lavori di Planck, Einstein e Bohr, infatti, erano semplicemente state occasioni per mettere alla prova l'idea di quanto e applicarla con buoni esiti in alcuni casi concreti. La sfida, però, era riuscire a formulare le equazioni matematiche fondamentali con le quali descrivere tutti quei fenomeni. Doveva esserci qualcosa di molto profondo dietro al concetto di quanto e tutti erano consapevoli che, qualunque cosa fosse, non era ancora stata scoperta. Gli scienziati (e in particolare i fisici) non sono particolarmente modesti, sono soddisfatti solo quando riescono a fornire spiegazioni profonde dei fenomeni fisici. E, in fisica, spiegare qualcosa significa sempre scoprire quale equazione matematica descrive il fenomeno che stiamo osservando. C'è di più: per i fisici non è sufficiente trovare la formula matematica che descrive un certo fenomeno, al contrario è necessario andare a fondo e scoprire per quale motivo sia corretto usare una certa equazione. I fisici, insomma, vogliono scoprire le leggi fondamentali della natura. Nonostante diverse persone ci avessero lavorato seriamente e a lungo, quel che mancava nel 1925 era proprio una formulazione matematica dei fenomeni quantistici. Il giovane Heisenberg si promise di scoprirla, ma a Gottinga c'erano troppe distrazioni e non fu in grado di portare a termine il compito. A beneficio dei fisici, Heisenberg fu colpito da una forma acuta di febbre da fieno. L'attacco doveva essere stato molto forte, perché il suo professore, Max Born , lo spedì per un paio di settimane nell'arcipelago di Helgoland, nel Mare del Nord, un luogo rinomato per la sua capacità di dare sollievo a chi soffriva di quel tipo di allergia. Lassù Heisenberg si ritrovò con un sacco di tempo a disposizione per meditare sul suo problema matematico. La storia ci racconta che faceva lunghe passeggiate nei boschi e lungo la costa; come un'illuminazione, quasi all'improvviso ebbe l'idea giusta e scoprì una nuova struttura matematica con cui poté derivare le leggi fondamentali della fisica quantistica. Una scoperta grandiosa, che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1932 e lo rese, ad appena 25 anni, una delle figure centrali della fisica moderna. I principi fondamentali della fisica quantistica condussero alla costruzione di un paradigma matematico che permise di descrivere il comportamento degli atomi – in particolare, il tipo di luce emessa –, di calcolare il moto degli elettroni attorno al nucleo, e così via. Ma l'inconveniente era dietro l'angolo; in cambio di tanta abbondanza c'era un prezzo da pagare, piuttosto alto. Sostanzialmente, se vogliamo osservare una particella, dobbiamo in qualche modo interagirci; per esempio, per vedere dove si trova un elettrone, dobbiamo illuminarlo con un fascio di luce, e la spiegazione di Einstein dell'effetto fotoelettrico ci ha insegnato che questo significa fornire un impulso all'elettrone. Di conseguenza, dopo essere stato colpito dalla luce, l'elettrone si muoverà con una velocità diversa da quella precedente, e ciò significa che la velocità che abbiamo determinato non è più quella corretta. Tuttavia, dovremmo essere capaci di tenerne conto, giusto? Se sappiamo "quanto forte" abbiamo colpito l'elettrone, dovremmo poter fare un passo indietro e calcolare la velocità iniziale della nostra particella. Ahimè, in realtà il conto non è possibile, perché la luce è un insieme di quanti, un insieme di particelle distinte. Infatti, quando colpiscono l'elettrone, i quanti di luce possono volare via in una direzione a caso; poiché la quantità di moto che viene trasferita all'elettrone dipende dalla direzione in cui i fotoni volano via, non conoscerla si traduce nel non poter avere sotto controllo la variazione della velocità dell'elettrone. Ma c'è dell'altro. Per determinare esattamente la posizione dell'elettrone, dobbiamo illuminarlo con lunghezze d'onda sempre più corte; tuttavia – e questo è stato confermato dagli esperimenti – quanto più corta è la lunghezza d'onda che usiamo, tanto più grande è l'impulso trasferito all'elettrone. Questo significa che, aumentando la precisione con cui misuriamo la posizione della nostra particella, cresce proporzionalmente anche la perturbazione incontrollabile che le stiamo imprimendo. Ecco quindi il prezzo da pagare: possiamo determinare in maniera tanto più precisa la posizione dell'elettrone quanto più è piccola la lunghezza d'onda della luce che usiamo. Ma, contemporaneamente, l'impulso trasmesso all'elettrone aumenta e quindi la precisone sul valore della sua velocità iniziale diminuisce. Queste osservazioni riassumono esattamente il concetto di indeterminazione quantistica espresso da Heisenberg, di cui però egli diede una formulazione matematica rigorosa. Tradotta in una frase, afferma semplicemente che non possiamo conoscere contemporaneamente, e con precisione arbitraria, sia la posizione sia la quantità di moto (ovvero la sua velocità moltiplicata per la sua massa) di un oggetto. Se conosciamo molto bene la sua posizione – quindi se l'indeterminazione su questa grandezza è molto piccola – allora non conosciamo bene la velocità con cui esso si muove, e viceversa: un fenomeno che è espresso matematicamente tramite il principio di indeterminazione di Heisenberg. Siccome sono legate dal principio di indeterminazione di Heisenberg, la quantità di moto e la posizione di un oggetto sono dette grandezze complementari tra loro. Tale concetto di complementarità fu introdotto da Niels Bohr e rappresenta una delle più importanti lezioni della meccanica quantistica. In soldoni, significa che non possiamo conoscere il mondo con precisione totale. Dobbiamo sempre fare una scelta. | << | < | > | >> |Pagina 40Torniamo però alla nostra discussione sul vero significato del principio di Heisenberg. Secondo quanto abbiamo detto finora, sembra naturale dedurre che esso sia solamente espressione della nostra ignoranza; infatti, che cosa potrebbe esserci di sbagliato nel fatto che le particelle in ogni istante occupino una posizione precisa e abbiano una velocità ben definita, ma che noi non siamo capaci di misurare entrambe contemporaneamente? Esiste una spiegazione alternativa? Quale? Fino all'invenzione della fisica quantistica, questo punto di vista è stato quello adottato dalla fisica classica, ed è tutt'oggi un'ipotesi di lavoro usata da molti scienziati. Einstein era uno dei maggiori sostenitori di questa interpretazione, che chiamava posizione realista; da questo punto di vista, il principio di indeterminazione di Heisenberg è semplicemente un'espressione dei limiti di che cosa sia possibile determinare eseguendo una misura. O, per dirla con le parole di un filosofo, la natura dell'incertezza sarebbe epistemica (l'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa di che cosa possiamo conoscere e del modo in cui possiamo essere venuti a conoscenza di ciò che sappiamo).La posizione filosofica alternativa consiste nell'assumere che il principio di indeterminazione non sia semplicemente un'asserzione su che cosa possiamo conoscere, ma che sia una dichiarazione sulla natura delle cose. Da questo punto di vista, il principio di indeterminazione di Heisenberg è un'asserzione su come sono le cose e su quali sono le loro caratteristiche, un'affermazione, cioè, su che cosa esiste. Un filosofo definirebbe tale posizione