Copertina
Autore Jean Ziegler
Titolo L'odio per l'occidente
EdizioneTropea, Milano, 2010, Saggi , pag. 264, cop.fle., dim. 13,8x21,2x1,8 cm , Isbn 978-88-558-0105-8
OriginaleLa haine de l'Occident [2008]
TraduttoreMonica Fiorini
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe globalizzazione , storia contemporanea , storia criminale , storia: Europa , paesi: Nigeria , paesi: Bolivia , paesi: India , paesi: Cina
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Indice


Prefazione all'edizione italiana                               9
Introduzione                                                  21

PRIMA PARTE. Alle radici dell'odio                            31

1. La ragione e la follia                                     33
2. I meandri della memoria                                    39
3. La caccia allo schiavo                                     49
4. Il massacro coloniale                                      55
5. Durban, quando l'odio per l'Occidente ostacola il dialogo  65
6. Sarkozy in Africa                                          76

SECONDA PARTE. L'abominevole filiazione                       87

1. Dallo schiavista al predatore onnivoro                     89
2. In India, in Cina                                          99

TERZA PARTE. La schizofrenia dell'Occidente                  105

1. I diritti umani                                           107
2. Cinismo, arroganza e doppio linguaggio                    120

QUARTA PARTE. Nigeria: la fabbrica dell'odio                 125

1. I padrini di Abuja                                        127
2. Al tempo della guerra del Biafra                          136
3. La farsa elettorale                                       139
4. La corruzione come mezzo di controllo                     145
5. Scia di sangue nel Delta                                  148
6. Lagos, pattumiera dell'Occidente                          156
7. L'ipocrisia della Banca mondiale                          159
8. Le schiave bambine di Wuse                                164
9. Quando Angela Merkel diede uno schiaffo a Wole Soyinka    167

QUINTA PARTE. Bolivia: la rottura                            171

1. Quando i porci erano affamati                             173
2. Un indio alla presidenza                                  182
3. L'orgoglio ritrovato                                      189
4. La riappropriazione delle ricchezze                       195
5. Sconfiggere la miseria                                    201
6. Lo stato nazionale                                        211
7. La festa                                                  221
8. Gli ustascia sono tornati                                 225

Epilogo. «È venuto il nostro momento»                        235

Ringraziamenti                                               245

Note                                                         247


 

 

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Pagina 9

Prefazione all'edizione italiana



La giornata era fredda, solo un timido sole trapelava fra le nubi. Pennsylvania Avenue era gremita di gente. Davanti alla facciata occidentale del Campidoglio era stato eretto un podio addobbato con i colori della bandiera americana.

Un uomo di quarantotto anni, slanciato, dal volto scuro e lo sguardo limpido che indossava un cappotto blu, è avanzato verso il centro del podio.

Il presidente della Corte suprema ha letto la formula del giuramento.

Barack Obama l'ha ripetuta.

Al suo fianco, la moglie Michelle e le sue due bambine, Sasha e Malia.

Il bisavolo di Michelle si chiamava Dolphus Shields. Era nato schiavo in una piantagione di cotone della Carolina del Sud nel 1859.

Tra l'immensa folla che si accalcava davanti al Campidoglio e lungo tutta Pennsylvania Avenue, molti avevano le lacrime agli occhi.

Era mercoledì 20 gennaio 2009.


Nel 2009, l'elezione di Barak Obama a 44esimo presidente degli Stati Uniti costituisce di certo l'evento più stupefacente che ha avuto luogo sul nostro pianeta. Frutto, per prima cosa, del risveglio e della mobilitazione della memoria ferita di milioni di persone, i discendenti degli africani deportati e gli appartenenti ad altre minoranze, questa vittoria ha fatto nascere ovunque nel mondo, ma soprattutto nell'emisfero Sud, un'immensa speranza.

Una speranza oggi in frantumi.

Nella più grande prigione militare del mondo, a Bagram, in Afghanistan, gli agenti dei servizi di sicurezza americani continuano a torturare i loro prigionieri. Le «Commissioni militari» sono rimaste al loro posto, e ai detenuti, «combattenti ostili» o semplici sospetti, non si applicano le Convenzioni di Ginevra.

L'avvocata newyorkese Tina Forster, che a Bagram si occupa, per conto dell'International Justice Network, di tre detenuti, due yemeniti e un tunisino, afferma: «Non c'è alcuna differenza tra l'amministrazione Obama e l'amministrazione Bush».

Obama porta avanti due guerre... e riceve il Nobel per la Pace!

Alla fine di novembre 2009, quattro giorni prima della cerimonia solenne durante la quale avrebbe ritirato, a Oslo, il riconoscimento, il presidente degli Stati Uniti ha deciso di intensificare la guerra in Afghanistan annunciando l'invio di altri trentamila soldati. D'ora in avanti i bombardieri americani saranno ufficialmente autorizzati a operare nelle zone tribali del Pakistan occidentale, dichiarate aree di ripiegamento e di rifornimento dei talebani. Sono soprattutto gli aerei telecomandati da una base militare sotterranea del Nevada, i droni, a compiere i massacri più terribili tra la popolazione civile di quella regione. Gli attacchi dei droni sulle città e i villaggi pashtun sono destinati ad aumentare considerevolmente.

Com'era prevedibile, il 3 dicembre, a Roma, il governo Berlusconi ha subito annunciato l'invio di rinforzi: mille soldati italiani supplementari partiranno per la guerra nel 2010. Ma per tenere buona l'opinione pubblica, Berlusconi ha contemporaneamente diffuso la notizie del "probabile" ritiro delle truppe italiane nel 2013.


Nel ghetto di Gaza, dove, su una superficie di soli 365 km2, sono ammassati un milione e mezzo di palestinesi, la sottoalimentazione e le epidemie fanno stragi.

Il blocco di Israele priva gli ospedali di medicinali. Dopo i massacri e i bombardamenti israeliani del gennaio 2009, nessuna ricostruzione è possibile perché la punizione collettiva inflitta alla popolazione civile assediata impedisce l'arrivo di materiali da costruzione. Nei territori occupati di Cisgiordania e Gerusalemme est, il furto di terre, acqua e case palestinesi continua senza alcun ostacolo.

Su mandato delle Nazioni unite, il giudice sudafricano Richard Goldstone ha condotto per sei mesi un'inchiesta sull'aggressione israeliana contro il ghetto di Gaza del gennaio 2009: 1.400 morti palestinesi, più di seimila mutilati e ustionati, tra cui numerose donne e bambini. La conclusione: crimini di guerra commessi dal governo israeliano (ma anche da Hamas). Il giudice ha chiesto che i colpevoli vengano giudicati dalla Corte penale internazionale. Ma al Consiglio di sicurezza e al Consiglio per i diritti umani dell'Onu, gli Stati Uniti hanno preso vigorosamente posizione contro il suo rapporto.

Tra gli alleati strategici degli Stati Uniti continuano a figurare alcuni stati – Uzbekistan, Arabia Saudita, Israele, Nigeria, Colombia, Kuwait – che, in base all'elenco stilato da Amnesty International, risultano fra coloro che violano in maniera costante i diritti dell'uomo.

Il Washington Post scrive: «Il punto debole di Obama sono i diritti umani».

Perché questo fallimento?

Barack Obama è costretto a piegarsi alla legge dell'impero. Nonostante una popolazione relativamente ridotta – trecento milioni di persone –, gli Stati Uniti restano ancora oggi la nazione industrializzata di gran lunga più creativa, competente e dinamica del mondo. Nel 2009, il 25 per cento circa di tutti i beni industriali prodotti in un anno sulla terra provenivano da imprese americane.

La principale materia prima di questa gigantesca macchina industriale è il petrolio. Gli Stati Uniti ne utilizzano circa venti milioni di barili al giorno, ma quelli estratti tra l'Alaska e il Texas sono meno di otto milioni. Il 61 per cento, ovvero poco più di dodici milioni di barili al giorno, viene importato dall'estero. E, cosa ancora più importante, da territori stranieri generalmente ostili, dove i conflitti sono accesi: Medioriente, Asia centrale, Delta del Niger.

Conseguenza? Gli Stati Uniti devono mantenere forze armate straordinariamente numerose e costose.

Nel 2008, per la prima volta nella storia, le spese per gli armamenti degli stati membri dell'Onu hanno superato i mille miliardi di dollari all'anno. Gli Stati Uniti ne hanno spesi il 41 per cento, la Cina, seconda potenza militare mondiale, l'undici per cento.

L'imperativo petrolifero – e militare – obbliga così il governo di Washington a stringere in tutto il mondo alleanze strategiche con alcuni degli stati che maggiormente calpestano i diritti dei popoli che governano.

Siamo dunque di fronte a questo paradosso.

Dopo l'elezione alla presidenza degli Stati Uniti di un afroamericano, l'odio dei popoli del Sud per l'Occidente è cresciuto ulteriormente.


Régis Debray scrive: «Oggi più che mai la memoria è rivoluzionaria». Il secondo fenomeno importante che si è potuto osservare in quest'ultimo anno è il rapido progresso e il consolidamento della rivoluzione degli indios nelle Ande.

Sulle immense e aride cordigliere, nel fondo delle vallate, tra le foreste lussureggianti delle terre basse dell'Amazzonia, la memoria ferita dei popoli indigeni sta vivendo una folgorante rinascita.

Questa memoria diventa coscienza politica, volontà di insurrezione, forza di resistenza e indomabile movimento sociale.

Maggio 2009: gli indios dell'Amazzonia peruviana si sollevano. Il governo di Lima ha appena accordato ad alcune società petrolifere occidentali i diritti di trivellazione che minacciano di distruggere le terre e i corsi d'acqua delle comunità autoctone. Sotto la direzione dell'Aidesep (l'Associazione interetnica per lo sviluppo dell'Amazzonia peruviana), le comunità organizzano la resistenza, bloccano le strade e i fiumi della regione. Corrotto dalle società straniere, il presidente Alain García decreta lo stato d'emergenza. La repressione si abbatte sulle comunità. Molti indios vengono assassinati. A Bagua, l'esercito apre il fuoco sui manifestanti uccidendone 34, tra cui donne e bambini, ma la resistenza non si indebolisce.

Mercoledì 17 giugno 2009, Alain García si presenta davanti al Congresso a Lima. Chiede l'annullamento dei decreti che prevedono l'esproprio delle terre amazzoniche.

In Bolivia, la rivoluzione silenziosa iniziata con l'ingresso al palazzo Quemado di Evo Morales Ayma, primo presidente indigeno eletto in Sudamerica nel corso di cinquecento anni, prosegue nella tormenta.

I contratti negoziati con più di duecento società straniere attive in ambito minerario, petrolifero e del gas, contratti che le trasformano in semplici società di servizi, procurano allo stato boliviano, anno dopo anno, decine di miliardi di dollari di entrate. Evo Morales utilizza questa manna per trasformare radicalmente la situazione materiale delle classi più povere. Lentamente, il popolo boliviano esce dalla sua secolare miseria. Dal 2009, ogni persona anziana di più di sessant'anni priva di reddito riceve duecento boliviani al mese.

