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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE GIUSTA DISTANZA di Ida Dominijanni 7 CODICI DI GUERRA 11 La logica paranoica della guerra preventiva 13 Esportare la libertà 19 L'epoca oscura della democrazia armata 23 Iraq, la catastrofe rinviata 29 Giustizia infinita 33 L'altra faccia dei valori americani 37 L'Impero e il diritto all'atomica 45 FONDAMENTALISMI D'OCCIDENTE 51 Di nobili bugie e amare verità 53 Il cuore nero degli Stati Uniti 69 Il diritto di non essere molestati 79 Dove il Papa ha fallito 85 LIBERTŔ APPARENTI 93 Né pepsi né coca. La scelta di Lenin 95 L'Europa e i cugini poveri 103 La norma e l'eccesso 111 Lo spazio dell'utopia 117 SURROGATI DI REALTŔ 125 Nel deserto dell'irreale 127 Una tazza di vita decaffeinata 141 Immorale. eppure etico 149 La storia in giallo 159 La perfezione di Leni 167 E vissero felici e scontenti 171 |
| << | < | > | >> |Pagina 13In Minority Report, il film di Steven Spielberg basato su un racconto di Philip Dick, i criminali vengono arrestati prima di commettere il reato poiché tre umani — che hanno acquisito la capacità di prevedere il futuro attraverso mostruosi esperimenti scientifici — riescono a predire esattamente le loro azioni (il «rapporto di minoranza» del titolo si riferisce a quei rari casi in cui uno dei tre medium utilizzati dalla polizia è in disaccordo con gli altri due su un crimine che sta per essere commesso)... Se trasferiamo questa idea alle relazioni internazionali, non otteniamo forse la nuova «dottrina Bush (o, piuttosto, Cheney)», annunciata ormai pubblicamente come «filosofia» ufficiale degli Usa in politica internazionale (nel documento di 31 pagine intitolato The National Security Strategy, diffuso dalla Casa Bianca il 20 settembre 2002)? I suoi punti principali sono: nel prossimo futuro la potenza militare americana deve restare «indiscussa»; poiché oggi il nemico principale è un fondamentalista «irrazionale» che, al contrario dei comunisti, manca persino del più elementare senso della sopravvivenza e del rispetto per la sua stessa gente, l'America ha diritto di compiere attacchi preventivi, ossia di aggredire paesi che non costituiscono ancora una chiara minaccia per gli Usa, ma potrebbero costituirla in futuro; pur ricercando coalizioni internazionali ad hoc per questi attacchi, gli Usa si riservano il diritto di agire indipendentemente se non otterranno sufficiente appoggio internazionale. Così, mentre presentano la loro dominazione su altri stati sovrani come una forma di benevolo paternalismo che tiene conto dei loro interessi, gli Stati Uniti riservano a se stessi il diritto ultimo di definire i «veri» interessi dei loro alleati. La logica è formulata chiaramente: persino la pretesa di un diritto internazionale neutro è abbandonata perché, quando percepiscono una potenziale minaccia, gli Usa chiedono formalmente ai loro alleati di sostenerli, ma l'adesione di questi ultimi è un optional. Il messaggio sottostante è sempre «noi lo faremo, con o senza di voi», cioè voi siete liberi di essere d'accordo, ma non liberi di dissentire. Qui viene riproposto il vecchio paradosso della scelta forzata, la libertà di compiere una scelta a condizione che sia la scelta giusta. Lo scontento degli Usa nei confronti di Gerhard Schröder nel settembre 2002, quando ha vinto le elezioni con la sua ferma presa di posizione contro l'intervento militare americano in Iraq, era dovuto al fatto che Schröder si è comportato così come si comporterebbe un normale politico in una democrazia funzionante, come il leader di uno stato sovrano. Pur concordando sul fatto che il regime iracheno costituisce una minaccia, egli ha semplicemente espresso il suo disaccordo sul modo in cui il governo Usa propone di trattare questa minaccia, esprimendo così un'opinione condivisa non solo da molti altri stati, ma anche da una percentuale considerevole di americani e di parlamentari americani. Schröder è stato così il primo ad assaporare appieno la dottrina Bush. E, per spingere ancora più in là l'analogia, il suo disaccordo