ontologica, secondo la quale un elettrone non avrebbe né una posizione definita meglio di quanto la sua indeterminazione ci permetta, né una velocità definita in maniera più precisa dell'incertezza sulla sua quantità di moto. Niels Bohr era uno dei sostenitori di questa posizione. L'indeterminazione quantistica è dunque epistemica o ontologica? Che cosa significa presumere che il principio di indeterminazione non indichi solamente il limite di che cosa possiamo conoscere, ma che descriva veramente come funziona il mondo? Vorrebbe dire che un elettrone non ha mai nello stesso istante né una posizione né una quantità di moto precise, ovvero non si trova in un punto esatto, né si muove con una certa velocità. In un certo senso, l'elettrone può, in linea di principio, muoversi contemporaneamente con velocità diverse e trovarsi contemporaneamente in posizioni differenti. Com'è possibile? Come possiamo dare un senso a queste affermazioni? Come può un elettrone muoversi a velocità diverse nello stesso istante? Se si muovesse nello stesso momento sia con una velocità alta, sia con una bassa, non dovrebbe frantumarsi in mille pezzi? Per giustificare, per esempio, l'indeterminazione sulla quantità di moto – ossia sulla velocità dell'elettrone – e quindi sostenere che in ogni istante l'elettrone possa intrinsecamente avere uno spettro di velocità diverse, dobbiamo abbandonare il concetto di elettrone come punto materiale in movimento e pensare a esso in maniera diversa. E questo è esattamente ciò che fece il fisico francese Louis de Broglie quando introdusse il concetto di natura ondulatoria della materia. Secondo questa ipotesi è possibile associare un'onda a ogni particella che si muove con una determinata velocità, in modo tale che la lunghezza d'onda corrisponda proprio alla velocità della particella. Tanto più velocemente la particella si muove, tanto più piccola è la lunghezza dell'onda a essa associata. Se accettiamo questa descrizione, allora assegnare a un elettrone due velocità nello stesso istante diventa un gioco da ragazzi. Tutto ciò che dobbiamo fare è spostare la nostra attenzione dalla velocità alla lunghezza d'onda da associare alla particella, e assegnare all'elettrone una coppia di onde di diversa lunghezza. A quel punto, l'onda associata all'elettrone si otterrà sommando queste due onde parziali di lunghezza diversa. Così facendo, l'indeterminazione sulla quantità di moto (ovvero sulla velocità) indica semplicemente che dobbiamo sovrapporre onde diverse, con lunghezze d'onda variabili in un certo intervallo: in questo modo, costruiamo un cosiddetto pacchetto d'onda (si veda la Figura 7.2). Inoltre, se sommiamo onde la cui lunghezza varia in un certo intervallo "nel modo giusto", allora il pacchetto che otteniamo è qualcosa di localizzato. Questo accade poiché le singole onde, ognuna delle quali può avere un'estensione spaziale molto ampia, si annichilano a vicenda ovunque tranne che in una piccola regione di spazio; ciò che abbiamo tra le mani è quindi un piccolo pacchetto d'onda corrispondente a una particella. A questo punto, però, ci dobbiamo chiedere se la particella stessa abbia una certa estensione o se sia puntiforme. Che significato avrebbe rappresentare una particella come un punto materiale le cui dimensioni sono più piccole di quelle del pacchetto d'onda? Per rispondere in maniera corretta non dobbiamo pensare al pacchetto d'onda come a un oggetto vero e proprio, come se fosse un'automobile o una pallina da tennis. La sua unica funzione è di dirci, se dovessimo misurare la posizione della particella, quale probabilità avremmo di trovarla in un certo punto. Non la troveremo molto lontano, dove l'ampiezza del pacchetto è effettivamente pari a zero: la probabilità di trovare lì la particella, infatti, è trascurabile. Al contrario, la probabilità massima di trovare la particella si ha in corrispondenza del centro esatto del pacchetto, dove la sua ampiezza è massima. Il concetto di pacchetto d'onda comporta che non possiamo conoscere con certezza dove si trovi la particella. A priori, infatti, la potremmo trovare ovunque all'interno del pacchetto e, quando eseguiamo una misura specifica di una determinata particella, trovarla in un punto piuttosto che in un altro è del tutto accidentale. Inoltre notiamo immediatamente una conseguenza davvero interessante: il pacchetto sarà tanto più piccolo quante più sono le lunghezze d'onda differenti che sommiamo per costruirlo. Tuttavia abbiamo anche detto che la dimensione del pacchetto è semplicemente una misura di quanto poco conosciamo la posizione della particella, poiché questa potrebbe trovarsi in ogni punto al suo interno; quindi, quanto più è piccolo il pacchetto d'onda, tanto meglio è definita la posizione della particella. Ma ogni lunghezza d'onda corrisponde a una certa quantità di moto, e quindi a una certa velocità. In questo caso dunque la quantità di moto, ovvero la velocità, non è più definita in maniera precisa, poiché per costruire un piccolo pacchetto d'onda abbiamo dovuto sommare molte lunghezze d'onda differenti. Quello che abbiamo appena enunciato è il principio di indeterminazione riletto dal punto di vista della natura ondulatoria della materia. | << | < | > | >> |Pagina 53Ovviamente i dadi quantistici entangled non esistono ancora. Nonostante ciò, l' entanglement e i bizzarri comportamenti che ne derivano sono stati osservati sperimentalmente in coppie di particelle, come fotoni, elettroni, protoni, atomi o addirittura in piccole nubi di atomi.Quando parliamo di coppie di particelle entangled, dobbiamo innanzitutto chiederci in quali proprietà siano correlate quantisticamente; infatti, è possibile gemellare quantisticamente diverse caratteristiche delle particelle elementari. Per esempio, il modo più semplice per avere due fotoni entangled è di correlarne la polarizzazione (impareremo meglio in seguito che cosa sia, per ora vi basti sapere che indica la direzione lungo la quale oscilla la luce). Se la polarizzazione di una coppia di fotoni è entangled, allora questo significa che, prima di un'eventuale osservazione, nessuno dei due è polarizzato lungo una direzione prefissata, proprio come nel racconto appena letto, dove il dado, prima di venire osservato, non mostrava alcun numero. Tuttavia, nell'istante in cui osserviamo uno dei fotoni, la sua polarizzazione assume, in maniera completamente casuale, un valore ben definito, per esempio orizzontale o verticale: in altre parole il suo campo elettrico oscilla orizzontalmente o verticalmente. A quel punto, se i due fotoni sono gemellati quantisticamente, osservando l'altro, noteremo che è polarizzato nello stesso modo. Quindi la regola generale è che una certa proprietà di una delle due particelle entangled deve essere in correlazione con una proprietà corrispondente dell'altra particella. E le possibilità sono molteplici. Per esempio, un'altra grandezza che possiamo correlare quantisticamente è l'energia: immaginiamo una situazione in cui la somma delle energie di due particelle è costante, ma nessuna di esse ha un'energia ben definita prima che questa venga misurata. Quando misuriamo l'energia di una delle due, essa assumerà un valore definito ma casuale, e l'altra, a prescindere da quanto sia lontana, assumerà il valore necessario a far sì che la somma delle due energie sia costante.
