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Autore Paolo Zellini
Titolo Breve storia dell'infinito
EdizioneAdelphi, Milano, 1980, Saggi 18
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe filosofia , matematica , storia della scienza
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Indice

 1. L'[infinito] di Aristotele.
    Il limite e l'illimitato            11

 2. Il limite                           31

 3. Numeri irrazionali                  57

 4. L'infinito di san Tommaso           79

 5. Infinito categorematico e
    infinito sincategorematico          91

 6. Giordano Bruno, Niccolò Cusano,
    Raimondo Lullo                     105

 7. L'eguaglianza                      121

 8. Cartesio                           137

 9. Leibniz                            147

10. Il principio degli indiscernibili.
    Le classi                          169

11. L'infinito attuale.
    Indefinito e transfinito           185

12. Le antinomie                       213

13. L'infinito aperto                  235

Nota bibliografica                     255

 

 

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Pagina 11

I.
L'[infinito] DI ARISTOTELE
IL LIMITE E L'ILLIMITATO

«C'è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri. Non parlo del Male, il cui limitato impero è l'Etica; parlo dell'Infinito ». Così J.L. Borges introduce la sua breve biografia dell'Infinito in Otras Inquisiciones. Ma anche altrove traspare la sua concezione dell'infinito, spesso dissimulato in idee ad esso collegate, come assoluto male metafisico, operante nel cosmo come seme di disordine e assurdità. Non c'è nulla di più pericoloso della perdita del limite e della misura: l'errore dell'infinito è la perdita del valore contenuto nella relativa perfezione di ciò che è concretamente determinato e formalmente compiuto, ed induce perciò a smarrirsi nel nulla o in un labirinto senza via d'uscita.

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Pagina 20

In Anassagora già comparvero i temi principali di ogni successiva analisi dell'infinito: l'incalcolabile numero di combinazioni degli infinitesimi e le imponderabili situazioni che generano le innumerevoli differenze formali alludono indubbiamente all'esistenza di un principio di continuità operante nella natura; Leibniz ne avrebbe fatto uno dei punti centrali della propria speculazìone. L'inesauribilità dell'illimitato e l'impossibilità a cogliere un assoluto minimo o un assoluto massimo, oltre a costituire un argomento centrale di continua meditazione, dalle scuole filosofiche di Oxford o Parigi nel XIV secolo alla metafisica di molti uomini del Rinascimento, fino a giungere a Leibniz e a Newton, fu alla base della definitiva formulazione che si dette al calcolo infinitesimale nello scorso secolo per opera di Cauchy e Weierstrass.

Ma la più esplicita dichiarazione della bipolarità fondamentale che regola il movimento del cosmo, espressa in termini di «finito» e «indefinito», venne dai Pitagorici. Ippolito scrive che il caldeo Zarata disse a Pitagora come «due siano fin dal principio le cause delle cose che sono, il padre e la madre: e che il padre è la luce, la madre la tenebra: e che della luce son parti il caldo il secco il leggero il veloce, della tenebra il freddo l'umido il pesante il lento; e che da questi, femmina e maschio, è composto tutto il cosmo». I due principi di cui la saggezza caldea, secondo Ippolito, indicò i nomi sopra elencati, furono chiamati dal pitagorico Filolao «limite» e «illimitato», e mentre il bene fu associato al limite, il male fu detto simile all'illimitato.

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Pagina 29

Ma il limite incarnato in qualche regola morale o norma etica non può costituire un assoluto e deve essere alimentato, per sopravvivere, da una propria ininterrotta forza e necessità interiore: esso è sempre soggetto all'effetto dissolvente dell'illimitato. Sicché «è altrettanto vero» osserva Musil «che la nostra morale è la cristallizzazione esterna di un movimento interiore pienamente diverso da essa ». «L'attitudine al bene, la quale in qualche modo è pur presente in noi, corrode subito le pareti se la si rinchiude in una forma fissa, e attraverso quella fessura si butta al male!... I sentimenti non sopportano di essere legati». E ancora: «guai se la fede è vecchia di un'ora!».