Il Bono madre-niño è un'altra riforma generalizzata nel 2009. Dà diritto al controllo medico gratuito durante la gravidanza. Il neonato beneficia dello stesso servizio. Durante la gravidanza e fino a quando il bambino non ha compiuto due anni, la madre riceve duecento boliviani al mese. Un altro Bono mira a evitare che i bambini delle famiglie più povere lascino la scuola. Alla fine del quinto anno scolastico, la famiglia riceve un premio di duecento boliviani, equivalenti a trenta dollari circa. Questa somma può sembrare ridicolmente bassa, ma spesso le famiglie hanno da sei a otto bambini.

La lotta contro il lavoro schiavistico prosegue. Nell'Alto Parapeti, dipartimento di Santa Cruz, gli agenti dell'Inra hanno scoperto, nel 2009, dieci latifundios concentrati nelle mani di solo cinque famiglie ed estesi su una superficie complessiva di 36mila ettari. Parecchie centinaia di famiglie guaraní erano costrette a vivere e lavorare su questi latifondi, senza ricevere alcun salario e senza nessun altro tipo di compenso. Le terre su cui lavoravano questi schiavi sono state allora espropriate. Il 14 marzo 2009, Evo Morales si è recato di persona nell'Alto Parapeti per consegnare agli Anziani delle comunità guaraní i loro titoli di proprietà.

Ma il nemico non demorde e periodicamente hanno luogo dei massacri di contadini. Leopoldo Fernandez, governatore nel 2009 del dipartimento di Pando, nella regione dell'Oriente amazzonico al confine con il Brasile, è complice e amico dei grandi proprietari terrieri della regione. I suoi gendarmi e le sue milizie private vanno a caccia degli agenti dell'Inra, degli agronomi inviati da La Paz e dei geometri incaricati di predisporre la riforma agraria. In segno di protesta, migliaia di contadini senza terra, accompagnati da donne e bambini, hanno organizzato una marcia in direzione del capoluogo dipartimentale. All'altezza del villaggio di Catchuela-Esperanza, i pistoleros di Fernandez hanno teso loro un'imboscata. Diciassette partecipanti, uomini donne e bambini, sono stati uccisi; più di seicento i feriti; decine di persone risultano disperse. Nelle loro testimonianze, alcuni sopravvissuti hanno dichiarato che parecchi degli aggressori non parlavano spagnolo e si esprimevano in una lingua «sconosciuta».

Nell'aprile del 2009 si è riunita, a Trinidad e Tobago, stato caraibico al largo del Venezuela, la quinta Cumbre de las Americas, il summit dei capi di stato delle Americhe.

Barack Obama vi ha incontrato per la prima volta Evo Morales.

La loro conversazione è durata poco.

Nel frattempo, la campagna di sabotaggio condotta contro il governo legittimo della Bolivia da parte dell'oligarchia di Santa Cruz e dei suoi mercenari croati, sotto la direzione degli agenti dei servizi segreti americani, è proseguita con estrema violenza.

Due giorni dopo la stretta di mano di Trinidad, le unità speciali della polizia boliviana hanno circondato, a Santa Cruz, l'hotel Las Americas.

Al quarto piano dell'edificio, cinque veterani delle guerre dei Balcani di origine croata e ungherese avevano un vero e proprio deposito d'armi e di esplosivi.

L'assalto è cominciato alle cinque del mattino. Secondo gli appunti trovati sul posto, i mercenari avevano previsto di assassinare Evo Morales, il vice presidente García Linera e quattro dei principali ministri del governo. Tre mercenari sono stati uccisi e due fatti prigionieri durante l'attacco.

I complotti per organizzare omicidi e atti di sabotaggio non sono i soli pericoli che minacciano la rivoluzione silenziosa della Bolivia. L'albero della nuova Bolivia, che cresce lentamente, ha anche rami deboli o marci. Santos Ramirez, cofondatore del Mas (Movimiento al socialismo) che ha portato Morales al potere, per esempio. Era il terzo uomo più potente dello stato dopo Evo Morales e García Linera. Ex avvocato dei sindacati contadini, era diventato direttore generale dell'Ypfb, la società petrolifera nazionale. La polizia lo ha arrestato presso il suo domicilio nel febbraio del 2009.

In casa sua sono stati trovati 450mila dollari in contanti, un «regalo» – secondo il giudice d'istruzione – della società americana Catler Uniservice.

Quest'ultima ha ottenuto dall'Ypfb l'appalto per la costruzione di un nuovo impianto per la liquefazione del gas naturale.

Evo Morales ha cacciato Ramirez e al suo posto ha messo Carlos Villega... sesto direttore generale dell'Ypfb dall'entrata in funzione del presidente!

Ma né gli intrighi internazionali, né la diffamazione da parte della stampa europea, né i sabotaggi sono riusciti finora a spezzare il forte movimento identitario indio, a fermare la costruzione dello stato nazionale e la rivoluzione silenziosa perseguita dal Mas. La nuova Costituzione è stata democraticamente adottata e il 6 dicembre 2009 Evo Morales Ayma è stato trionfalmente rieletto presidente della Repubblica con più del 63 per cento dei suffragi. Il suo movimento, il Mas, ha ottenuto la maggioranza in entrambe le camere.


Terza nuova circostanza nell'ultimo anno: nell'autunno del 2008 uno tsunami finanziario si è abbattuto sul pianeta; con le loro speculazioni dementi e la loro avidità ossessiva i predatori del capitale finanziario globale hanno distrutto in pochi mesi migliaia di miliardi di valore patrimoniale.

Alphonse Allais scrive: «Quando i ricchi dimagriscono, i poveri muoiono». Il banditismo bancario ha prodotto in Occidente milioni di disoccupati, ma nei paesi del Sud uccide. Secondo la Banca mondiale, dallo scoppio della crisi delle borse parecchie centinaia di milioni di persone sono precipitate nell'abisso della povertà estrema e della fame.

Il 22 ottobre 2008 al palazzo dell'Eliseo, a Parigi, si sono riuniti i 15 capi di stato e di governo dei paesi dell'euro. Erano presenti, tra gli altri, José Luis Zapatero, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. In base alle loro decisioni gli stati della zona euro hanno stanziato 1.700 miliardi al fine di rimettere in moto il credito interbancario e sostenere l'aumento di capitale delle banche.

Durante i due mesi successivi alla riunione di Parigi, i paesi industrializzati hanno ridotto considerevolmente i versamenti alle agenzie internazionali di aiuto umanitario e i crediti destinati ai paesi più poveri.

Incaricato di garantire l'aiuto alimentare d'emergenza, il Pam (il Programma alimentare mondiale delle Nazioni unite) ha un budget ordinario di sei miliardi di dollari. Nel 2008 si occupava di 71 milioni di persone, vittime di guerre, catastrofi naturali, migrazioni forzate. Oggi, i fondi a sua disposizione si sono ridotti a quattro miliardi di dollari. In pochi mesi il Pam ha perso insomma un terzo del budget a sua disposizione. Con quali effetti?

In Bangladesh ha dovuto annullare le mense scolastiche per un milione di bambini sottoalimentati. Nei campi profughi del Kenya, trecentomila rifugiati somali ricevono oggi una razione giornaliera di cibo pari a sole 1.500 calorie. L'Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che il minimo vitale per un adulto è di 2.200 calorie al giorno. In questi campi, sui quali sventola la bandiera bianca e blu dell'Onu, le Nazioni unite organizzano così direttamente la sottoalimentazione degli esseri umani a loro affidati conducendoli all'agonia e alla morte.


Dov'è la speranza?

Nella costruzione, da parte dei popoli del Sud, di nazioni sovrane, plurietniche, democratiche, padrone delle ricchezze delle loro terre e del sottosuolo, stati di diritto capaci di negoziare da pari a pari con le potenze occidentali.

Nel 1799, all'età di sedici anni, Simón Bolívar arrivò per la prima volta a Parigi. Lo spettacolo dei rivolgimenti rivoluzionari alimentò in lui il rifiuto del dispotismo spagnolo nelle Americhe. Le idee di Robespierre e di Saint-Just stimolarono anche altri giovani che ben presto si sarebbero messi alla testa degli eserciti di liberazione nelle Ande.

Antonio José Sucre, José San Martin, Bernardo O'Higgins e molti altri insorti hanno tratto la loro ispirazione dagli scritti e dalle lotte dei rivoluzionari francesi.

Ma oggi la guida non viene dall'Europa.

Maurice Duverger ha previsto la degenerazione delle nazioni europee. Dotate di un modo di produzione estremamente dinamico, ma soggiogate dalla volontà di conquista delle loro classi dirigenti, dall'ossessione del guadagno finanziario immediato, hanno lasciato morire i Lumi che avevano presieduto alla loro nascita.

Gli stati occidentali applicano ciò che Duverger chiama «fascismo esterno». All'interno dei loro territori costituiscono autentiche democrazie, ma i valori democratici che sono a fondamento delle loro Costituzioni si arrestano alle frontiere.

Nei confronti dei popoli del Sud praticano la legge della giungla, la legge del più forte, e schiacciano chiunque faccia resistenza. L'ossessione patologica del profitto delle loro rispettive oligarchie è inoltre alla base della politica estera portata avanti dagli stati occidentali.

Insensibile alle sofferenze dei popoli del Sud, alle loro memorie ferite, alle loro richieste di scuse e di riparazione, l'Occidente resta cieco e sordo, chiuso nel proprio etnocentrismo.

In Europa, la volontà di giustizia e la speranza in un'avventura collettiva portatrice di senso sembrano ormai scomparse. Il veleno dell'individualismo edonista, distillato con cura dai signori del capitale finanziario globalizzato, ha fatto il suo lavoro, e anche solo la parola «rivolta» provoca sarcasmo. Il cancro capitalista corrode l'Occidente. Sulla soglia del nuovo millennio la speranza viene dalle foreste amazzoniche dell'Ecuador e del Perù, dagli altipiani della Bolivia, dai Llanos del Venezuela e, in misura minore, dalle megalopoli del Brasile.


Abbonato a vari giornali rivoluzionari e in particolare, dal luglio del 1789, a L'Ami du Peuple, Immanuel Kant seguiva da Königsberg gli eventi di Parigi. Contrariamente ai suoi colleghi Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller – che pure sono considerati «poeti della libertà» –, comprese subito in maniera intuitiva e profonda il senso di quella «frattura», la sua grandezza, il suo significato universale. Con gli amici della locanda Zum Ewigen Frieden (Per la pace perpetua), commentava quotidianamente e con passione le contraddizioni, i soprassalti e le illuminazioni della rivoluzione in corso.

Nel 1798, poco dopo il terrore e la scomparsa di Saint-Just e di Robespierre, Kant scrive:

[...] l'apparire di qualcosa del genere nella storia umana non si dimentica più, perché ha svelato una capacità e una disposizione della natura umana al meglio quali nessun uomo politico, anche arrovellandosi, avrebbe desunto dal corso della storia passata. [...] anche se il fine atteso da quest'avvenimento non venisse ora raggiunto quella predizione filosofica non perderebbe nulla della sua forza.

Quell'avvenimento è infatti troppo grande, troppo intrecciato all'interesse dell'umanità e, per la sua influenza, troppo esteso a ogni parte del mondo per non tornare, in un qualsiasi ricorrere di circostanze favorevoli, alla memoria dei popoli e per non essere evocato allo scopo di ripetere tentativi del genere».