Quelli appena esposti sono solo due possibili esempi di
entanglement,
due situazioni che ci aiutano a comprendere l'idea alla
base di questo fenomeno.
Il protocollo di teletrasporto originale
Nell'articolo sul teletrasporto che abbiamo citato poco fa, i sei
autori suggerirono di usare come canale quantistico una coppia
di particelle
entangled
(Figura 9.2). Non c'è bisogno di ricordare
che il protocollo da loro sviluppato si applica solamente al teletrasporto di
singole particelle, e non di persone. Ecco quindi che
ritroviamo i due protagonisti della storia, Alice e Bob. Alice ha una
particella che si trova in un qualche stato quantistico, a lei ignoto,
e vuole che Bob riceva una particella che si trovi esattamente nello
stesso stato. Sappiamo che misurare la sua particella e poi comunicare a Bob il
risultato non funzionerebbe, poiché il processo di
misura cambierebbe lo stato iniziale della particella di Alice.
Descriviamo ora in dettaglio il protocollo di teletrasporto. Anche se a una
prima lettura può sembrare piuttosto complicato, non
vi dovete scoraggiare, poiché nei prossimi capitoli continueremo
a parlarne, discutendone i dettagli più e più volte. Il protocollo di
teletrasporto originale si sviluppa come segue.
1. Alice e Bob prevedono che, a un certo punto, potrebbero voler teletrasportare una particella, quindi producono alcune coppie ausiliarie di particelle entangled. Di ogni coppia, Alice prende la "particella gemella" A, mentre Bob prende la "particella gemella" B. Il punto fondamentale di questo passaggio è che le particelle A e B sono correlate quantisticamente, ovvero, se decidessimo di eseguire su entrambe la stessa misura, in ambedue i casi otterremmo lo stesso risultato: le due particelle si dimostrerebbero identiche.
L'
entanglement
tra le particelle A e B è proprio quell'inquietante
azione a distanza che non piaceva ad Einstein. Tuttavia l'
entanglement
funziona, e lo fa a prescindere da quanto le due particelle siano distanti l'una
dall'altra: è proprio grazie a questo suo aspetto che abbiamo un canale
quantistico.
2. Nella fase successiva Alice riceve una "nuova" particella, l'originale X, che dovrà essere teletrasportata. Alice allora prende una delle sue particelle gemelle A e fa una cosa piuttosto complicata: correla quantisticamente la sua gemella A con la particella originale X. In seguito torneremo su questo punto, e descriveremo più in dettaglio come si esegue questa procedura; per il momento, accontentiamoci di sapere che si può fare. Il processo attraverso il quale Alice correla quantisticamente le particelle è denominato misura sugli stati di Bell (questi stati entangled sono chiamati stati di Bell in onore del fisico irlandese John Bell). Ma a che cosa ci serve esattamente l' entanglement tra queste due particelle? A questo punto della sequenza, che le particelle A e X siano entangled significa che, di fatto, l'originale X ha perso tutte le proprietà che aveva in precedenza. Esistono diversi tipi di entanglement e in quello più semplice, di cui parliamo in questo libro, le particelle A e X appaiono identiche quando si esegue su di esse una misura. Tuttavia, dopo il processo che le rende entangled, né alla particella originale X né alla particella gemella A saranno rimaste alcune delle proprietà che avevano in origine.
Il motivo per cui troviamo così difficile, se non impossibile,
comprendere a fondo il processo di
entanglement
è insito proprio nella nostra difficoltà a immaginare degli oggetti che non
abbiano proprietà intrinseche ma che, non di meno, siano identici. Tuttavia,
l'essenza dell'
entanglement
è proprio questa: nessuna delle particelle gemellate quantisticamente l'una con
l'altra ha proprietà individuali ma, nel caso in cui le osservassimo, le
troveremmo identiche. Inoltre, le caratteristiche che mostrerebbero a seguito di
una misura non sarebbero quelle che avevano prima della misura stessa.