rispetto al piano statunitense di attaccare preventivamente l'Iraq non è stato forse, precisamente, una sorta di «rapporto di minoranza» nella vita reale che indicava il suo disaccordo verso il modo in cui altri vedono il futuro? [...] Il problema dell'attuale «dottrina Bush» è che con essa il cerchio si chiude. Non c'è più spazio neanche per la «realistica» apertura all'imprevedibile che sosteneva la dottrina della «distruzione reciprocamente assicurata»: la «dottrina Bush» poggia sull'affermazione violenta della logica paranoica del controllo totale sulla minaccia futura e sugli attacchi preventivi contro questa minaccia. L'inadeguatezza di un tale approccio per l'universo di oggi, in cui la conoscenza circola liberamente, è evidente. Così il cerchio tra presente e futuro si chiude: la prospettiva mozzafiato dell'attentato terroristico è ora evocata allo scopo di giustificare incessanti attacchi preventivi. Lo stato in cui oggi viviamo, nella «guerra al terrore», è quello della minaccia terroristica continuamente sospesa: la Catastrofe (il nuovo attentato terroristico) è data per scontata, tuttavia infinitamente posticipata: qualunque cosa accadrà effettivamente, anche se sarà un attacco molto più orribile di quello dell'11 settembre, non sarà tuttavia «quello». Qui è cruciale comprendere che la vera catastrofe è già questa vita sotto l'ombra della minaccia permanente di una catastrofe. Recentemente Terry Eagleton ha richiamato l'attenzione sulle due modalità opposte della tragedia: l'evento catastrofico grande e spettacolare, l'irruzione improvvisa da qualche altro mondo, e il cupo persistere di una condizione senza speranza, la triste esistenza che va avanti indefinitamente, la vita come lunga emergenza. Questa è la differenza tra le grandi catastrofi del Primo mondo come l'11 settembre e la cupa catastrofe permanente, ad esempio, dei palestinesi in Cisgiordania. La prima modalità di tragedia, una figura con uno sfondo «normale», è caratteristica del Primo mondo, mentre in gran parte del Terzo mondo la catastrofe designa lo stesso, onnipresente sfondo. | << | < | > | >> |Pagina 69Lo spettacolo enigmatico di un suicidio collettivo su larga scala è sempre affascinate, pensiamo alle centinaia di seguaci del culto di Jim Jones che presero obbedienti il veleno nel loro campo nella Guyana. A livello della vita economica la stessa cosa sta avvenendo oggi in Kansas, e questo è il tema del nuovo, eccellente libro di Thomas Frank What's the Matter with Kansas? How Conservatives Won the Heart of America (New York, Metropolitan Books). La semplicità del suo stile non deve impedirci di vedere la sua analisi politica affilata come un rasoio. Concentrando la sua attenzione sul Kansas, la culla della rivolta populista conservatrice, Frank descrive opportunamente il paradosso fondamentale del suo edificio ideologico: il gap, la mancanza di qualunque collegamento cognitivo, tra gli interessi economici e le questioni «morali». Se c'è mai stato un libro che chiunque sia interessato alle strane torsioni della politica conservatrice di oggi dovrebbe leggere, questo è What's the Matter with Kansas?.
Cosa succede quando l'opposizione di classe su base economica (agricoltori
poveri, operai
versus
avvocati, banchieri, grosse società) è trasposta/codificata nell'opposizione di
onesti lavoratori cristiani e veri americani
versus
i liberali decadenti che bevono
latte
[in italiano nel testo, ndt] e guidano automobili straniere, difendono l'aborto
e l'omosessualità, si fanno beffe del sacrificio patriottico e di uno stile di
vita semplice e «provinciale»? Ti nemico è percepito come il liberal che,
attraverso gli interventi federali (dagli scuola-bus fino alle disposizioni per
l'insegnamento dell'evoluzionismo darwiniano e delle pratiche sessuali
perverse), vuole minacciare uno stile di vita autenticamente americano. Il
principale interesse economico è perciò quello di liberarsi dallo stato forte,
che tassa la popolazione che lavora sodo per finanziare i suoi interventi
regolatori: il programma economico minimo è così «meno tasse, meno regole»...