Tra le mani degli occidentali, colpiti da una tragica debolezza, la fiaccola della Rivoluzione si è spenta. Oggi la rivolta dell'uomo a cui è negata la dignità si è spostata nei Llanos, nel cuore delle Ande. Sono i popoli del Sudamerica e dei Caraibi ad aver riattizzato la fiamma che forse presto avvamperà in tutto il mondo.

Il grande movimento di emancipazione dell'essere umano e di umanizzazione graduale della storia progredisce rapidamente in tutto l'emisfero Sud, in particolare tra le popolazioni musulmane, indios e chollos.

Ma nel cuore stesso di questa straordinaria rinascita identitaria, del desiderio di vivere insieme – nell'uguaglianza, nella libertà e nella fraternità – che è alla base di ogni costruzione nazionale, si insinua un pericolo mortale, un veleno: la tentazione permanente del ripiegamento tribale, del fanatismo identitario, della singolarità, che diventano rifiuto dell'altro, razzismo e odio patologico.

Felipe Quispe, 011anta Humala e i profeti della Raza cobriza incarnano questo pericolo nelle Ande, i salafisti e i talebani nel mondo musulmano.

Se l'Occidente persisterà nel suo accecamento, i profeti razzisti, i fanatici tribalisti avranno la meglio. Distruggeranno il movimento di emancipazione e con esso la speranza di una vittoria sull'attuale ordine cannibale del mondo.

La nascita di un mondo più vivibile, più degno, votato all'equità e alla ragione, dipende dalla nostra solidarietà di occidentali con le nuove nazioni sovrane dell'America latina e di altri luoghi dell'emisfero Sud.

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Introduzione



                                            Abito una ferita sacra
                                            abito antenati immaginari
                                            abito un volere oscuro
                                            abito un lungo silenzio
                                            abito una sete irrimediabile
                                            abito un viaggio di mille anni
                                            abito una guerra di trecento anni [...]

                                            AIMÉ CÉSAIRE, Io, laminaria...



Gli acquazzoni di marzo si abbattevano sugli alberi centenari del Chemin de l'Ermitage a Ginevra. Un sottile manto di neve bagnata ricopriva i rosseggianti cespugli di magnolia, il rosa dei ciliegi del Giappone e i rami dorati delle forsizie.

Era quasi mezzanotte e faceva un freddo polare.

Camminavo a fianco di una donna elegante che indossava un sari bianco e ocra sotto un cappotto di lana. Era Sarala Fernando, l'ambasciatrice dello Sri Lanka presso le Nazioni unite a Ginevra.

Avevamo appena partecipato a una cena di diplomatici europei, asiatici e africani organizzata nella residenza dell'ambasciatore d'Irlanda, Paul Kavanagh. Per tutta la serata avevamo discusso sulle possibili misure da prendere per fermare lo spaventoso genocidio messo in atto, fin dal gennaio del 2003, dal dittatore del Sudan, il generale Ornar al-Bashir, fra le montagne e le savane del Darfur.

Uomini, donne e bambini massalit, fur e zaghawa muoiono a migliaia sotto i bombardamenti degli Antonov o trafitti dalle lance delle milizie a cavallo arabe, i janjawid. Simili a cavalieri dell'Apocalisse questi assassini piombano sui villaggi africani stuprando, mutilando, sgozzando donne e ragazze, gettando bambini ancora vivi nelle capanne in fiamme, trucidando uomini, adolescenti e vecchi.

I janjawid uccidono per ordine dei generali al potere a Khartum, a loro volta pilotati a distanza dai «pensatori» del Fronte islamico di salvezza.

Era martedì 20 marzo 2007.

Quattro giorni prima, nella sala XIV del Palazzo delle nazioni a Ginevra, la presidente della commissione d'inchiesta sul Darfur, il premio Nobel per la pace Jody Williams, aveva presentato il suo rapporto al Consiglio per i diritti umani dell'Onu.

Le sue erano constatazioni inconfutabili, fondate su prove precise. Nell'arco di quattro anni, il genocidio ha provocato più di duecentomila morti, centinaia di migliaia di mutilati e quasi due milioni di rifugiati e di persone costrette a lasciare la loro terra.


La cena, organizzata da Paul Kavanagh e dalla moglie, aveva lo scopo di preparare la redazione di una risoluzione di compromesso da sottoporre entro la settimana ai rappresentanti dei 47 Stati membri del Consiglio.

Dal 2007 il Consiglio per i diritti umani svolge, sul piano internazionale, un ruolo cruciale. Dopo l'Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza, è la terza istituzione dell'Onu per importanza. Contrariamente a ciò che succede nel Consiglio di sicurezza, nel Consiglio per i diritti umani non esiste diritto di veto e le grandi potenze sono costrette a piegarsi alla legge della maggioranza, a sua volta orientata da un'alleanza tra gli Stati che fanno parte dell'Oci (Organizzazione della conferenza islamica) e gli Stati membri del Non Aligned Movement (Nam, Movimento dei non-allineati). Sempre più spesso – e in particolare nel caso del Darfur – il Consiglio per i diritti umani acquisisce lo statuto di un anti-Consiglio di sicurezza.

Il progetto di risoluzione prevedeva l'apertura, a partire dal Ciad, di corridoi umanitari per l'invio di cibo, acqua e medicinali alle vittime e la chiusura dello spazio aereo del Darfur a qualsiasi apparechio non autorizzato dall'Onu.

Nel vento gelato Sarala Fernando avanzava con difficoltà. È una donna di età matura, dai begli occhi neri, di intelligenza acuta, che gode di notevole prestigio e influenza tra i diplomatici asiatici accreditati a Ginevra.

A un tratto si fermò.

«Perché ci attaccano di continuo?... Siamo persone civili... Ma a volte facciamo fatica a controllarci, a non dire chiaramente, apertamente la nostra opinione...»

Sarala Fernando teneva a stento a freno la collera. La proposta, avanzata dai rappresentanti dell'Unione europea, di condannare con una dura risoluzione il regime islamico del Sudan la mandava fuori di sé. A casa dell'ambasciatore dell'Irlanda aveva taciuto, ora esplodeva.

«E i tedeschi non hanno fatto la stessa cosa non molto tempo fa?», aggiunse. L'allusione al diplomatico tedesco Michael Steiner, che in quel mese di marzo 2007 presiedeva il gruppo di ambasciatori dell'Unione europea, era chiara.

E gli inglesi? Se lo ricorda cosa hanno fatto ai tessitori indiani? Per distruggere le industrie tessili indiane e imporre il loro monopolio hanno tagliato le dita dei tessitori, uomini, donne e bambini... E da noi, nello Sri Lanka, quando sono arrivati hanno dichiarato waste lands – terre senza padrone – centinaia di migliaia di ettari di terre coltivabili in cui lavoravano e vivevano i nostri contadini. I contadini sono stati scacciati e la fame ne ha sterminati centinaia di migliaia. La terra su cui sono cresciute le piantagioni di tè inglesi è piena dei loro cadaveri.


Nella notte gelida, restai paralizzato dalla sorpresa. Questa intellettuale di origini buddhiste, colta e perfettamente informata sugli orrori del Darfur, prendeva ogni condanna degli occidentali nei confronti della dittatura di Ornar al-Bashir come un insopportabile attacco contro i popoli dell'emisfero Sud.

Certamente, Sarala Fernando è ben consapevole delle sofferenze inflitte alle popolazioni delle tre province del Sudan occidentale e come ogni essere umano è sconvolta dagli stupri su larga scala delle donne africane, dalle mutilazioni dei bambini, dall'uccisione dei padri sotto gli occhi dei familiari, opera dei janjawid.

Rifiuta tuttavia ogni forma di collaborazione con gli Stati europei membri del Consiglio per i diritti umani.

Questo rifiuto ha delle conseguenze. Per evacuare i feriti, seppellire degnamente i morti e proteggere la popolazione ancora in vita, bisogna mettere in atto il meccanismo, proprio dell'Onu, noto come Responsibility to protect («responsabilità di proteggere»), che non può funzionare senza l'appoggio dei principali Stati membri delle Nazioni unite — e dunque anche dei paesi del Sud.

A New York, il 6 ottobre 2006, il Consiglio di sicurezza aveva votato una risoluzione che prevedeva l'invio di ventimila Caschi blu incaricati di mettere fine all'annientamento delle popolazioni africane del Darfur. Ma l'attuazione di questa risoluzione era possibile, in virtù della Responsibility to protect, solo con il sostegno dei principali Stati. Rifiutare di collaborare con gli occidentali, in questo caso, significava lasciare libertà d'azione ai responsabili del genocidio.

Sarala Fernando è l'archetipo del diplomatico che si è formato nell'emisfero Sud. Considerati i crimini presenti e passati commessi dall'Occidente, ritiene assolutamente indecente che un ambasciatore occidentale invochi il rispetto dei diritti umani — e questo in qualsiasi circostanza.

A New York, a Ginevra, la grande maggioranza dei suoi colleghi algerini, filippini, senegalesi, egiziani, pachistani, bengalesi, congolesi, eccetera, la pensa esattamente come lei.

Nella loro memoria sono impresse le stesse ferite. Anche loro abitano «la ferita sacra» di cui parla Aimé Césaire.

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L'odio per l'Occidente, questa passione irriducibile, è un sentimento provato oggi dalla grande maggioranza dei popoli del Sud e che agisce come una potente forza di mobilitazione. Questo odio non è assolutamente patologico; ispira, al contrario, un discorso strutturato e razionale. E paralizza le Nazioni unite. Bloccando la negoziazione internazionale, lascia privi di soluzione conflitti e gravi problemi che possono a volte riguardare la stessa sopravvivenza della specie.

L'Occidente, da parte sua, resta sordo, cieco e muto di fronte a queste manifestazioni identitarie, fondate su un profondo desiderio di emancipazione e di giustizia, che provengono dai popoli del Sud, e non capisce nulla di questo odio.

La memoria dell'Occidente in effetti è una memoria dominatrice, impermeabile al dubbio, mentre quella dei popoli del Sud è una memoria ferita. L'Occidente ignora la profondità e la gravità di queste ferite.

Ecco le parole di Régis Debray:

Chi non riesce a capire che oggi all'interno del genere umano vivono, fianco a fianco, due specie diverse, coloro che umiliano e gli umiliati, e che l'una non riesce a vedere l'altra, non capirà mai nulla del Ventunesimo secolo. [...] La difficoltà è legata al fatto che gli umilianti non vedono se stessi nell'atto di umiliare gli altri. Amano imbracciare le armi, non incrociare lo sguardo degli umiliati. Hanno tolto il casco – continua Debray – ma, sotto, la testa rimane coloniale?

Nell'articolo, «Histoire, mémoire et mondialisation», Bertrand Legendre e Gaídz Minassian constatano da parte loro:

Il Sud non elemosina più l'aiuto del Nord. Esige delle riparazioni, se non addirittura un atto di contrizione [...] L'intero continente [africano] chiede giustizia [...] Gli europei minimizzano le devastazioni della schiavitù, preferiscono esaltare la sua abolizione [...] come François Mitterrand che nel 1981, il giorno della sua investitura, ha portato dei fiori alla tomba di Victor Schoelcher al Panthéon [...] I discendenti degli schiavi reclamano una riparazione e affermano di subire ancora oggi le conseguenze di queste deportazioni.

Sui tre continenti, ormai, queste richieste di giustizia e di pentimento si moltiplicano.

Legendre e Minassian continuano: «Per la loro molteplicità e la loro ampiezza, le contestazioni memoriali coincidono troppo nel tempo per essere il frutto del caso».