3. Che cosa succede alla particella gemella B di Bob quando Alice esegue la misura sugli stati di Bell? Con un po' di fortuna, diventa identica all'originale X di Alice. | << | < | > | >> |Pagina 107John si sistema appoggiandosi comodamente allo schienale della sedia e, alzando lo sguardo al soffitto, inizia a raccontare: «In fisica, per descrivere i fenomeni naturali, noi fisici costruiamo delle teorie. In generale nell'ambito della scienza una teoria è un concetto molto preciso, qualcosa di molto diverso dal significato che viene comunemente attribuito a questa parola. Nella vita di tutti i giorni, spesso classifichiamo come teoria ogni sorta di impressione o sensazione su come qualcosa debba funzionare. Una teoria fisica, invece, è qualcosa di più preciso, qualcosa che permette di fare previsioni esatte sui risultati degli esperimenti ancora da svolgere e sulle misure che verranno fatte in futuro. E i fisici sono davvero immodesti: vogliono scoprire teorie che sono sempre più generali, in grado si spiegare un numero di fenomeni sempre maggiore. Nella storia della fisica e, più in generale, in quella della scienza questo approccio ha sempre avuto un successo notevole; consideriamo, per esempio, la teoria evoluzionistica di Charles Darwin , quindi non parliamo di fisica, ma di biologia: essa ha uno spettro di validità molto ampio, a partire dai più piccoli virus e batteri, fino ad arrivare all'uomo.Ma, come ho detto, i fisici sono molto immodesti, e vorrebbero scoprire una teoria che, alla fine, sia in grado di spiegare tutto. Il loro sogno più grande è che un giorno non esista fenomeno che non possa, almeno in linea di principio, essere spiegato attraverso una teoria universale e definitiva. Indubbiamente è lecito chiedersi se il tentativo di trovare una teoria del tutto non sia troppo presuntuoso, e se sia ragionevole o meno aspettarsi che un giorno tale teoria venga scoperta. Alcuni fisici pensano che quel giorno sia destinato ad arrivare presto, poiché finora la fisica e, in generale, la scienza sono state capaci di modellare un numero sempre maggiore di teorie in grado di descrivere fenomeni fino a quel momento inesplicabili. Questi fisici sostengono quindi che non esista una ragione per cui, un giorno, questa serie di successi si debba interrompere. Altri invece ribattono ricordando che, avendo mosso i primi passi solo qualche secolo fa, la scienza moderna è relativamente giovane, e che quindi una siffatta teoria deve essere ancora molto lontana. Altri ancora sostengono che la formulazione di una vera e propria teoria del tutto sia vietata da ragioni filosofiche fondamentali, tra le quali il fatto che, se lo scopo di una teoria fisica è descrivere ciò che viene osservato, essa non potrebbe dunque includere l'osservatore medesimo. Questi fisici sostengono che, per descrivere noi stessi, dovremmo essere capaci di osservarci dall'esterno, il che è impossibile; quindi, ne concludono, formulare una teoria del tutto è altrettanto impossibile. Ma ora lasciamo da parte questa discussione, che ci porterebbe troppo a fondo nei meandri della filosofia; sarebbe di certo interessante, ma va al di là dei nostri scopi» continua John. «A prescindere da questo genere di considerazioni fondamentali, è senza dubbio legittimo chiedersi se le teorie fisiche che l'umanità ha a disposizione in una certa epoca forniscano una descrizione completa della realtà entro i limiti in cui esse stesse sostengono di trovare un'applicazione. L'articolo EPR si pone esattamente questa domanda sulla meccanica quantistica». «Come possiamo scoprire se una teoria è completa oppure no?» chiede Alice. «I tre studiosi suggerirono che dobbiamo osservare la realtà fisica. Einstein era un realista, per lui l'esistenza di una realtà là fuori, indipendente da noi e indipendente dal fatto che la stiamo o meno osservando, era un dogma irrinunciabile. I tre fisici dunque suggerirono che, per poter considerare completa una teoria, "ogni elemento della realtà fisica deve avere una controparte nella teoria fisica"» spiega John, indicando questa frase nella prima pagina dell'articolo EPR (Figura 13.1). «Complicato!» lo interrompe Bob. «Quali sono gli elementi della realtà fisica? E come faccio a sapere se fanno parte della realtà fisica o di una qualche altra realtà?». «È proprio la parte più complicata» risponde John. «La mia interpretazione è che in quel punto i tre volessero semplicemente indicare tutti gli oggetti attorno a noi nel mondo, tutto ciò che esiste e di cui sia possibile parlare, per esempio questa lavagna, una persona e così via; questi sono tutti elementi della realtà fisica. Gli stessi Einstein, Podolsky e Rosen si preoccuparono molto su che cosa includere in questa definizione, e suggerirono che gli elementi della realtà fisica non potessero essere determinati attraverso il semplice pensiero, ma che dovessero venire "localizzati attraverso un processo di misura". Quindi, secondo l'esempio che vi ho fatto prima, la realtà fisica di questa lavagna si basa sulla nostra capacità di descrivere le sue proprietà e di poterne misurare il colore e molte altre caratteristiche. In generale, quindi, i tre scienziati si chiesero: "Quand'è che ci troviamo di fronte a un elemento della realtà fisica? Come lo possiamo riconoscere?". Dare una definizione completa di realtà è senza dubbio difficile, e non era affatto lo scopo che volevano raggiungere. Infatti, il loro articolo ci fornisce un noto criterio per stabilire l'esistenza di un elemento della realtà fisica, ne dà una condizione sufficiente, non una condizione necessaria». | << | < | > | >> |Pagina 112Il criterio di realtà fisicaJohn prende di nuovo in mano la stampa della prima pagina dell'articolo EPR e legge ad alta voce (Figura 13.1): Se, senza disturbare un sistema in alcun modo, possiamo predire con certezza (ossia, con probabilità pari all'unità) il valore di una grandezza fisica, allora esiste un elemento della realtà fisica corrispondente a questa grandezza fisica. «Sia questa citazione sia quella che vi ho enunciato in precedenza sono scritte in corsivo nel testo originale. Gli autori le consideravano estremamente importanti. A dire il vero suona un po' tecnica, e questo è probabilmente ciò che Einstein intendeva quando scrisse a Schrödinger dei concetti sepolti sotto un velo di erudizione» spiega John. «Questo criterio sembra un po' pedante e pomposo, ma in linea di principio è semplice. Proviamo ad analizzare e a tradurre in parole semplici ciò che dice, e anche ciò che non dice. Innanzitutto, che cosa significa "predire con certezza"? Dobbiamo stare attenti a non creare confusione. Per un fisico, la parola predire non ha lo stesso significato che ha per un profeta, ma significa semplicemente capire quali sono i possibili risultati di un processo di misura. In altre parole, predire significa fondamentalmente conoscere quale sarà il risultato di una specifica misura. Vi faccio un esempio semplice. Sappiamo tutti che, se usciamo in una notte serena e osserviamo la Luna, possiamo predire con esattezza che, se guardiamo per un attimo da qualche altra parte e poi ci volgiamo nuovamente alla Luna, la troveremo esattamente dove l'abbiamo lasciata. Lassù c'è qualcosa, e quel qualcosa