Ogni volta che la crisi di un'epoca sembra trascinare con sé la disgregazione della morale vigente e l'illimitato travolgere le forme appassite e vuote del limite, l'estrema difesa e ricapitolazione di uno stato che consenta una sopravvivenza etica è suggerita dal protagonista di Der Mann ohne Eigenschaften: una morale che sia dotata di reale potere di accrescimento e non sia soggetta a periodiche catastrofiche sconfitte dovrebbe, per Ulrich, fondarsi non su un ordinamento stabilito per l'eternità bensì sull'ininterrotta attività di una fantasia creatrice, non regolata dall'arbitrio, capace di plasmare gli svariati suggerimenti che scaturiscono dall'infinito complesso delle possibilità di vivere. La morale andrebbe costruita in tal caso sui successivi gradini dell'esperienza e non sarebbe un ideale stabilito per sempre cui l'uomo normalmente non sa accedere per la sua scarsa purezza.

Ma la proposta di Ulrich è problematica. La forza morale viene in questo modo decomposta e ricondotta al suo puro substrato materiale (l'infinito complesso, delle possibilità di vivere); mentre le scoperte della fantasia, da cui si attende la sperata soluzione, sono pur esse delle forme, in cui non si può nutrire un'incondizionata fiducia. Un più profondo suggerimento, in cui è sfiorata l'ultima verità ove svanisce il perenne contrasto tra il limite e l'illimitato, sembra scaturire da un colloquio di Ulrich con il fanatico Hans Sepp: «la massima potenza che un uomo può sentire in sé... è in fondo uno stato di quiescenza, in cui nulla mai cambia, come un'acqua ferma».

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Pagina 31

II.
IL LIMITE

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Pagina 34

Conviene, per questo, ripensare provvisoriamente agli argomenti di Antifonte. In essi interviene una successione di poligoni che non è ciecamente illimitata; essa è orientata, pur nell'illimitatezza, verso un fine rappresentato dalla circonferenza. Nei poligoni è ravvisabile quindi una sorta di ordine teleologico di cui la circonferenza circoscritta è in qualche modo la causa finale irraggiungibile. La circonferenza è un limite che "comprende' la successione illimitata dei poligoni pur non costituendone un termine effettivo; essa costituisce comunque una soluzione all'indefinita potenzialità di sviluppo della successione pur situandosi al di fuori di quest'ultima.

Ciò vuol dire che è possibile configurarsi concreta- mente la soluzione finale di un processo illimitato, pur non rinunciando al carattere potenziale di quest'ultimo: l'inesauribilità dell'illimitato resta un fatto irrinunciabile, ma non costringe per questo ad accontentarsi di una semplice approssimazione di ciò che si vuole raggiungere.

Pur non uscendo mai dal finito, ed essendo anzi di quest'ultimo nient'altro che un'incessante ripetizione, l'illimitato può indicare qualcosa che lo trascenda, prospettare questa trascendenza come segno caratteristico di una completezza attuale e infinita e di conseguenza evocarne o rifletterne per trasposizione analogica l'intima natura.

Si pensi ad esempio alla somma di una qualsiasi serie infinita convergente: si tratta ivi di un limite concretizzabile in un ente matematico ben definito che non appartiene tuttavia alla successione indefinita delle somme parziali che tendono ad esso. Il limite non è un termine della successione e non è perciò una semplice approssimazione del risultato che si vuole conseguire; esso è raggiunto rinunciando all'analisi indefinita della successione che lo precede e ponendosi in un punto di riferimento esterno che è invisibile a chi si soffermi alla pur corretta constatazione della sua indefinita lontananza e irraggiungibilità. Qui si è evidentemente a un passo da un modello di rappresentazione ideale di ogni ordine teleologico del mondo che comporti un «regressus ad infinitum» delle cause risolvibile solo nel postulare una causa finale attualmente infinita e insondabile per l'ordinaria sensibilità. Scrive Aristotele che la causa finale rappresenta un fine di tal natura da non essere condizionato da altro, ma da condizionare esso stesso l'esistenza delle cose; se esiste un tale elemento finale la progressione all'infinito avrà una sua soluzione, e chi postula l'infinità incondizionata di ogni serie illimitata mette in crisi la stessa nozione di Bene.

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Pagina 46

Una sorta di compromesso, di singolare attenuazione della distanza tra infinito per divisione e infinito per aggiunzione fu tentato ancora da A. Grünbaum che costruì sull'esempio di Zenone un modello puramente cinematico di macchina capace di portare a compimento un'infinità di operazioni in un tempo finito. Egli ottenne questo modello ipotizzando una corsa per i successivi intervalli 1/2, 1/4, 1/8 ... che si interrompesse all'estremo superiore di ciascun intervallo: una corsa cioè intermittente, con un infinito numero di pause d'arresto di durata sempre più breve (1/4, 1/8, 1/16 ... dell'unità di tempo) tali che il tempo totale di percorso non superasse quello della corsa «continua». Gli evidenti problemi di discontinuità pertinenti soprattutto alle accelerazioni per raggiungere il desiderato livello di velocità negli infiniti intervalli non impedirono a Grünbaum di lasciare intravedere una compatibilità, una possibile riuscita dell'intento. Beninteso sul piano esclusivamente cinematico, essendo fin dall'inizio prevedibile che l'energia spesa per tali accelerazioni da un eventuale corridore intermittente non possa che essere assurdamente infinita.