Obiettivo del mio libro è riportare alla luce le radici di questo odio ed esplorare le possibili vie di un suo superamento.

In che modo deve essere interpretata l'improvvisa irruzione, nella contemporanea società planetaria, dell'odio nei confronti dell'Occidente? Vedo due spiegazioni.

La prima risiede nella brusca riapparizione della memoria ferita del Sud. I ricordi, a lungo sepolti, le umiliazioni subite durante i tre secoli della tratta e dell'occupazione coloniale, riaffiorano alla coscienza, e la memoria ferita è una potente forza storica.

Dedicherò la prima parte del mio libro all'analisi delle sue caratteristiche.

La seconda spiegazione è legata a una contraddizione intollerabile tra demografia e potere: da più di cinquecento anni gli occidentali dominano il pianeta, ma i bianchi non hanno mai rappresentato più del 23,8 per cento della popolazione mondiale e oggi sono appena il 13 per cento.

Ecco perché, agli occhi della maggior parte delle donne e degli uomini che vivono nell'emisfero Sud, l'attuale ordine economico del mondo imposto dalle oligarchie del capitale finanziario occidentale ha cominciato ad apparire come il prodotto dei sistemi di oppressione anteriori e in particolare della tratta e dello sfruttamento coloniale. Questo ordine del mondo genera indicibili sofferenze e nuove umiliazioni per un gran numero di uomini, donne e bambini del Sud nutrendo, a sua volta, l'odio per l'Occidente.

La seconda parte del libro esamina gli aspetti fondamentali di questo ordine cannibale e i suoi effetti sulla coscienza.

Da secoli l'Occidente tenta di requisire la parola «umanità» per utilizzarla a proprio esclusivo profitto. Nella sua opera fondamentale, La retorica del potere. Critica dell'universalismo europeo, Immanuel Wallerstein ripercorre le tappe storiche della costituzione di questa «umanità etnocentrica».

L'Occidente, afferma Wallerstein, è un potentato che si ignora e il cui passatempo preferito consiste nel dare lezioni di morale al mondo intero. La sua è una memoria pietrificata, che si confonde con i suoi interessi economici.

Da tempo l'Occidente non si rende più conto del rifiuto che suscita; l'arroganza lo acceca.

Il fatto è che quando si tratta di disarmo, di diritti umani, di non proliferazione nucleare, di giustizia sociale planetaria, il linguaggio occidentale è sempre ambivalente.

E il Sud risponde con una viscerale diffidenza perché vede nell'Occidente uno schizofrenico che proclama valori costantemente smentiti dal suo stesso modo di procedere.

La strategia del doppio linguaggio paralizza la negoziazione internazionale rendendo tra l'altro impossibile la difesa collettiva contro i pericoli mortali che minacciano sia i paesi del Sud che l'Occidente.

Basata su molti esempi, la terza parte di questo libro affronterà l'analisi di questi pericoli e le motivazioni del comportamento schizofrenico dell'Occidente.

Nella quarta parte verrà esplorato il destino sintomatico della Nigeria. Nel paese più popoloso del continente africano, e uno dei più ricchi del mondo, la popolazione è costretta a subire privazioni estreme a causa del predominio dei signori occidentali della guerra economica mondiale.

Primo produttore di petrolio in Africa e ottavo più importante del mondo, dal 1965 la Nigeria è stata sempre governata da giunte militari. Il paese di fatto non ha mai goduto di una reale sovranità. Oggi è preda impotente di Shell, Bp, Total, Exxon, Texaco e di altri predatori, mentre il settanta per cento dei suoi abitanti sopravvive in una miseria abissale. E su questa realtà, naturalmente, che prospera l'odio per l'Occidente.

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Dal gennaio del 2006, in Bolivia, Evo Morales Ayma, un contadino aymara, occupa il palazzo Quemado. È il primo presidente indio di un paese del Sudamerica dopo la devastazione spagnola del Quindicesimo secolo.

Morales ha provocato un terremoto nell'ordine del mondo e ha inflitto all'Occidente una grave sconfitta. La resurrezione identitaria delle popolazioni aymara, quechua, moxo, guaraní mette in circolazione inaudite energie di lotta, di resistenza e di creazione. Nella quinta parte verranno analizzati gli effetti della rinascita boliviana a livello continentale. Si tratterà di prenderne l'esatta misura: la valorizzazione permanente della politica e della cultura indigene, effetto dell'odio per l'Occidente, è compatibile con i principi universali del diritto?

Stretta in una morsa tra la doppiezza del linguaggio dell'Occidente e l'odio dei popoli del Sud, la comunità internazionale non riesce a imporsi, le Nazioni unite sono allo sfascio e l'assenza di dialogo getta il pianeta in un pericolo mortale.

Da 42 anni, dunque, la Conferenza sul disarmo risulta paralizzata, la proliferazione di armi nucleari sempre più micidiali continua.

Nel settembre del 2000, 192 capi di Stato e di governo si sono riuniti a New York e hanno fissato gli «obiettivi del Millennio» (Millenium goals), volti a eliminare gradualmente la sottoalimentazione e la fame, le epidemie e la miseria estrema in cui vivono due miliardi di esseri umani. Ma a tutt'oggi non è stato fatto alcun progresso in questa direzione.

All'inizio del nuovo millennio, su un pianeta che trabocca di ricchezze, ogni cinque secondi un bambino di meno di dieci anni muore di malattia o di fame.

Ovunque infuria la guerra economica.

L'umiliazione, l'esclusione, l'angoscia per il futuro sono il destino di centinaia di milioni di esseri umani, soprattutto nell'emisfero Sud. Per loro la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Carta delle Nazioni unite sono solo parole vuote.

In che modo si può responsabilizzare l'Occidente e obbligarlo a rispettare i propri stessi valori? Come si può disinnescare l'odio del Sud? In quali condizioni concrete si può avviare un dialogo?

Che cosa si può fare per costruire una società planetaria riconciliata, giusta, rispettosa delle identità, delle memorie e del diritto di ognuno alla vita?

Il mio libro vorrebbe mettere in moto forze in grado di dare un contributo alla soluzione di questi problemi per tentare di porre fine alla tragedia.

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In India, in Cina



A questo punto sorge un'obiezione.

Potenti oligarchie finanziarie si sono imposte nel Sud del mondo. Oligarchie che praticano un capitalismo imitativo spietato accumulando ricchezze astronomiche. I loro fondi di investimento controllano quote importanti della Société générale in Francia, dell'Ubs in Svizzera e di molte altre grandi banche d'affari occidentali.

La nascita di queste oligarchie del Sud non contraddice allora la tesi del sistema di sfruttamento globalizzato dominato dall'Occidente? Come si fa a parlare di onnipotenza dell'Occidente quando India e Cina, per esempio, registrano una crescita annuale del loro prodotto interno lordo pari, per la prima, al 9,8 per cento, e per la seconda al dodici per cento?'

L'obiezione non regge.

La multipolarità del capitalismo finanziario globalizzato è un inganno. Ovunque siano all'opera oligarchie capitalistiche si ritrovano gli stessi metodi: massimizzazione e monopolizzazione del profitto, distruzione delle leggi statali, iper-sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro umano, e questo anche quando le oligarchie sono attraversate da conflitti e tra esse domina una concorrenza estrema.

Ecco perché, del resto, i popoli del Sud odiano le oligarchie locali allo stesso titolo e per le stesse ragioni per le quali odiano l'Occidente. Per quanto potenti siano, le oligarchie del Sud riproducono, in effetti, il sistema mondiale di dominio e di sfruttamento introdotto dagli occidentali.

I più potenti oligarchi del Sud abitano a Londra, Parigi, New York o Ginevra. Nell'aprile del 2008, la stampa finanziaria britannica ha pubblicato la lista dei cento residenti più ricchi del Regno Unito. Il primo inglese compare solo al ventunesimo posto. Un magnate indiano dell'acciaio occupa il primo.

L'influenza delle oligarchie del Sud nel sistema capitalista mondiale cresce costantemente. Nello spazio di sette anni (2001-2008), a livello mondiale, la percentuale delle imprese multinazionali originarie del Sud tra le prime mille società quotate in borsa è passata dal cinque al 19 per cento.


Esaminiamo il caso dell'India, e in particolare quello di Hyderabad, nel Sud del paese. Nelle immediate vicinanze di questa stupenda città, rumorosa, sudicia e millenaria, il governo dell'Andhra Pradesh ha fatto costruire cinque «zone di espansione economica». Viali interminabili a sei corsie, palazzi di vetro e di cemento, parchi sontuosi, hotel di lusso mai visti prima. Il primo edificio di «Cyberabad» è stato costruito nel 2000.

Microsoft ha fatto di «Cyberabad» il suo secondo centro mondiale di sviluppo. A fianco del suo palazzo sorgono le sedi di Dell, Ibm, Google, Oracle, Capgemini, ma anche potenti società indiane come Satyam, Infoys, Wipro e Tata si sono istallate nell'una o nell'altra delle cinque zone.

Le grandi banche internazionali hanno seguito i giganti delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Tic). L'Ubs impiega qui duemilaquattrocento persone, l'Hsbc ancora di più. All'inizio del 2008, più di 1.500 società di proporzioni mondiali hanno aperto una sede a Hyderabad e il loro numero è in continua crescita.

I privilegi concessi dal governo dell'Andhra Pradesh ai signori mondiali dell'elettronica e delle banche non sono disprezzabili: terreni gratuiti, franchigia fiscale per dieci anni, soppressione delle imposte doganali sul materiale d'importazione, esenzione dalle imposte o dalle tasse sui salari dei dipendenti stranieri, fornitura di energia elettrica a una tariffa prossima allo zero, ispezione del lavoro ridotta al minimo.

Nell'aeroporto intercontinentale della città atterrano voli diretti provenienti da Londra.

In base ai dati del 2008, più di centomila persone lavorano a Hyderabad, la maggior parte delle quali per un salario incredibilmente basso. Mentre l'Indian School of Business, fondata nel 2002, si classifica già al ventesimo posto nella lista delle migliori scuole di economia del mondo.

Nelle corti scalcinate della città vecchia o nei terreni incolti che circondano le «zone di espansione economica» spuntano fragili tende, i ripari di plastica dei poveri dove decine di migliaia di famiglie vegetano nella più totale povertà. L'aria è satura del fumo acre dei fuochi su cui bolle una magra zuppa, arricchita con i resti di cibo raggranellati nei bidoni delle immondizie delle «zone».

Quasi la metà delle persone più gravemente (e permanentemente) sottoalimentate del pianeta vive nelle bidonville di Mumbay, Calcutta, Nuova Delhi, nelle tribal areas o nelle campagne dell'Orissa, dell'Uttar Pradesh o del Bengala. In tutto 382 milioni di persone, su un totale mondiale di 854 milioni, soffrono in queste regioni per la mancanza di cibo regolare e sufficiente.

I terreni impoveriti esigono sempre più concimi, il clima è duro, gli insetti minacciano continuamente di distruggere gli scarsi raccolti. È necessario il ricorso ai pesticidi.

L'Unione indiana non si occupa in nessun modo di questa agricoltura di sussistenza. Di fatto non esiste alcun sistema di sovvenzioni per facilitare l'acquisto di concimi e pesticidi. I contadini dunque devono pagare il prezzo (esorbitante per la maggior parte di loro) imposto dalle società transcontinentali dell'agrochimica.