è un elemento della realtà fisica; un fisico, poi, farebbe un ulteriore passo avanti, dicendo che la posizione della Luna nel cielo è una grandezza fisica che possiamo predire». «Ma» lo interrompe Alice «nessuno può predire con certezza la posizione della Luna, c'è sempre un'indeterminazione che ci impedisce di dire esattamente dove si trovi». «È vero» risponde John «quel che hai detto è corretto e sottolinea una caratteristica importante di ogni osservazione fisica: poiché nessuno strumento di misura è infinitamente preciso, ogni volta che misuriamo una qualsiasi grandezza, esiste sempre una piccola incertezza sul risultato che otteniamo. Quindi, se vogliamo predire la posizione della Luna, dobbiamo misurarla il meglio possibile in un determinato istante e, da questo dato, calcolare le posizioni future». «A dire il vero» interviene Bob «mi sembra di ricordare che, per calcolare con precisione quale sarà la posizione della Luna in futuro, sia necessario conoscere le posizioni della Luna, del Sole, della Terra e di tutti gli altri pianeti». «Certamente» annuisce John «hai ragione, e ci sarà sempre un certo errore in questo tipo di misure, per cui non è possibile predire la posizione della Luna con precisione assoluta. Ciò nonostante, essa può essere determinata sufficientemente bene da permettere agli astronauti di arrivare fin lassù. Possiamo infatti calcolare le traiettorie delle navicelle spaziali con la precisione necessaria da permettere loro di arrivare a destinazione. In conclusione, per farla breve, predire con certezza non significa affatto predire senza errori di misura». «Va bene. Ma...» chiede Alice «perché questo criterio è solamente sufficiente, e non necessario?». «Be', è chiaro» risponde John. «Possono esserci casi in cui un elemento della realtà fisica esiste, ma nei quali non sia possibile predire con certezza il valore di una certa grandezza fisica. Potremmo non essere sicuri che qualcosa debba accadere in futuro, o, ancora peggio, potremmo non sapere nulla circa un qualche evento futuro. Per esempio, tutti noi potremmo incontrare qualcuno destinato a giocare un ruolo importante nella nostra vita, ma non abbiamo la più pallida idea di chi possa essere. Questa persona è già un elemento della realtà fisica. Il criterio di EPR può non includere questo caso, ma, se questa persona ha la nostra età, è già viva, già esiste da qualche parte del mondo, allora è già un elemento della realtà fisica. Tuttavia, Einstein, Podolsky e Rosen erano certi che, se era possibile predire qualcosa con certezza, allora si poteva anche assumere che esistesse un elemento della realtà fisica associato a questo qualcosa». | << | < | > | >> |Pagina 151Capitolo 18
La velocità della luce e i viaggi nel tempo
Abbiamo imparato che nulla può viaggiare più velocemente della luce. Ciò fu scoperto da Einstein nel 1905, quando propose la sua famosa teoria della relatività ristretta. L'osservazione fondamentale di Einstein riguardava la struttura dello spazio e del tempo che non possono esistere separati l'uno dall'altro, ma che formano una sorta di tutt'uno che oggi chiamiamo spaziotempo. Uno degli aspetti in cui lo spaziotempo si manifesta consiste nella possibilità di trasformare lo spazio e il tempo l'uno nell'altro a seconda della velocità con cui un oggetto si muove. Una conseguenza importante della teoria della relatività ristretta è che, dentro un'astronave che accelera e viaggia sempre più velocemente, man mano che ci si avvicina alla velocità della luce il tempo scorre sempre più lentamente. La velocità della luce è di circa 300.000.000 metri al secondo (per l'esattezza, 299.792.458). A questo punto chiediamoci: non sarebbe possibile viaggiare più velocemente della luce semplicemente accelerando? Una delle conseguenze della teoria della relatività è che non è possibile: man mano che ci si avvicina alla velocità della luce, per accelerare ulteriormente servono quantità di energia sempre maggiori, e ne consegue che la quantità di energia necessaria per raggiungere la velocità della luce è infinita. Si considera dunque la velocità della luce un limite irraggiungibile per ogni corpo massivo, cioè per qualsiasi oggetto che abbia una massa a riposo come, per esempio, una nave spaziale, un esploratore spaziale o addirittura un atomo o una particella dotata di massa come l'elettrone. Quindi perché le particelle di luce possono viaggiare alla velocità della luce? Il punto è che i fotoni, le particelle di luce, non hanno massa a riposo, e solamente le particelle con massa a riposo nulla possono muoversi a quella velocità. | << | < | > | >> |Pagina 249Possiamo quindi terminare ricapitolando i due punti fondamentali. Per prima cosa, gli eventi osservati sono appunto solo degli eventi e in quanto tali non hanno bisogno di alcuna interpretazione. Per così dire "esistono" perfino prima che noi, gli osservatori, iniziamo anche solo a preoccuparci di che cosa possano significare. Seconda cosa, la spiegazione che ne daremo dipende da alcune azioni e decisioni successive prese da noi o da qualcun altro. È importante capire che le due interpretazioni dei dati di Bob sono mutualmente esclusive: l' entanglement è "monogamo", e il fotone Y di Bob può essere gemellato quantisticamente solo con X o con B, ma non con entrambi.A questo punto è importante sottolineare come ciascuna delle interpretazioni che diamo ai risultati di Bob sia di per sé completamente corretta e oggettiva, e che il fatto che dipendano da una decisione futura di Alice non le rende affatto sbagliate o soggettive. La fisica quantistica descrive bene questo tipo di situazioni: la descrizione matematica, lo stato quantistico che assegniamo a ogni situazione specifica, cambia completamente a seconda di che cosa Alice decida di fare: dipende dai particolari dell'esperimento e, quindi, dipende dalle decisioni di Alice o, più in generale, dalle decisioni di noi fisici sperimentali. E questo forse include anche i dettagli specifici degli esperimenti che verranno eseguiti in futuro. Questo tipo di considerazioni è completamente in linea con l'interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica elaborata da Niels Bohr. Secondo tale interpretazione, lo stato quantistico di un sistema non è un campo, non è cioè una qualche entità che si diffonde là fuori, nel tempo e nello spazio. Al contrario, è semplicemente una rappresentazione della nostra conoscenza della specifica situazione fisica che stiamo studiando. Naturalmente, questa rappresentazione dipende dal contesto che abbiamo di fronte, e da che tipo di risultati otteniamo dalle nostre misure. Nel nostro caso specifico la conoscenza della situazione fisica particolare che stiamo analizzando dipende dal tipo di misura che Alice eseguirà in seguito, e dai risultati che otterrà. Le misure di Alice eseguite a un tempo successivo, e i suoi risultati, non cambieranno la realtà fisica in atto, vale a dire i risultati precedentemente ottenuti da Bob. Tuttavia, esse cambieranno che cosa possiamo dire su ciò che abbiamo di fronte; cambieranno la nostra interpretazione di ciò che sta avvenendo. Questo mi fa tornare in mente una famosa frase pronunciata da Bohr: «Non esiste un mondo quantistico. Esiste solo una descrizione quantistica astratta. È sbagliato pensare che il ruolo della fisica sia scoprire come è fatta la natura. La fisica riguarda solo quello che possiamo dire sulla natura». Questa frase ci è stata riportata da Aage Petersen. Non esistono documenti dello stesso Bohr in cui appaia esplicitamente, ragion per cui la sua attribuzione è dibattuta. Secondo il mio parere, tuttavia, esprime perfettamente la sua posizione. | << | < | > | >> |Pagina 257Capitolo 32