Una corsa interrotta e ripresa un'infinità di volte dà indubbiamente l'idea, suggerisce Grünbaum, di una infinità di operazioni staccate, indipendenti l'una dall'altra e successive nel tempo, cui non si può imputare di essere il risultato di un' analisi di qualche preesistente percorso unitario e ininterrotto. Si tratta di un controesempio, con la dovuta esclusione di complicazioni dinamiche, della presunta assurdità di un insieme infinito di cose fatte in un tempo finito; un tentativo avanzato di capovolgere il regressus in infinitum nell'affermazione positiva dell' essere, di tramutare l'assurdo nel ragionevole, la finzione in realtà. Un tentativo non impossibile se visto nella prospettiva della già menzionata affermazione aristotelica dell'esistenza del Bene in contrapposizione all'incolmabilità delle serie illimitate, e dei successivi più espliciti argomenti di san Tommaso o di Leibniz. Un proposito forse incommensurabile, tuttavia, con le più probabili intenzioni di Lenone.

Eppure proprio il regressus in infinitum delle cause efficienti di san Tommaso dimostra, forse ancora una volta in sintonia con Zenone, come l'atto supremo emerga dall'assutdo, e come sia proprio l' assurdo a procurare quei rovesciamenti di prospettiva che conducono ad ogni tipo di trascendenza. Negli argomenti di Grünbaum, o di chi prima di lui provò con analoghi espedienti a confutare Zenone, è assente ogni allusione alla priorità dell'assurdo e alla sua forza dimostrativa; prevale invece una fiducia diretta nella realtà e legittimità della forma e nella sua vittoria finale sull'illimitato, fino al punto di estendere quanto possibile quella insopprimibile urgenza o necessità metafisica che A.O. Lovejoy chiamò «principio di pienezza» fino alle soglie di una completezza formale prossima all'infinità. Del resto anche san Tommaso introdusse l'assurdo solo per sopprimerlo subito dopo, in nome del fatto e dell'evidenza.

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Pagina 57

III.
NUMERI IRRAZIONALI

La verità per cui nulla 'esiste' se non ciò che è attuale sembrerebbe contraddetta da una circostanza: l'esistenza dei numeri irrazionali. Ma di quale esistenza si tratta? Un numero irrazionale, cioè un numero non rappresentabile come rapporto tra due numeri interi, non può essere scritto in nessun modo come sequela finita di cifre; se si tenta di esibirlo in forma esplicita le sue cifre si dispongono, per lo meno a partire da un certo punto, senza alcun ordine apparente o legge di formazione; esse sembrano distribuite a caso, come se si trattasse del risultato di successivi, indefiniti, lanci di un dado. L'irrazionale si configura, al suo primo apparire, come una pura impossibilità, quella, ad esempio, di rappresentare mediante una frazione razionale il rapporto tra il lato e la diagonale di un qualsiasi quadrato: tale impossibilità è designata dal simbolo "radq(2)" (radq(2) è appunto il rapporto numerico, inesistente, tra le lunghezze del lato e della diagonale di un quadrato, riferite a una comune unità di misura: essi sono perciò detti «incommensurabili»). Un'altra impossibilità, quella di definire un rapporto razionale tra le lunghezze di una circonferenza e del suo raggio, è racchiusa nel simbolo "pi-greco".

Non si andrebbe lontani dalla verità se si sostenesse che un numero irrazionale non esiste affatto, pur conservando l'intima certezza che esso designa indubbiamente "qualcosa'. Un numero irrazionale sembra comunque sprovvisto di un'esistenza attuale; esso non può essere esibito come l'insieme di 'tutte' le sue cifre.