Per ottenere i prestiti non possono che rivolgersi all'usuraio del villaggio.

Danilo Ramos, Segretario generale filippino dell'Asian Peasant Coalition (Apc, la Coalizione asiatica dei contadini), scrive, in una comunicazione ufficiale all'Omc, Organizzazione mondiale del commercio: «Tra il 2001 e il 2007, 125mila contadini indiani impoveriti dalla liberalizzazione dell'agricoltura si sono suicidati».

Il suicidio è preceduto da uno strano rituale.

Per diversi giorni il contadino si isola dalla famiglia e non lascia più la sua capanna. Non parla più, non mangia più.

La moglie e i figli non possono fare altro che assistere al crollo, angosciati e impotenti.

Poi, un mattino, al levar del sole, si alza, esce e inghiotte del pesticida. Come se volesse perire per effetto della sostanza che lo ha rovinato. Muore lentamente e tra grandi sofferenze.

I contadini sopportano queste sofferenze come per punirsi per non essere stati capaci di nutrire i figli, la moglie, i genitori. È la vergogna a ucciderli.

Molti contadini si suicidano anche nella speranza di liberare la propria famiglia dalla schiavitù del debito, ma nella maggior parte dei casi questa speranza è vana: l'usuraio fa ben presto requisire il piccolo appezzamento di terra, i pozzi e la capanna. La vedova e i figli ne verranno espulsi e andranno a raggiungere l'esercito dei morti di fame degli slum di Calcutta, Mumbay o Delhi.

Nel 2007 l'India figurava al 128esimo posto nella lista stilata dal Pnus in base all'indice di sviluppo umano.

Spostiamoci ora in Cina.

Nel 1983, il primo ministro Deng Xiaoping decretò l'integrazione della Cina nel sistema capitalista occidentale, aprì il paese agli investimenti stranieri, liberalizzò i prezzi, privatizzò decine di migliaia di fabbriche e imprese di servizi, abolì gradualmente la protezione sociale dei lavoratori.

La popolazione resistette. Nel maggio del 1989, migliaia di operai e studenti eressero delle barricate su piazza Tienanmen, nel cuore di Pechino, reclamando il rispetto dei diritti democratici. All'alba del 4 giugno i blindati distrussero le barricate e aprirono il fuoco sulla folla. Si contarono quasi settemila morti e migliaia di feriti; Deng Xiaoping proclamò la legge marziale. In tutto il paese venne in seguito organizzata una vera e propria caccia all'uomo, seguita da decine di migliaia di esecuzioni.

Oggi, l'oligarchia finanziaria cinese è reclutata quasi esclusivamente tra le famiglie regnanti del Partito comunista, non esistono sindacati indipendenti e lo sciopero è considerato un «crimine economico».

Come ci si può dunque stupire che da allora più di cento milioni di cinesi non abbiano un lavoro fisso né un salario decente? Sono per la maggior parte migranti originati delle regioni interne, senza alcuna possibilità di accedere ai servizi sanitari e alla scolarizzazione. Fanno parte di quella che il governo definisce «popolazione fluttuante».

In Cina le rivolte sociali vengono duramente represse. I poliziotti appartenenti a un corpo di polizia speciale, noti come Chengguan, imperversano nelle campagne e sono famosi per la loro brutalità.

A seguito di una protesta di contadini della provincia di Hubei contro i danni provocati da una discarica a cielo aperto, i Chengguan hanno massacrato uomini, donne e bambini.

Un coraggioso cittadino di nome Wei Wenhua ha filmato la scena e diffuso clandestinamente le immagini: il 7 gennaio 2008 è morto a seguito delle percosse subite da parte dei Chengguan.

Nelle fabbriche cinesi e in particolare in quelle situate nelle «zone industriali di esportazione», le condizioni di lavoro sono spesso inumane e la protezione delle lavoratrici e dei lavoratori praticamente inesistente. Per sostenere la competizione con altre «zone industriali di esportazione» (in Corea del Sud, a Taiwan, in Thailandia, nel Bangladesh, eccetera), il governo cinese mantiene i salari vicino al minimo vitale (subsistence level secondo il New York Times).

L'età minima per lavorare in fabbrica è sedici anni e una giornata di lavoro dura 14-16 ore.

Molte fabbriche che lavorano per società multinazionali straniere si sono concentrate nel delta del fiume delle Perle, nella provincia del Guangdong, non lontano da Hong Kong. David Barboza, del New York Times, che ha condotto un'inchiesta nella regione, scrive: «Sono quarantamila le dita dei lavoratori schiacciate o recise ogni anno in queste fabbriche!».

La Cina detiene anche il record mondiale delle esecuzioni capitali.

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Prendiamo il caso di Karima Abu Dalal, trentaquattro anni, madre di cinque figli, malata di un cancro (linfoma di Hodgkin) diagnosticato nel 2006. Prima della chiusura del confine, nel giugno del 2007, aveva potuto beneficiare di un trapianto di midollo osseo e di un trattamento di chemio e di radioterapia in Egitto. In agosto la sua salute era migliorata a seguito di due cicli intensivi di chemioterapia a Nablus, in Cisgiordania. Il pesante trattamento avrebbe dovuto proseguire in novembre, ma le sue domande di autorizzazione a lasciare Gaza sono state respinte dalle autorità militari israeliane. Nel suo caso, l'Alta corte di giustizia israeliana ha rifiutato anche una richiesta avanzata dalla sezione israeliana dell'Ong Physicians for Human Rights (Medici per i diritti umani). I giudici dell'Alta corte hanno ritenuto che non vi fosse «alcuna ragione di intervenire».

Questo tipo di giudizio può costare la vita, oltre a Karima Abu Dalal, a un gran numero di altri malati che non possono essere curati a Gaza in stato d'assedio.

Il governo di Tel Aviv sostiene che il blocco è giustificato dai tiri di razzi Qassam nel sud di Israele da parte della resistenza palestinese. Ma chi può ignorare che la punizione collettiva di una popolazione civile è vietata dal diritto internazionale? E chi può ignorare che l'odio per l'Occidente trova sempre nuovo alimento in queste pratiche?

Il Consiglio per i diritti umani convoca dunque una sessione straordinaria per il 23 e il 24 gennaio 2008. La sua presidenza prevede la turnazione, e tra il giugno 2007 e il giugno 2008 il presidente era l'ambasciatore rumeno Doni Romulus Costea.

Costea è stato l'interprete ufficiale di Nicolae Ceausescu. Alla caduta del dittatore si è miracolosamente convertito alla democrazia. Come molti suoi colleghi diplomatici venuti dall'Est, Costea è anche un fedele servitore del Dipartimento di Stato di Washington.

Dal 23 al 27 gennaio 2008, si riuniva a Davos il Forum economico mondiale. Il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, vi si sarebbe recato il 24. Ma il 23 era ancora a Ginevra.

Per dare maggiore visibilità e peso diplomatico alla sessione straordinaria del Consiglio per i diritti umani, i membri del Movimento dei non-allineati chiesero a Costea di invitare il Segretario generale.

Risposta di Costea è no. «Non è il caso che il Segretario generale conferisca [con la sua presenza] una qualche credibilità a questa riunione». Come dire che l'Occidente non sollevava alcuna obiezione contro la punizione collettiva inflitta ai palestinesi.

Gli ambasciatori dell'Unione europea si rifiutarono, in effetti, di condannare il blocco.

Per quanto riguarda poi Sua Eccellenza l'elegante Warren W. Tichenor, ambasciatore degli Stati Uniti e proprietario di un'emittente televisiva nel sud del Texas, boicottò semplicemente la sessione.


La mattina di lunedì 3 marzo 2008, il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha aperto la sua settima sessione ordinaria nella grande sala dell'Assemblea al Palazzo delle Nazioni di Ginevra.

Sugli schermi televisivi passavano immagini insopportabili provenienti da Gaza, bombardata dall'aviazione e dall'artiglieria israeliane. Bambini dilaniati, donne uccise, il numero di morti e feriti gravi non faceva che crescere di ora in ora. Il ministro israeliano della difesa aveva previsto, per i giorni successivi, un'importante operazione militare a Gaza annunciando la propria intenzione di dividere il territorio in tre parti.

Vista la densità della popolazione in quell'area, e date le condizioni dell'assedio, una simile operazione costituisce una pura e semplice violazione del diritto umanitario nei termini della IV Convenzione di Ginevra. Il pretesto per organizzare l'operazione era stato un tiro di razzi Qassam da parte dei resistenti palestinesi.

La Mezzaluna Rossa palestinese e l'Unwra (l'agenzia Onu per l'aiuto ai profughi palestinesi) contarono 162 palestinesi uccisi, tra cui 58 bambini di meno di dodici anni, molte donne e tre neonati. Più di quattrocento persone dovettero subire un'amputazione delle braccia o delle gambe a causa delle bombe e degli obici.

Elegante ed eloquente nel suo tailleur nero, la segretaria di Stato francese per i diritti umani, Rama Yade, prese la parola verso le 16 tenendo un lungo discorso sulla Dichiarazione universale dei diritti umani e la vocazione della Francia. Secondo Rama Yade, la Francia ha inventato i diritti umani, deve dunque farsene garante ovunque nel mondo, ma sui bombardamenti a Gaza, sui bambini morti bruciati, non dice una sola parola.

Bisogna qui rendere omaggio al ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, che gode a giusto titolo di un prestigio personale e di una credibilità internazionale notevoli. Nel governo di François Fillon, occupa, come si sa, una posizione a parte. Saggiamente, rifiutò di partecipare alla commedia occidentale del 3 marzo a Ginevra. Arrivato in mattinata, si accontentò di pranzare discretamente con Ban Ki-moon all'hotel Intercontinental prima di ripartire per Parigi.

Nel corso del suo intervento, Rama Yade affrontò inoltre la questione dei fatti accaduti durante la Conferenza internazionale contro il razzismo a Durban, nel 2001, denunciando «le derive e gli eccessi» che avevano segnato quel vertice.

Al discorso della segretaria di Stato seguì una conferenza stampa. Ai giornalisti che le chiedevano quali fossero le «derive» a cui si riferiva, disse, con un candore disarmante: «Non posso rispondervi, non ero a Durban».

Qualche minuto dopo, Jamil Jade, corrispondente dell' Estado de Scio Paulo, gli chiese se avrebbe incontrato Micheline Calmy-Rey. Risposta di Rama Yade: «Chi è?». Pazientemente un giornalista le spiegò: «Micheline Calmy-Rey è ministro degli Esteri della Svizzera, lo stato che ospita il Consiglio per i diritti umani».

Presso le Nazioni unite a Ginevra, la Francia ha una delegazione diplomatica folta e competente. Di fronte alle altre delegazioni e alla stampa, i suoi diplomatici tentarono di correggere la disastrosa impressione prodotta da Rama Yade sostenendo che se non aveva fatto cenno ai massacri israeliani era perché in ogni caso la Francia era impotente di fronte alle azioni del governo di Tel Aviv.