L'informazione quantistica
Una storia si dipana di fronte ai vostri occhi, celata tra le pagine di questo libro; si è già ripetuta migliaia di volte nel corso della fisica e, più in generale, della scienza. L'incipit è sempre lo stesso. Tutto ha inizio dal motivo fondamentale per cui l'umanità fa scienza: la curiosità. Nel caso dell' entanglement, furono Einstein, Schrödinger e gli altri padri fondatori della meccanica quantistica a essere curiosi. Negli anni trenta essi notarono come fosse possibile descrivere alcuni fenomeni quantomeno controintuitivi semplicemente applicando certe previsioni della meccanica quantistica a sistemi singoli o a singole particelle. L' entanglement era una di queste. Un'altra fu la casualità della meccanica quantistica, dal momento che esiste un elemento aleatorio che gioca un ruolo fondamentale nella teoria e non si limita soltanto a quantificare il nostro grado di ignoranza. Nonostante nel campo della neonata fisica quantistica si conoscessero gli aspetti e le basi matematiche di queste sue peculiarità, quali, per esempio, il principio di sovrapposizione, ci vollero grandi menti come quelle di Einstein e di Schrödinger per capire quanto tali principi fossero singolari da un punto di vista filosofico e quale fosse il loro significato nell'ambito della comprensione del mondo circostante. Ricordiamo che Einstein non voleva accettare il carattere casuale della meccanica quantistica, come sostiene una sua famosa affermazione: «Il grande vecchio non gioca a dadi». Al contrario, Schrödinger suggerì che l' entanglement fosse la proprietà fondamentale della meccanica quantistica. Il capitolo successivo della nostra storia si svolge nella metà degli anni sessanta e ruota attorno a un'interessante coincidenza. In quegli anni John Bell scoprì che era possibile verificare sperimentalmente un'importante questione filosofica sollevata dall' entanglement: era, cioè, possibile che la natura fosse descritta dal cosiddetto realismo locale, secondo un disegno nel quale la «misteriosa azione a distanza» di Einstein non trovava posto? La coincidenza fu che proprio in quel periodo venne inventato il laser, rendendo così possibile compiere esperimenti che verificassero il realismo locale; la situazione quindi era ben diversa da quella degli anni trenta, quando Einstein e Schrödinger si posero le prime domande sulle conseguenze filosofiche della meccanica quantistica. La serie di esperimenti, iniziata negli anni settanta, che confermò le previsioni della meccanica quantistica a discapito di quelle del realismo locale fu quindi motivata, in realtà, da domande di ordine filosofico o, per dirla in altri termini, dalla curiosità di una manciata di persone. Una curiosità che è la forza motrice delle imprese dell'uomo e che, quando è combinata con l'avvento di nuove tecnologie, lo ha spesso condotto verso interessanti scoperte scientifiche. Siamo così arrivati al terzo capitolo della nostra storia, nel quale è accaduto qualcosa di inaspettato per coloro che parteciparono ai primi esperimenti. Negli anni novanta le domande sugli aspetti fondamentali della meccanica quantistica generarono una serie di nuove idee su come trasmettere e processare l'informazione; tra queste, la crittografia quantistica, i generatori quantistici di numeri casuali, il teletrasporto quantistico e i computer quantistici. Possiamo affermare con assoluta certezza che tali idee non sarebbero nate se non avessero avuto alle loro spalle tutta la ricerca eseguita negli anni precedenti, ricerca a sua volta motivata da pura e semplice curiosità di carattere filosofico. L'ultima parte della nostra storia si sta svolgendo proprio ora. Lo sviluppo della nuova informazione quantistica è una delle aree di ricerca più in crescita a livello mondiale. Diversi team di ricercatori in molti Stati stanno lavorando allo sviluppo della crittografia quantistica, dei computer quantistici, della comunicazione quantistica e di molte altre idee con possibili ricadute tecnologiche. L'idea più matura dal punto di vista tecnico è quella associata ai generatori quantistici di numeri casuali, strumenti che sfruttano la natura aleatoria dei singoli eventi quantistici, ossia proprio quella caratteristica che Einstein tanto detestava. Un generatore quantistico di numeri casuali produce la migliore sequenza possibile di numeri casuali, e trova vaste applicazioni in una moltitudine di settori diversi, primi tra tutti le lotterie e i giochi d'azzardo. Immaginiamo di voler giocare alla roulette in qualche casinò su internet. In questo caso, ogni scommettitore deve potersi fidare della macchina che, dietro le quinte, genera i numeri su cui puntare. È ovvio che il metodo migliore per produrre questi numeri sia proprio utilizzare un generatore quantistico di numeri casuali: in tal modo siamo sicuri che non esistono ragioni per cui debba uscire il 21 e non il 17, per esempio. Ovviamente, le applicazioni pratiche dei generatori quantistici di numeri casuali vanno ben oltre il gioco d'azzardo. Un'applicazione importante consiste nella codifica di informazioni segrete raccolte in un computer. Supponiamo, per esempio, che per motivi di sicurezza nazionale sia necessario tenere immagazzinati a lungo in un computer i dati personali dei cittadini. Supponiamo però anche che, per proteggere i diritti di ogni individuo, vogliamo essere sicuri che nessuno possa avere accesso a questi dati nemmeno in via ipotetica, a meno che non sia opportunamente autorizzato, per esempio da un giudice imparziale. In tal caso la procedura più sicura consisterebbe nell'utilizzare numeri casuali quantistici per cifrare i dati e registrarli nella memoria del computer e accertarsi che l'accesso a questi numeri casuali avvenga solo dietro autorizzazione del giudice competente. Per chiunque sarebbe impossibile leggere i dati personali della popolazione senza autorizzazione. Esistono altre applicazioni dei numeri casuali come, per esempio, gli algoritmi di ottimizzazione, ma non è questa la sede per approfondire l'argomento. Come abbiamo già accennato, un altro ambito in cui le idee della fisica quantistica trovano spazio è la crittografia quantistica. La meccanica quantistica ha dato origine a nuove tecniche attraverso le quali è possibile codificare messaggi segreti da spedire ai rispettivi destinatari. Anche lo studio della crittografia quantistica si trova a uno stadio piuttosto avanzato e molti sono al lavoro per sviluppare ulteriormente questa nuova tecnologia. Per esempio, nel 2008 un grande progetto finanziato dalla Commissione Europea ha realizzato una vera e propria rete quantistica formata da diversi nodi sparsi nella città di Vienna, qualcosa di simile a una rete internet quantistica. Probabilmente lo sviluppo dei computer quantistici