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Pagina 105

VI.
GIORDANO BRUNO, NICCOLÒ CUSANO, RAIMONDO LULLO

Affermando che a partire dal Rinascimento gli infinitesimi e le quantità non archimedee furono reintrodotte nell'uso matematico e che ciò avvenne a vantaggio dell'innovazione ma anche a scapito della correttezza formale delle dimostrazioni, si direbbe una cosa esatta; ma anziché cogliere il senso complessivo di una verità si estrarrebbe da questa un semplice frammento: quello ritenuto più idoneo ad essere collocato nella storia di una matematica incessantemente ispirata dall'urgenza di una rigorosa descrizione linguistica dei propri concetti e delle proprie libere costruzioni.

Può accadere, in realtà, che l'insostenibilità logica di un discorso matematico, proprio perché tale, contenga il seme di una qualche verità, o addirittura che questa stessa illogicità si tramuti nella imprescindibile caratteristica dell'unico segno visibile di idee o di realtà inaccessibili.

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Pagina 112

L'infinità dell'Universo è per Bruno il prodotto dell'infinità di Dio, che non potrebbe ragionevolmente circoscrivere la sua onnipotenza nei limiti di uno spazio chiuso e in una molteplicità finita di sostanze. Questo, si è visto, era già stato il risultato della condanna da parte della teologia cristiana delle tesi della filosofia aristotelica e averroista, dalla cui ispirazione proveniva l'ammirazione di un ordine cosmico fondato sul limite e un conseguente «horror infiniti» che non era se non l'indicazione della fatale imperfezione e falsità di ogni infinito che si volesse scorgere nella natura creata.

Ma per Bruno l'infinito di Dio è riconoscibile più come enigma insondabile che come estremo raggiungimento dell'illimitato sviluppo di un'infinità potenziale: ciò che ci consente di penetrarne il mistero non è tanto la semplice percezione di un mondo sconfinato, quanto piuttosto la lettura del più riposto significato dei segni soprannaturali di cui tale mondo è intessuto. Così pure la scoperta copernicana, come rivelò F.A. Yeats, fu per Bruno essenzialmente il pretesto per una nuova descrizione geroglifica della Creazione ispirata a motivi ermetici; e non costituì in nessun modo l'attesa prova scientifica di una celebrata infinità dell'Universo.

La scrittura geroglifica per eccellenza, capace di illustrare in segni visibili della più astratta ed essenziale trasparenza i misteri racchiusi negli archetipi fu attuata tuttavia solo nelle forme pure della matematica e delle immagini geometriche. La matematica non fu per Bruno una scienza autonoma da cui estrarre a posteriori il supporto metaforico per la comprensione di verità metafisiche; essa costituì piuttosto fin da principio una parte della filosofia contemplativa, una scienza delle cause formali, un'arte di conoscenza a priori dei princìpi, come lo fu già per Niccolò Cusano o Raimondo Lullo.

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Pagina 121

VII.
L'EGUAGLIANZA

Nelle sue Finzioni Borges immaginò che uno scrittore francese contemporaneo tentasse di portare a compimento un singolare proposito: quello di scrivere, senza rinunciare a un'ispirazione spontanea, alcune pagine che riproducessero parola per parola due interi capitoli del Don Chisciotte di Cervantes. La difficile impresa poteva in verità essere dichiarata semplicemente assurda, perché il suo svolgimento era legato a due leggi antitetiche: una costituita appunto dalla libera ispirazione; l'altra dall'impegno a sopprimere ogni variante del modello originale.

Nel riferire questo tentativo non sarebbe in realtà corretto parlare di un modello originale al cui confronto lo scritto moderno si riduca a semplice imitazione. Di imitazione non si tratta, e neanche, ovviamente, di semplice copiatura. L'intenzione di non compromettere la libera fantasia creatrice del suo autore metterebbe al riparo il testo contemporaneo da ogni perdita di originalità: il suo valore sarebbe degnamente confrontabile con l'opera formalmente identica che l'ha preceduto.

E' possibile tutto questo? L'autore francese risponde testualmente: «La mia impresa non è difficile. Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine». La duplicazione perfetta di un originale richiede dunque l'immortalità.

Ecco dunque un paradosso che svela un altro nome dell'infinito: l'eguaglianza. La vera eguaglianza è un punto limite irraggiungibile che l'autore contemporaneo intende afferrare senza trascorrere per l'inesauribile via delle approssimazioni successive. «L'oggetto finale d'una dimostrazione teologica o metafisica» egli sostiene «non è meno dato e comune del divulgato romanzo che mi propongo." La sola differenza è questa: che i filosofi pubblicano in gradevoli volumi le tappe intermedie del loro lavoro, e io ho risoluto di cancellarle».

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