Falso! L'articolo 2 dell'accordo di libero scambio tra l'Unione europea e Israele, firmato nel giugno del 2000, prevede che il rispetto dei diritti umani sia la condizione preliminare alla sua entrata in vigore. Più del 65 per cento delle esportazioni israeliane sono dirette in uno dei 27 Stati dell'Unione europea. In altre parole, di fronte alla flagrante violazione dei diritti umani da parte di Tel Aviv, la Francia avrebbe potuto senza problemi chiedere la sospensione di queste importazioni.

Due settimane di sospensione... e i generali israeliani sarebbero senz'altro stati ricondotti alla ragione.


Dal 27 dicembre 2008 al 20 gennaio 2009, l'aviazione, la marina, i blindati e l'artiglieria israeliani hanno bombardato il ghetto sovrappopolato di Gaza. Risultato: più di 1.400 morti e oltre seimila mutilati, ustionati e amputati, in maggioranza donne, bambini e uomini anziani. Amnesty International, il Comitato internazionale della Croce rossa e le Nazioni unite hanno segnalato numerose esecuzioni di civili, tiri contro le ambulanze e altri crimini di guerra commessi dalle forze armate istraeliane.

Dall'interno di Israele anche alcuni coraggiosi intellettuali come Michel Warschawski, Ilan Pappe, Gideon Levy e Lea Tsemel hanno denunciato bombardamenti contro scuole e ospedali.

Israele è il quarto esportatore di armi da guerra al mondo. Come contro il Libano nell'estate del 2006, Israele ha testato le sue armi più recenti sui palestinesi di Gaza. Per molti osservatori la scelta di sperimentare le nuove armi sulle popolazioni civili è una delle cause principali anche dell'aggressione contro Gaza.

Un'arma in particolare, che porta il nome di Dime (Dense Insert Metal Explosive), è stata utilizzata contro i campi di rifugiati densamente popolati. Si tratta di un obice pieno di piccole palline metalliche contenenti cobalto, tungsteno, nichel e ferro. La forza esplosiva del Dime è dirompente. Lanciato dall'artiglieria o da un aereo l'obice si disintegra a circa dieci metri dal suolo.

Un medico norvegese dell'ospedale al-Shifa dichiarò al quotidiano Le Monde del 13 gennaio 2009:

Se l'esplosione avviene a due metri dal suolo le particelle liberate tagliano il corpo umano a metà; se invece fuoriescono a otto metri di altezza sono le gambe e le braccia ad essere colpite. La vittima ha l'impressione di essere investita da migliaia di aghi arroventati.

A Gaza, l'aviazione e l'artiglieria israeliane hanno sperimentato inoltre nuovi obici e bombe che liberano fosforo bianco provocando spaventose ustioni su donne, bambini e uomini palestinesi.

Ben presto, ne sono certo, tutte queste nuove armi «miracolose» verranno pubblicizzate dai prospetti di vendita di Tel Aviv.

Il 12 gennaio 2009 il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha convocato una sessione straordinaria.

Richard Falk, relatore speciale per i territori occupati e professore di diritto internazionale dell'Università di Princeton, noto e rispettato in tutto il mondo, ha presentato un rapporto dettagliato sui crimini di guerra e i crimini contro l'umanità commessi da Israele.

La risoluzione del Consiglio ha chiesto la fine immediata dei massacri e condannato allo stesso tempo il lancio di razzi su Israele da parte di Hamas.

Le ambasciatrici e gli ambasciatori occidentali — compresi quelli italiani — si sono rifiutati di votare la risoluzione.


Un pomeriggio di marzo, mi trovavo all'ottavo piano dell'edificio di vetro scuro e cemento che ospita, a Ginevra, l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e discutevo con l'alto commissario Antonio Gutierrez.

Fuori nevicava. Sull'avenue de France, il ghiaccio paralizzava il traffico.

Parlavamo dell'impasse in cui si trovava il Consiglio per i diritti umani che in quel momento teneva la sua terza sessione ordinaria al Palazzo delle nazioni, a pochi metri dall'Alto commissariato.

Chiesi a Gutierrez: «Perché tanti rappresentanti colti e intelligenti dei paesi del Sud rifiutano di collaborare con gli occidentali in materia di diritti umani?».

Ex primo ministro del Portogallo, ed ex presidente dell'Internazionale socialista, cattolico praticante, Antonio Gutierrez è un uomo di grande indipendenza di spirito, affabile e intelligente. Il suo sguardo indugiò sul Palazzo delle Nazioni poi mi disse: «È il conto che ci presentano per l'Iraq e la Palestina».

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Cinismo, arroganza e doppio linguaggio



Nel settembre del 2000, i capi di Stato e di governo dei 192 Stati membri delle Nazioni unite si sono ritrovati a New York per procedere all'inventario dei conflitti e dei problemi non risolti che affliggono il pianeta alle soglie del nuovo millennio. A partire da questo inventario hanno stilato la lista dei Millenium goals, «gli obiettivi del millennio», che si tratta di realizzare da qui al 2015. Ecco la lista:

a) Sradicare la povertà estrema e la fame.

b) Assicurare un'istruzione di base a tutti i bambini in età scolare.

c) Promuovere l'uguaglianza tra i sessi e l'autonomia delle donne.

d) Ridurre la mortalità infantile.

e) Migliorare la salute delle madri.

f) Combattere l'Aids, la malaria e altre epidemie.

g) Garantire la protezione dell'ambiente.

h) Stabilire un patto mondiale per lo sviluppo.


Nel 2008, a metà percorso, sembra che nessuno di questi problemi sia in via di soluzione. Al contrario, molti di essi — autonomia delle donne, epidemie, scolarizzazione, povertà estrema e sottoalimentazione – continuano a peggiorare.

Nel 2000, la Fao contava 785 milioni di persone gravemente e permanentemente sottoalimentate. Nel 2008 sono diventate 854. Dall'aprile del 2009, per la prima volta nella storia dell'umanità, più di un miliardo di persone versano in uno stato di grave e permanente denutrizione.

Ogni cinque secondi nel mondo un bambino di meno di dieci anni muore di fame.

È in Estremo Oriente e nell'Africa nera che la miseria aumenta più rapidamente. In Cambogia meno della metà della popolazione ha un regolare accesso all'acqua potabile. Su dieci cambogiani, due soltanto possono beneficiare di servizi sanitari adeguati.

Metà dei paesi dell'Africa sub-sahariana hanno un reddito procapite che dal 2000 ogni anno si riduce in media dello 0,5 per cento. Solo in 32 dei 147 paesi per i quali esistono statistiche affidabili sulla mortalità infantile questo flagello sembra ridursi.

Riguardo poi il quinto obiettivo (migliorare la salute delle madri), l'Unicef scrive semplicemente: «In Asia, 28 paesi non ci riusciranno» (countries off track). Nell'Africa sub-sahariana, circa cinquecentomila donne sono morte di parto nel 2007.

Le prospettive non sono più rosee nel caso del sesto obiettivo (accesso alle cure mediche e lotta contro le epidemie). Nel 2008, un miliardo e settecento milioni di esseri umani non avevano accesso alle cure sanitarie di base (farmaci generici, vaccinazione dei bambini, cure ospedaliere, eccetera).

L'Oms stima inoltre che il settanta per cento circa dei farmaci venduti nell'Africa occidentale siano contraffazioni che non danno alcuna garanzia di sicurezza o qualità.

Sempre nel 2008, più di 39 milioni di persone risultavano contagiate dal virus dell'Aids. Erano 36,9 milioni nel 2004. Nel solo 2006, sono stati registrati quattro milioni e trecentomila nuovi casi. Per via dei prezzi di vendita troppo elevati, imposti dai giganti occidentali del settore farmaceutico, la maggior parte dei malati dell'emisfero Sud non ha accesso alle triterapie.

Sono soprattutto i giovani adulti ad ammalarsi di Aids, ed è quindi la forza lavoro dei paesi del Sud a risultare gravemente colpita. In Botswana, la metà dei contadini sono stati uccisi dal virus.

Gli adulti infettati lasciano spesso dietro di sé genitori anziani e bambini piccoli privi ormai di qualsiasi mezzo di sussistenza. L'Oms constata: «Nel 2003, [a causa dell'Aids] dodici milioni di bambini sono diventati orfani nell'Africa meridionale [...] Questa cifra salirà a 18 milioni nel 2010».

Poiché la maggior parte delle persone colpite sono giovani adulti che normalmente avrebbero dovuto lavorare, la produzione agricola cala drammaticamente nei paesi in cui la percentuale di malati è alta.

La Fao scrive: «La diffusione dell'epidemia Hiv-Aids è diventata rapidamente un grosso ostacolo nella lotta contro la fame e la miseria».

Riassumendo, dal punto di vista della pretesa lotta contro le epidemie, la fame, la povertà estrema, la discriminazione delle donne o l'assenza di scolarizzazione, non è stato fatto, dal 2000 a oggi, alcun progresso sostanziale.

Il fatto è che le disastrose politiche praticate dalle potenze occidentali, sostenute dai loro mercenari dell'Omc e dell'Fmi, che hanno condotto al crescente sottosviluppo dei paesi più poveri, continuano a imperversare.

Bisogna infatti essere ben consci del fatto che nessuno degli «obiettivi del millennio» potrà mai essere raggiunto senza che ci si impegni in una negoziazione multilaterale sui prezzi internazionali dei farmaci, sui termini degli scambi commerciali e dei trasferimenti di tecnologie, sui brevetti, eccetera.

Ma in otto anni, nessuna negoziazione è stata neanche minimamente abbozzata tra l'Occidente e il Sud del mondo.

E quindi agli occhi dei popoli del Sud il vertice del millennio appare come un puro esercizio retorico, l'ennesima manifestazione del doppio linguaggio, del cinismo e della malafede dell'Occidente.

Perché questa cecità? Perché questa tranquilla arroganza quando centinaia di milioni di esseri umani si rivoltano contro questa ambiguità e contestano all'Occidente la sua egemonia morale?

Vorrei provare a formulare un'ipotesi: la caduta dell'Unione Sovietica, il discredito gettato sull'idea comunista hanno aperto un buco nero.

Il crollo (evidentemente necessario) del muro di Berlino, ha sepolto tutte le prospettive di emancipazione, ha avuto ragione dell'idea stessa di contestazione.

Aimé Césaire scrive: «abito un volere oscuro, abito una sete irrimediabile». L'Occidente non capisce questa aspirazione dei popoli del Sud a un ordine equo e giusto del mondo, né la loro determinazione. Mentre l'idea stessa che un altro ordine del mondo, un'altra memoria, un'altra volontà siano possibili risulta profondamente screditata. Mai lo scarto tra le dichiarazioni e le pratiche reali ha nutrito l'odio in modo altrettanto potente.

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Quando i porci erano affamati



Nell'immensa basilica di Aparecida, a metà strada tra Rio de Janeiro e San Paolo, i raggi del sole al tramonto fanno scintillare le vetrate dai colori vivaci. L'edificio è stato costruito in occasione della visita del papa. Costo dell'operazione: 37 milioni di dollari. In questo pomeriggio autunnale, il calore satura l'atmosfera.

Figura fragile interamente vestita di bianco, voce tremula, eloquio lento, domenica 13 maggio 2007 Benedetto XVI si rivolge a migliaia di credenti e a duecento cardinali, arcivescovi e vescovi.

Nel suo discorso Joseph Ratzinger dice:

La fede cristiana ha animato la vita e la cultura di questi paesi durante più di cinque secoli. [...] In effetti, l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, l'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera.