richiederà tempo; alcune voci scettiche affermano che gli attuali problemi di costruzione siano così vasti da rendere improbabile l'esistenza di una macchina funzionante in tempi brevi. Su tale argomento, penso che dovremmo essere più ottimisti e non sottostimare la creatività dei fisici sperimentali. Anzi, dovremmo probabilmente essere molto ottimisti e sperare che, un giorno, tutti i computer diventino quantistici. Se ci soffermiamo ad analizzare lo stato odierno dell'informatica, notiamo che i microchip dei computer diventano ogni giorno più veloci e capaci di immagazzinare una quantità di dati sempre maggiore. Tale sviluppo è riassunto in quella che i tecnologi dei computer chiamano legge di Moore, da Gordon Moore, uno dei fondatori della Intel Corporation; la legge di Moore afferma che il numero di transistor presenti nel chip di un computer raddoppia ogni anno e mezzo o due. Semplicemente come conseguenza del fatto che, a seguito del progresso tecnologico, i singoli elementi all'interno di un chip, come per esempio i transistor o gli altri componenti elettronici, diventano ogni anno sempre più piccoli. Qual è la relazione tra la legge di Moore e i computer quantistici? La legge di Moore ci dice implicitamente che per la realizzazione fisica di un singolo bit sono necessari sempre meno atomi o elettroni. Proiettando nel futuro tale legge, è interessante notare che in circa venti o trent'anni si raggiungerà il limite fisico fondamentale per i convenzionali chip per computer, in cui un singolo bit sarà rappresentato da un unico elettrone. Ciò significa che sarà semplicemente lo sviluppo naturale del microchip a condurci verso il confine tra il dominio classico e quello dei quanti. È certamente possibile che tale sviluppo tecnologico rallenti man mano che ci avviciniamo al limite quantistico; tuttavia, ciò non farebbe altro che ritardare un po' il naturale corso degli eventi: è perfettamente ragionevole pensare che, alla fine, anche i computer convenzionali entreranno nel regno dei quanti. | << | < | > | >> |Pagina 264Viaggeremo usando il teletrasporto?Gli scrittori di fantascienza hanno inventato il teletrasporto per riuscire a spostare le persone da un luogo a un altro con un semplice schiocco delle dita, un'invenzione, ovviamente, molto utile per coprire le enormi distanze spaziali. Da un punto di vista pratico, nei film di fantascienza il teletrasporto gioca un ruolo ancora più importante, in quanto permette ai registi di risparmiare sui costi di produzione. Le scene di teletrasporto, infatti, possono essere create in maniera semplice ed economica in fase di montaggio, evitando così di simulare l'atterraggio di un'astronave sulla superficie di uno strano pianeta – e gli effetti speciali annessi – che contribuirebbero in maniera significativa alle spese di produzione del film. L'idea del teletrasporto è in generale attraente e, quindi, ha avuto un successo enorme. Ma come funziona nella "vita vera"? Gli esperimenti che abbiamo descritto in questo libro ci stanno avvicinando alla possibilità di teletrasportare gli esseri umani? La risposta è un categorico no. Per comprendere questa risposta negativa, facciamo una breve lista di ciò di cui avremmo bisogno per teletrasportare una persona; come vedrete, si tratta di una lista di cose impossibili. • La persona da teletrasportare si deve trovare in uno stato quantistico che può essere raggiunto solamente quando il sistema da teletrasportare è completamente isolato dall'ambiente esterno. La maggior parte delle interazioni con l'ambiente distruggerebbe lo stato quantistico del nostro sistema umano e quindi ne impedirebbe il teletrasporto. Il punto essenziale è che per trovarsi in uno stato quantico un essere umano dovrebbe essere in una sovrapposizione di diversi stati, ma non è chiaro che cosa questo significhi per un essere vivente. Schrödinger ne ha dato un esempio considerando il caso di un gatto in una sovrapposizione di due stati, quello di gatto vivo e quello di gatto morto, ma, chiaramente, nessuno sa né che cosa tali stati significhino né tantomeno come generarli o come misurarli in un esperimento. Un altro problema è che la persona da teletrasportare ha una mente, una coscienza e, forse, un'anima, attraverso le quali osserverebbe il suo stesso ambiente, cosa di per sé fatale per la sovrapposizione quantomeccanica di stati in cui si troverebbe, poiché potrebbe fornirgli informazioni su quale tra gli stati che compongono la sovrapposizione quantistica sia effettivamente il suo. In definitiva, tutto ciò renderebbe il teletrasporto impossibile. • Supponiamo, tuttavia, che sia possibile superare tutti i problemi che abbiamo elencato al primo punto e immaginiamo un bel giorno di avere imparato come mettere una persona in uno stato quantico. Secondo il protocollo del teletrasporto quantistico, il passo successivo consiste nel produrre una coppia di persone entangled, di gemelli quantistici. Ricordate che l' entanglement non significa che i due elementi della coppia debbano essere gemelli identici, bensì che nessuno dei due sistemi entangled debba avere caratteristiche proprie prima che esse vengano misurate: prima di essere osservati, nessuno dei due gemelli quantistici ha un determinato colore degli occhi, dei capelli o altre caratteristiche individuali. Nonostante tutte le proprietà dei singoli siano indefinite, le due persone entangled devono però essere perfettamente correlate, nel senso che quando ne osserviamo una, e notiamo che i suoi capelli assumono un determinato colore, i suoi occhi una certa sfumatura e così via, allora l'altra persona, il suo gemello quantistico, viene immediatamente proiettato in uno stato con le stesse caratteristiche, non importa quanto distante egli sia. Questo certamente deve avvenire per tutti gli attributi fisici della persona teletrasportata e ciò non solo suona strano, ma addirittura non c'è modo di dargli un significato concreto definendo un preciso protocollo che spieghi come realizzare tali stati entangled. Inoltre, non c'è nemmeno bisogno di dirlo, un siffatto entanglement tra esseri viventi solleverebbe problemi enormi da un punto di vista etico. Chi mai sulla Terra potrebbe volere l'esistenza di due persone gemellate quantisticamente in modo tale da non avere alcuna caratteristica propria ben definita? E chi mai vorrebbe che l'esistenza futura di queste due persone come individui singoli e indipendenti possa dipendere dalla volontà di qualche sperimentatore con la prerogativa di decidere o meno di eseguire su di loro una misura? E, inoltre, chi potrebbe mai accettare l'inevitabile certezza della totale casualità con cui si acquisirebbero le caratteristiche fisiche dopo tale processo di misura? Ovviamente, stiamo elencando una serie di situazioni impossibili e ogni persona dotata di un minimo di buon senso dovrebbe essere d'accordo con noi.
• Tuttavia, procedendo oltre, immaginiamo di essere in grado di
generare una coppia di persone gemellate quantisticamente; a
questo punto la nostra impresa sperimentale non si è ancora
conclusa: il peggio deve ancora arrivare. Infatti, dobbiamo infine proiettare la
persona da teletrasportare e una della coppia
gemellata quantisticamente in uno stato
entangled.
