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| << | < | > | >> |Pagina 3La rivolta delle coscienze: il discorso cancellato
[Questo discorso, scritto da Jean Ziegler per l'inaugurazione del festival
di Salisburgo 2011, non è stato tenuto perché l'organizzazione del
festival l'ha rifiutato.]
Signore e Signori, ogni cinque secondi nel mondo muore un bambino sotto i dieci anni perché non ha nulla da mangiare. 37.000 sono le persone che muoiono ogni giorno per fame e circa un miliardo vivono in condizioni di grave e costante sottoalimentazione. Nello stesso resoconto della FAO, il World-Food-Report, che di anno in anno calcola il numero delle vittime, si legge anche che allo stato attuale del suo sviluppo l'agricoltura mondiale sarebbe in grado di produrre senza sforzo il doppio della quantità di cibo sufficiente a sfamare l'intera popolazione del nostro pianeta. Dunque: non esiste una vera e propria mancanza di cibo e quindi non è la fatalità a scatenare il quotidiano massacro, che intanto persevera a ritmo inesorabile. Ogni bambino che muore per fame viene assassinato. E la fame divora le sue vittime seguendo sempre lo stesso percorso: nei campi profughi della Somalia come nelle bidonville di Karachi o Dacca - il volto della morte è ovunque lo stesso. In un bambino che non mangia, il deperimento comincia già dopo pochi giorni. All'inizio l'organismo brucia i depositi di zuccheri, poi svuota le riserve di grassi. Il bambino diventa apatico e perde peso a vista d'occhio. Il sistema immunitario collassa. Nausea e diarrea accelerano la consunzione. Microorganismi parassitari e infezioni dilagano in bocca e nelle vie respiratorie, causando dolori atroci. Le funzioni muscolari svaniscono. Il bambino non riesce più a reggersi in piedi. Le sue braccia penzolano lungo il corpo come fosse un fantoccio. Il viso invecchia di decenni. Di lì a poco sopraggiunge la morte. I motivi di questa agonia di massa sono molteplici e complessi. Guardiamo per esempio la tragedia che sta consumando proprio ora (luglio 2011) il Corno d'Africa. Le savane, i deserti, le montagne in Etiopia, Gibuti, Somalia e Tarkana (il Kenya del Nord) stanno costringendo 12 milioni di persone alla fuga. Da più di cinque anni i raccolti sono completamente insufficienti a sfamare la gente. La terra è dura come il cemento. Nei letti screpolati di vecchie pozzanghere giacciono cadaveri di zebù e capre, muli e cammelli, uccisi dalla sete. Chi tra uomini, donne e bambini riesce a reggersi ancora in piedi, cerca di raggiungere uno dei campi profughi dell'ONU. Dadaab per esempio, in Kenya, dove si accalcano da tre mesi più di 400.000 profughi della fame. La maggior parte di loro proviene dalla vicina Somalia del Sud, dove le spietate milizie di Al Shabaab, braccio destro di al-Qaida, disseminano il terrore. Dai primi di giugno, l'alba consegna alle porte del campo tutti i giorni almeno 1.500 nuovi arrivati. Di posto, però, non ce n'è più da tempo. Il portone d'ingresso, rivestito di filo spinato, resta sbarrato. Fuori dal campo, i volontari dell'ONU sono costretti a fare un'inclemente selezione: entra solo chi sembra potercela fare. Il denaro, che servirebbe per un ciclo di alimentazione endovenosa capace di riportare in vita un bambino in una dozzina di giorni - sempre che non si trovi già in stato di denutrizione troppo avanzata - manca. Non ci sono soldi. Il World-Food-Programm, WPF, che avrebbe dovuto fornire i primi soccorsi, si è visto costretto a chiedere il 1 luglio scorso ai suoi Stati membri un contributo speciale, cioè una rata straordinaria di 180 milioni di euro. Ne ha raccolti solo 62 milioni. E pensare che ancora nel 2008 il budget ordinario del WPF ammontava a 6 miliardi di dollari. Nel 2011 registrava poi già solo 2,8 miliardi. Come mai? Perché i più ricchi tra i Paesi membri - quindi innanzitutto le nazioni appartenenti all'UE, gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia - a casa hanno dovuto sborsare migliaia di miliardi ai malfattori dell'alta finanza: per rianimare il credito interbancario e salvare le chiappe ai peggiori criminali della speculazione. Alla fine, per un pronto intervento umanitario (e magari un progetto di sviluppo a lungo termine), scusate, ma di soldi non ne sono avanzati. Intanto, dopo il crollo dei mercati finanziari, i fondi di copertura e altri mega-speculatori hanno spostato le loro tende nelle borse agrarie (il Chicago Commodity Stock Exchange e consimili). Col risultato che ora le loro contrattazioni a termine, i futures eccetera, fanno schizzare alle stelle i prezzi degli alimenti di base. Il grano costa oggi sul mercato mondiale 270 euro a tonnellata. L'anno scorso costava ancora la metà. Il prezzo del riso è aumentato del 110%. Quello del mais del 63%.
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Semmai sarò io a risvegliarmi. Da un sogno che non potrebbe essere più lontano da tutte quante le realtà! In ogni tempo e in ogni luogo il denaro ha sempre messo l'arte con le spalle al muro. "Giganti immortali" definisce Noam Chomsky le multinazionali. Secondo le statistiche della banca mondiale, l'anno scorso le 500 aziende private più potenti di tutti i settori produttivi hanno controllato da sole il 52,8% del reddito mondiale lordo, ovvero la metà di tutte le ricchezze prodotte dall'uomo sulla Terra. La loro strategia è una sfrenata ottimizzazione dei profitti, libera da qualsiasi vincolo di dovere sociale. Il singolo individuo che sta a capo di una multinazionale, non ha alcun valore. I suoi sentimenti, le sue conoscenze ed emozioni non contano nulla. Conta solamente la struttura di potere del denaro. E se un dirigente di denaro non ne produce abbastanza, viene rimosso in un batter d'occhio. I signori Beethoven e Hofmannsthal non hanno alcuna voce in capitolo contro l'inesorabile legge di accumulazione del capitale.
L'art pour l'art!
proclamò Théophile Gautier a metà
del Novecento, e questa idea di un'arte puramente
fine a se stessa, lontana da qualsiasi funzione sociale, è per i signori del
potere economico una scusa assai comoda per aggirare le proprie emozioni e i
possibili rimorsi di coscienza.
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