[...] Che cosa ha significato l'accettazione della fede cristiana per i paesi dell'America Latina e dei Caraibi? Conoscere e accogliere Cristo, il Dio sconosciuto che i loro antenati, senza saperlo, cercavano nelle loro ricche tradizioni religiose. Cristo era il Salvatore a cui anelavano silenziosamente.

Di rado una menzogna storica è stata proferita con altrettanta disinvoltura.

*



Nel 1550 erano passati sessant'anni dalla «scoperta» spagnola delle Americhe. Il massacro degli aztechi e degli aymara e le spaventose carneficine commesse dalla soldatesca iberica nelle isole inquietarono quell'anno persino il palazzo reale di Madrid e la corte papale di Roma.

D'accordo con papa Giulio III, l'imperatore Carlo V decise allora di organizzare un grande dibattito a Valladolid.

Ecco le domande che furono discusse in quell'occasione: le popolazioni recentemente scoperte appartengono o no alla specie umana? Sono o non sono previste nel piano di redenzione del Salvatore? Sono creature del Dio vivente o una sorta di sottospecie all'interno del genere umano? Gli indios hanno un'anima? Cristo è morto anche per loro?

Di comune accordo, papa e imperatore avevano designato due contraddittori principali, il domenicano Bartolomé de Las Casas, difensore degli indios, e Juan Ginés de Sepúlveda, partigiano della tesi della «sub-umanità» degli esseri umani appena scoperti.

Nd 1550 Bartolomé de Las Casas aveva settantasei anni. Discendente di una famiglia di conversos, ovvero di ebrei convertiti al cattolicesimo, era stato vescovo del Chiapas, in Messico.

Juan Ginés de Sepúlveda aveva quasi vent'anni di meno di Las Casas e, se quest'ultimo era un focoso andaluso, un predicatore nato, Sepúlveda era un freddo giurista formatosi a Bologna. Inoltre — posto di estrema responsabilità — era il precettore del principe ereditario, il futuro Filippo II.

Secondo Las Casas gli indios erano esseri umani, dotati di un'anima, capaci di accedere alla salvezza. Sepúlveda si ostinava invece a rifiutare loro questa qualità.

In gioco c'erano immensi interessi economici. Se gli indios fossero stati riconosciuti come pienamente umani, figli di Dio e parte integrante del piano di redenzione di Cristo, nessuno avrebbe avuto il diritto di ridurli in schiavitù, né di rubare le loro terre, le loro foreste, i loro minerali. Sarebbe stato necessario remunerare il loro lavoro, comprare i loro beni... Era la sicura rovina dell'impero.

Non potevano esserci dubbi sull'esito della controversia di Valladolid. I conquistadores avevano dalla loro parte il tesoro reale.

Disperato e solo, Las Casas morì a Madrid il 18 luglio 1566.

Non c'è nulla di semplice nella Spagna del Sedicesimo secolo.

Nel 1542, l'imperatore Carlo V aveva promulgato Las Leyes de las Indias (le leggi delle Indie), che vietavano la riduzione in schiavitù degli indigeni e stabilivano la graduale riduzione dell' encomienda.

Rivolta immediata dei coloni! A Lima, alcuni insorti armati scacciarono il viceré.

L'imperatore tornò sui propri passi e rinunciò all'applicazione delle leggi.

Queste leggi, naturalmente, hanno una storia.

In gioventù Carlo V aveva seguito i corsi del domenicano Francisco de Vitoria all'università di Salamanca. E Vitoria, che viene considerato il fondatore del diritto internazionale, era un contemporaneo e un compagno di lotta di Las Casas.

Ricordo ancora con emozione un particolare giorno d'estate a Salamanca. L'università ha conservato la piccola sala in cui Frey Francisco de Vitoria teneva i suoi corsi, con il pulpito e i banchi grossolanamente squadrati.

Carlo V non parlava lo spagnolo, ma comprendeva perfettamente il latino. La sua assiduità è attestata e in particolare è stato stabilito che nel 1528 frequentò con regolarità il corso intitolato De potestate civili.

Immaginai l'imperatore seduto tra gli studenti sui banchi di legno, mentre ascoltava in silenzio la teoria del diritto naturale: lui, il futuro padrone del mondo, che avrebbe regnato dalle Ande alle Fiandre!

Dopo la controversia di Valladolid, l'imperatore tentò di resuscitare Las nuevas leyes... senza tuttavia occuparsi della loro applicazione nelle Americhe. In altre parole: gli schiavi indios presenti sul suolo iberico furono liberati, milioni di indios prigionieri che lavoravano nelle miniere americane o nelle encomiendas, invece, restarono in schiavitù...

Ammirevole il doppio linguaggio praticato da così tanto tempo dagli occidentali! Las Casas ricorda lo strano costume spagnolo praticato dai conquistatori:

Oh, per noi va bene tutto. Ma soprattutto il ferro, perché la polvere è cara. A volte li si trafigge in gruppi di 13 li si circonda di paglia secca e si dà fuoco. Altre volte vengono loro tagliate le mani e poi vengono abbandonati nella foresta.

Perché in gruppi di 13? Las Casas spiega:

Per onorare il Cristo e i dodici apostoli! Sì, è la verità. Il Signore è stato «onorato» attraverso tutti gli orrori umani [...] A volte i bambini vengono afferrati per i piedi e viene loro fracassato il cranio contro le rocce! Oppure vengono messi su una graticola, vengono annegati o li si getta ai cani affamati che li divorano come porci! Vengono fatte scommesse su chi riuscirà ad aprire il ventre di una donna con un solo colpo di lama! [...] Ho visto crudeltà così grandi che non si osa neppure immaginarle, nessuna lingua, nessun racconto può dire ciò che ho visto.

Il Messico precolombiano aveva tra i trenta e i 37 milioni e mezzo di abitanti e si stima in una cifra identica il numero di indios che vivevano nella regione andina. L'America Centrale contava tra i dieci e i 13 milioni di anime. Si stima che aztechi, incas e maya fossero tra i settanta e i novanta milioni all'arrivo dei conquistadores, un secolo e mezzo più tardi erano rimasti in tre milioni e mezzo.

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Un'umiliazione troppo lunga, una sofferenza troppo crudele, possono gettare queste popolazioni tra le braccia dei peggiori demagoghi. Evo Morales è perfettamente conscio del pericolo ed è proprio per tenerlo lontano che aveva annunciato, fin dal momento della sua investitura a Tiahuanaco, la convocazione di un'Assemblea costituente. Perché è convinto che l'istituzione dello stato nazionale, di uno stato di diritto, sia la sola arma efficace se si vuole combattere la febbre identitaria e il fanatismo comunitario.

A partire dall'agosto del 2006, per 15 mesi di fila, la Costituente si è dunque riunita nell'antica capitale della Bolivia, Sucre. Il suo compito: mettere fine allo stato coloniale, fondare lo stato nazionale, rendere permanenti le rotture e le riforme radicali operate dai decreti presidenziali, garantire, tramite nuove istituzioni, la rinascita indigena.

La presidente dell'assemblea, una sindacalista contadina di Tarija dal volto grave, gli zigomi alti, chiamata Silvia Lazarte, non ha voluto ricevermi, ma ho potuto parlare con la sua vicepresidente, anche lei originaria di Tarija, una giovane donna di ventotto anni, allegra e loquace. Come la sua presidente, porta un piccolo cappello rotondo e grigio sulle lunghe trecce nere e le ampie gonne bianche della sua regione d'origine. E, come tutte le donne di Tarija, esibisce dietro l'orecchio sinistro un garofano rosso.

La Costituente, mi disse, era un campo di battaglia decisivo. Al suo interno l'oligarchia di Santa Cruz era ampiamente rappresentata e i suoi deputati erano avvocati d'affari, generalmente abili e astuti, banchieri dalle estese relazioni internazionali, ingegneri che lavorano per società straniere. Di fronte ai deputati del Mas, che erano in maggioranza, si erano rivelati coriacei e avevano tentato continuamente di dividere i rappresentanti degli indios.

Sono stato a lungo deputato socialista per la città di Ginevra nel parlamento della Confederazione svizzera. Conosco per esperienza le trappole, le imboscate, i colpi bassi che una destra competente, determinata, preoccupata di perdere i propri privilegi, può mettere in atto al fine di sabotare qualsiasi azione innovatrice. Ascoltando la giovane e simpatica vicepresidente della Costituente, sentivo un brivido corrermi lungo schiena: di lei e della sua taciturna presidente i deputati di Santa Cruz avrebbero fatto un solo boccone.

Ma mi sbagliavo.

Domenica 25 novembre 2007, la Costituzione è stata adottata da 136 deputati su 255. È una costituzione voluminosa, tra le più dettagliate al mondo: comprende 431 articoli!

L'elenco dei diritti umani — civili e politici, economici, sociali e culturali — occupa da solo 32 articoli.

Ma a tutt'oggi gli avversari di Evo Morales si rifiutano di riconoscere la legalità di questo voto democratico.

L'articolo 4 della Costituzione istituisce l'equivalenza tra la religione cattolica e le cosmogonie degli indios. L'alta gerarchia della chiesa e il nunzio apostolico gridano allo scandalo.

L'estrema destra secessionista rifiuta le nazionalizzazioni, il nuovo regime fiscale, la renta dignidad (che lo stato versa a ogni persona bisognosa di più di sessant'anni). Trova inaccettabile che la legge fondamentale abbia, nel suo articolo 8, delle parole in lingua aymara. L'articolo recita: «El Estado asume como principio ético-moral: ama qhilla, ama llulla, ama suwa» [non essere pigro, non mentire, non rubare].

L'esito del conflitto determinerà il futuro del regime. La sua portata storica è dunque notevole.

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La festa



Il Primo maggio 2007 a La Paz resta, per me, un ricordo indimenticabile. Una folla immensa e variopinta si accalca sotto il balcone del palazzo Quemado, sulla scalinata della cattedrale, nelle vie d'intorno. Il centro città è invaso dalla gente.

Fuochi d'artificio artigianali esplodono nel cielo limpido e il fumo forma piccole nuvole grigie che volteggiano al di sopra dei tetti.

Dall'immensa città satellite di El Alto, che dall'altopiano sovrasta i vecchi quartieri di La Paz, annidati sul fondo del canyon, affluiscono decine di migliaia di famiglie e di comunità, bandiere e orchestre in testa. I minatori di Oruro e di Potosí portano l'elmetto e la lampada di acetilene. L'orchestra della gendarmeria suona la Marcia del presidente, eredità di un lontano passato, ma la folla sembra indifferente.

Quando però una fanfara di minatori di Potosí, sprofondata in mezzo a una foresta di bandiere gialle, verdi, rosse – i colori della Bolivia – svolta nel viale Ingavi per prendere posto direttamente sotto il balcone del palazzo Quemado, gli applausi sembrano un rombo di tuono.

La cattedrale è contigua al palazzo e in questo giorno di festa è sprangata. Il cardinale è nemico del cambio. I suoi sacerdoti, deputati e giornalisti passano il tempo a screditare ogni iniziativa del governo.