Tale procedura è una generalizzazione del concetto di misura sugli stati
di Bell, di cui abbiamo parlato quando abbiamo analizzato gli
esperimenti di teletrasporto sui fotoni. Nessuno ha la benché
minima idea di come debba funzionare. Possiamo, almeno in
linea di principio, descrivere nel linguaggio della matematica
l'aspetto che questi stati quantistici dovrebbero avere, ma si
tratta comunque unicamente di un gioco matematico. Si tratta
di problemi talmente lontani non solo dalla realtà, ma anche da
ciò che la nostra mente riesce a immaginare, che non possiamo
nemmeno ironicamente cercare di risolverli, come abbiamo provato a fare nei
punti 1 e 2.
In conclusione, non sarebbe saggio illudersi che un giorno le persone possano spostarsi usando il teletrasporto e rimandare a quel momento un viaggio in un qualche luogo remoto. Tale tecnica resta una buona idea solo nell'ambito della fantascienza. Al contrario la possibilità, discussa nelle pagine precedenti, di usare il teletrasporto quantistico per trasferire informazione tra due computer quantistici è una questione completamente differente. | << | < | > | >> |Pagina 305GlossarioComplementarità quantistica La proprietà secondo cui due o più osservabili di un sistema quantistico – per esempio, il cammino seguito da una particella nell'esperimento della doppia fenditura e le figure di interferenza – non possono essere contemporaneamente ben definiti. Disuguaglianza di Bell Espressione matematica derivata da John Bell. Rappresenta i limiti dell'intensità delle correlazioni tra due sistemi classici. Le misure sugli stati entangled in meccanica quantistica violano la disuguaglianza di Bell. Dualismo onda-particella Il principio secondo cui i fotoni – e le altre particelle – possono comportarsi sia come onde sia come particelle, a seconda dell'esperimento che si sta eseguendo. Effetto fotoelettrico Effetto generato dalla luce che incide su una lastra metallica, estraendo elettroni che vengono liberati nello spazio circostante. Entanglement Il concetto, proprio della fisica quantistica, secondo il quale due o più particelle possono essere connesse in maniera molto più forte di quanto possa accadere in fisica classica. Una misura eseguita su una delle due particelle può influenzare istantaneamente lo stato quantistico dell'altra, a prescindere da quanto distante essa sia dalla prima. Albert Einstein lo definì "misterioso". Entropia Misura del grado di disordine di un sistema fisico, definita attraverso il numero di modi in cui possiamo preparare una determinata configurazione a partire dagli elementi che compongono il sistema stesso. Tanto numerosi sono questi modi, tanto più alta è la probabilità associata a questa particolare configurazione, e tanto più alta è la sua entropia. Esperimento della doppia fenditura Un esperimento in cui alcuni fotoni, o un qualsiasi altro tipo di particelle, vengono fatti passare attraverso un diaframma su cui sono state aperte due fenditure. L'immagine che si genera su uno schermo d'osservazione posto dietro le fenditure, e che rappresenta la distribuzione delle particelle sullo schermo, dipende dal tipo di informazione esistente circa il percorso seguito dalle particelle. Euristica Metodo per derivare leggi o spiegazioni di fenomeni fisici attraverso un approccio intuitivo basato sul senso comune. In altre parole, si tratta di un modo per formulare una soluzione o spiegazione possibile. Fisica classica Il dominio della fisica prima dell'avvento della meccanica quantistica. In fisica classica gli oggetti possono avere proprietà ben definite e l'indeterminazione quantistica non è rilevante. Fotone Secondo la meccanica quantistica, una particella elementare (quanto) di luce. Frange d'interferenza La serie di bande chiare alternate a bande scure che si osservano su uno schermo posto dietro a un apparato per eseguire l'esperimento della doppia fenditura. Generatore di numeri casuali Strumento che produce sequenze di numeri casuali, che possono essere usate in diverse operazioni di carattere matematico. Laser Sorgente di luce ad alta intensità. In un fascio laser la luce oscilla in maniera sincronizzata. Legge di Malus La legge che descrive la variazione dell'intensità della luce polarizzata trasmessa attraverso un polarizzatore a seconda dell'orientazione angolare di quest'ultimo. Matematicamente, si tratta di una legge cosinusoidale. Meccanica quantistica In opposizione alla meccanica classica, il dominio della fisica che descrive il comportamento delle particelle (inizialmente solo di quelle infinitamente piccole, mentre oggi di oggetti via via più grandi). È caratterizzata da concetti quali l'indeterminazione quantistica e l' entanglement. Modulatore elettro-ottico Strumento che ruota la polarizzazione della luce a seconda dell'intensità del voltaggio applicato. Particella Una particella occupa una posizione ben definita nello spazio e si muove seguendo una determinata traiettoria. Polarizzazione della luce Il modo in cui oscilla il campo elettrico di un'onda luminosa. Principio di indeterminazione di Heisenberg Principio secondo il quale una particella quantistica non può avere contemporaneamente una posizione e una quantità di moto (ossia una velocità) ben definite. Quanto più siamo certi del valore di una di queste due grandezze, tanto più aumenta l'incertezza sul valore dell'altra. Principio di sovrapposizione quantistica La capacità di un sistema quantistico di essere contemporaneamente in più stati, per esempio in due diversi stati di spin. Probabilità Misura della frequenza con cui è possibile ottenere un certo risultato in un determinato esperimento. Quanto Inizialmente si definiva così ogni particella atomica o subatomica. Oggi, si definisce quanto ogni sistema che mostri comportamenti tipici della fisica quantistica quali, per esempio, la sovrapposizione quantistica o l' entanglement. Quark Un tipo di particella elementare. Realismo locale La supposizione secondo cui i risultati delle nostre osservazioni corrispondono a una realtà indipendente dall'osservazione stessa, combinata con l'affermazione per cui non è possibile influenzare un sistema a una velocità superiore a quella della luce. Stati di Bell Manifestano la possibilità di correlare quantisticamente le polarizzazioni di due fotoni in quattro modi diversi, che corrispondono ai quattro stati di Bell massimamente entangled. Teletrasporto quantistico Il trasferimento dello stato quantistico — ossia di alcune proprietà di un sistema – a un altro sistema che, in linea di principio, può trovarsi a una distanza arbitrariamente grande dal primo. Il teletrasporto quantistico usa l' entanglement come strumento per trasferire quest'informazione tra i due sistemi. Teorema di Bell Afferma che gli stati entangled, e quindi la fisica quantistica, violano i principi del realismo locale.
Variabili nascoste
Concetto secondo cui un sistema quantistico può contenere una
serie di proprietà addizionali, non rilevabili attraverso un'osservazione
diretta del sistema stesso, che permettono di spiegare a livello
fondamentale i risultati degli esperimenti.
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