Il sole è già alto. Tra gli alberi, i sindacalisti hanno teso degli striscioni: Bolivia cambia, Evo cumple («La Bolivia cambia, Evo mantiene le promesse»); Fuerza y gloria, pax, unión («Forza e gloria, pace e unità»); Nacionalización es vivir bien («Nazionalizzare significa vivere bene»); Bienvenidos, Señores extranjeros que visitan a nuestro país. Que sean nuestros hermanos («Benvenuti signori stranieri che visitate il nostro paese e che siete nostri fratelli»). Primer anniversario de la nacionalización de los hidrocarburos («Primo anniversario della nazionalizzazione del petrolio e del gas»); «Festeggiamo l'anniversario della firma dei 44 contratti di nazionalizzazione»; La nacionalización, la hacemos todos («La nazionalizzazione, la facciamo tutti»).

Molto numerosi sono anche gli striscioni a connotazione religiosa. Bolivia querida, amada de Dios («Dio benedica la Bolivia»); «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che Dio protegga la Bolivia».


Sull'immensa piazza non si vede nessuna bandiera rossa, né la foto di qualche leader storico del movimento operaio internazionale, solo un grande ritratto in bianco e nero attaccato alla facciata del parlamento: il bel volto del Che. E sotto, queste semplici parole: Con lealdad siempre te saludamos («Con amore sempre ti salutiamo»).

Affiancato da un aiutante in uniforme dell'esercito, dal ministro del Lavoro in camicia con il colletto aperto, da qualche sindacalista contadino, da alcuni minatori con il loro elmetto in testa, Evo esce all'improvviso sul balcone.

Vestito con i suoi eterni jeans sbiaditi, i suoi Partagás e con una camicia azzurro chiaro, Evo porta la sciarpa presidenziale con dignità. I folti capelli neri cadono come un casco sul suo volto dal naso prominente. Dall'alto del suo metro e ottantacinque, sovrasta la piccola folla ammassata sul balcone.

Lo speaker annuncia: «El primer mandatario...».

Pachamama ci ha dato i minerali — dice il presidente — altri ce li hanno rubati. Li riprenderemo tutti. I nostri bambini hanno fame, bisogna che possano mangiare, tutti i giorni, a sufficienza.

Sulla piazza è calato un solenne silenzio. Nessun fuoco d'artificio. I piccioni folleggiano sul monumento a Murillo. Gli striscioni attaccati agli alberi oscillano nella brezza.

La disoccupazione è un flagello secolare nelle grandi città del paese e a soffrirne, naturalmente, sono prima di tutto gli indios.

«Lograr trabajo. Y mejor trabajo», promette il presidente. Come sempre è preciso: «Abbiamo soldi per creare duecentomila posti di lavoro. Settantamila da qui al Primo maggio prossimo».

La folla, silenziosa, ascolta.

«Pueblo de Bolivia y pueblo de América Latina. Pueblo de Perù, de Bolivia, de Ecuador...»

A fatica, la voce di Evo si fa più decisa.

Hermanos, Hermanas [...] La Madre Terra ha reso ricco di minerali, gas e petrolio il nostro suolo [...] affinché ce ne serviamo per il bene delle nostre famiglie. Abbiamo consultato i nostri amici in Norvegia, Algeria, Venezuela [...] ci hanno aiutati a redigere nel miglior modo i contratti di nazionalizzazione, ci hanno aiutati a negoziare con gli stranieri. Ringraziamo i nostri amici di Norvegia, Algeria, Venezuela [...] Pensiamo ai martiri di Chicago e ai martiri boliviani che hanno lottato contro gli invasori, i baroni dello stagno, per la giornata di 16 ore — ricordatevene — Gloria a los mártyres de aquí y de allá... Viva Bolivia libre, sin esclavos.

Il presidente, all'improvviso, tace. La folla resta immobile nel suo raccoglimento. Gli applausi non esplodono.

Solo qualche grido: «Evo! Evo!».

Poi la folla si disperde.

Una giovane donna con tre strati di gonne colorate, un poncho logoro, un cappello rotondo — come quello che Carlo V aveva imposto a tutte le donne native delle Ande nel Sedicesimo secolo — cammina al mio fianco nella calle del Commercio.

Ha occhi neri penetranti, i lineamenti fini e il colorito ramato. Manifestamente, ha voglia di sapere che cosa pensa questo gringo del suo presidente e del discorso che ha appena pronunciato.

Con la solennità un po' ridicola del notabile socialdemocratico europeo dico: «È il Primo maggio più bello di tutta la mia vita».

Mi ascolta, abbassa gli occhi, poi dice: «Un hombre pobre como nosotros... un campesino, elegido Presidente constitucional, que nacionalizó los hidrocarburos... que afrontó al imperialismo».

Fa un breve cenno con la mano.

Poi scompare tra la folla.

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Il Consiglio economico e sociale dell'Onu si riunisce ogni anno alternativamente a New York o a Ginevra. L'Unicef (per i bambini), la Fao (per l'agricoltura), il Pam (per gli aiuti alimentari), l'Oms (per la salute), l'Unesco (per l'istruzione), l'Oil (per il lavoro) e tutte le altre organizzazioni specializzate dell'Onu vi devono presentare un rapporto sulle proprie attività.

Dall'ampia documentazione presentata nel 2007 si evince che quell'anno 36 milioni di persone sono morte di fame o per le sue immediate conseguenze (malattie legate alla sottoalimentazione, kwashiorkor, anemia, eccetera). Che malattie da tempo sconfitte in Occidente (tubercolosi, febbre gialla, malaria, eccetera) sono la causa di morte di nove milioni di persone. Che altri sette milioni di persone sono morte a seguito dell'ingestione di acqua inquinata e che altri milioni di persone sono morte di Aids, malattia che in Occidente viene tenuta sotto controllo grazie alle triterapie.

In base alle cifre pubblicate nel 2007 dalle organizzazioni specializzate dell'Onu, i decessi causati dal sottosviluppo e dalla miseria estrema nei paesi del Sud ammontavano a più di 59 milioni.

Per quanto riguarda poi le invalidità gravi provocate dalla sottoalimentazione permanente, dalla scarsità di farmaci, dalla mancanza di acqua potabile, colpiscono più di 2,2 miliardi di persone, un terzo dell'umanità.

I demografi ritengono che le distruzioni provocate dalla Seconda guerra mondiale ammontino a 16-18 milioni di uomini e donne morti durante i combattimenti e a qualche decina di milioni di combattenti mutilati, amputati e sfigurati. I civili uccisi furono circa 50-55 milioni. Per quanto riguarda poi i feriti civili, il loro numero arriva a parecchie centinaia di milioni.

Nell'emisfero Sud le epidemie, la fame, l'acqua inquinata e le guerre civili dovute alla miseria distruggono ogni anno tanti esseri umani quanti la Seconda guerra mondiale in sei anni.


Come spezzare questo sistema distruttivo? Come fare per trasformare l'odio che alimenta in una forza storica di rivendicazione di giustizia e di liberazione vittoriosa?

Innanzitutto bisogna agire sulla ricostruzione della memoria, sulla riconquista dell'identità e la presa di coscienza dei diritti umani e sulla costruzione nazionale nei paesi del Sud.

In questo libro ho parlato a lungo della necessità, per i popoli, di recuperare la propria identità e far rinascere la loro memoria storica.

Torniamo, a questo proposito, sull'esperienza boliviana. La sera del voto della nuova Costituzione da parte dei deputati dell'Assemblea costituente, nell'antica capitale di Sucre, il 25 novembre 2007, Evo Morales ha gridato:

    Acabó el saqueo de Bolivia!
    Acabó el Estado colonial!

La maggior parte degli stati dell'Africa nera, nati dalla decolonizzazione degli anni Sessanta, e molti stati dell'America andina, caraibica e centrale formatisi nel corso del Diciannovesimo secolo non hanno mai goduto di una vera indipendenza. Anche quando gli occidentali, spesso per ragioni di convenienza, hanno rinunciato all'occupazione territoriale, lo stato coloniale è rimasto intatto, i padroni avevano infatti soltanto cambiato volto.

Per i popoli del Sud, l'ora dello stato nazionale, l'ora della costruzione nazionale, è oggi suonata.

La nazione è il prodotto della Rivoluzione francese. Fa irruzione nella storia a Valmy nel 1792 e ancora oggi abita i sogni di liberazione di Evo Morales e di Wole Soyinka.

Qui è necessario un richiamo storico.

All'alba del 20 settembre 1792, nei campi fradici di pioggia e sulle colline che circondano il piccolo villaggio di Valmy, nella valle della Marna, i soldati rivoluzionari, sotto il comando dei generali Dumouriez e Kellermann, osservano le truppe del duca di Brunswick, molto meglio armate. L'Europa reazionaria, antirepubblicana, mobilitata dagli esiliati francesi e guidata dai marescialli prussiani e austriaci si appresta a invadere la Francia. Si tratta di vendicare l'affronto del rovesciamento della monarchia avvenuto il 10 agosto 1792, e di schiacciare una rivoluzione che, dall'Atlantico alle pianure ungheresi, alimenta la speranza dei popoli asserviti.

Una cannonata, il rombo degli obici e, da decine di migliaia dì gole, un grido: «Viva la nazione!». I pezzenti di Dumouriez e Kellermann, dalle uniformi variopinte, dall'armamento eteroclito, spezzano in una sola mattinata l'ondata vendicatrice dell'Europa coalizzata. Su un'altura, dietro le linee prussiane, un uomo di quarantacinque anni, curvo, le tempie ingrigite, gli occhi febbricitanti, ministro del ducato di Weimar, osserva la scena. Dietro di lui c'è il suo domestico, che qualche istante prima lo ha portato a braccia attraverso i sentieri inondati. Johann Wolfgang Goethe è sofferente, ma assolutamente lucido. Nel suo diario annota: «Da questo giorno e da questo luogo ha inizio una nuova era nella storia del mondo». Più tardi, parlando all'amico Eckermann, dirà: «I soldati francesi avrebbero potuto gridare "Viva tutte le nazioni!"... Ecco il senso nascosto del loro grido».


In qualsiasi momento della storia e in qualsiasi luogo nasca, la nazione porta con sé valori universali.

Poco prima di Valmy, Maximilien Robespierre aveva pronunciato, a Parigi, questo discorso:

Francesi, una gloria immortale vi attende, ma sarete costretti a conquistarla con grandi sforzi. La scelta è tra la la schiavitù più odiosa e una perfetta libertà. Il re o i francesi devono soccombere. Al nostro destino è legato quello di tutte le nazioni. Il popolo francese deve sostenere il peso del mondo [...] Che la campana che suona a Parigi venga udita da tutti i popoli.

Tutti gli esseri umani aspirano alla salute, all'educazione, al sapere, a un'esistenza sicura, a un lavoro stabile, a un reddito regolare, a mettere la loro famiglia al riparo dalle umiliazioni, a esercitare pienamente le loro responsabilità politiche e civili, lontano da ogni sistema arbitrario, protetti dalle sofferenze che offendono la loro dignità.

La nazione sorta a Valmy è una nazione di poveri ben decisi a vivere – e a vivere liberi. Può benissimo fungere oggi da modello alla maggior parte dei movimenti popolari, ai rivoluzionari della Bolivia, del Venezuela, dell'Ecuador, del Qatar, di Cuba, del Bahrein, del Nepal e di altri luoghi.

E, di fatto, seguendo l'esempio dei boliviani, molti popoli del Sud hanno deciso di costruire nazioni capaci di rompere con l'Occidente. Di fare dell'odio una forza di giustizia, di progresso, di libertà e di diritto.

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