ATTACCHI EVANGELICI Dalla prospettiva usuale di una ricerca illuminata e razionale di interessi personali, l'incongruità di questa posizione ideologica è evidente: i conservatori populisti stanno letteralmente votandosi alla rovina economica. Meno tasse e deregulation significa più libertà per le grandi società che stanno tagliando fuori dal mercato gli agricoltori impoveriti; meno interventi statali significa meno aiuti federali ai piccoli agricoltori; ecc... Agli occhi dei populisti evangelici americani, lo stato è una potenza aliena e, insieme all'Onu, è un agente dell'Anticristo: toglie la libertà al cristiano credente, sollevandolo dalla responsabilità morale dell'autodeterminazione, e così facendo mina la moralità individualistica che fa di ciascuno di noi l'architetto della propria salvazione. Come combinare tutto questo con l'inaudita esplosione degli apparati statali durante l'amministrazione Bush? Nessuna meraviglia che le grandi corporations siano ben felici di accettare questi attacchi evangelici allo stato, se lo stato cerca di regolare le concentrazioni mediatiche, di imporre restrizioni alle compagnie energetiche, di aumentare le norme sull'inquinamento atmosferico, di proteggere la natura, di limitare il taglio di alberi nei parchi nazionali, ecc. Č un'estrema ironia della storia che un radicale individualismo serva da giustificazione ideologica al potere senza costrizioni di ciò che la stragrande maggioranza delle persone percepisce come un grande potere anonimo che, senza alcun controllo pubblico democratico, regola la loro vita. Per quanto riguarda poi l'aspetto ideologico della loro lotta, Thomas Frank afferma un'ovvietà che va comunque affermata: i populisti stanno combattendo una guerra che non può essere vinta. Se i repubblicani dovessero effettivamente vietare l'aborto, se dovessero proibire l'insegnamento dell'evoluzione, se riuscissero a imporre una regolamentazione federale a Hollywood e alla cultura di massa, questo significherebbe non solo la loro immediata sconfitta ideologica, ma anche una depressione economica su larga scala negli Stati Uniti. L'esito è dunque una debilitante simbiosi: anche se è in disaccordo con l'agenda morale populista, la classe dirigente tollera questa «guerra morale» come mezzo per controllare le classi inferiori, ossia per consentire a queste ultime di esprimere la propria rabbia senza disturbare i suoi interessi economici. Ciò significa che la guerra culturale è una guerra di classe, ma con uno spostamento di piano – a dispetto di coloro che sostengono che viviamo ormai in una società senza più classi... | << | < | > | >> |Pagina 149Permettetemi di iniziare con un'osservazione personale: il nome «Patricia Highsmith» indica per me un territorio sacro, colei il cui posto tra gli scrittori è paragonabile al posto che Spinoza occupa per Deleuze (il «Cristo tra i filosofi»). Chi parla di lei deve fare attenzione, perché cammina sui miei sogni. Per me, leggere la biografia di Wilson [ Beautiful shadow. A life of Patricia Highsmith, Bloomsbury, London 2003] era perciò un must. Il risultato? Certamente si impara molto, e il libro realizza il giusto equilibrio tra empatia e distanza critica, perciò è un must per tutti coloro che sono interessati a Highsmith e, più in generale, alla giallistica. Trovo però problematico il livello delle riflessioni interpretative, in cui Wilson spesso si avvicina pericolosamente alla banalità. Possiamo prendere realmente sul serio frasi come «la fiction di Highsmith, come la pittura di Bacon, ci permette di gettare uno sguardo sulle terribili, oscure forze che informano la nostra vita, documentando allo stesso tempo la banalità del male»? Per non parlare dei veloci riferimenti alla psicologia pop di Erich Fromm e David Riesman, oltre che all'elenco di tutti i soliti sospetti esistenzialisti, da Kierkegaard e Dostoevskij in poi... Molto più pertinenti sono le riflessioni citate da Wilson occasionalmente, come la lucida descrizione di Duncan Fallowell della personalità di Highsmith, definita «una combinazione tra una dolente vulnerabilità e una volontà di ferro». O gli aneddoti che illustrano come Highsmith manchi totalmente di tatto rispetto al «politicamente corretto» ed esprima apertamente le sue fantasie e i suoi pregiudizi (pur essendo di sinistra, preferiva Margaret Thatcher alle solite femministe). O i dati che indicano le motivazioni etico-politiche della sua scelta a favore di quella che alcuni oggi chiamano «la vecchia Europa»: Highsmith «ha fatto dell'ostracismo del mainstream americano nei suoi confronti, e del suo successivo reinventarsi, il lavoro di una vita» (Frank Rich, citato a p. 317). Già nel 1954, Highsmith ebbe a definire gli Usa «il secondo impero romano». Di certo, il libro fornisce molto materiale per quella che Freud ha chiamato «analisi selvaggia». Cinque mesi prima della sua nascita, sua madre cercò di liberarsi della bambina non nata bevendo essenza di trementina; in seguito questo episodio fu raccontato a Pat proprio da sua madre, che si diceva sorpresa: «Č buffo che tu adori l'odore della trementina, Pat». Questo amore per il segno della propria morte o, piuttosto, non-esistenza, non mostra forse il desiderio edipico di non esistere, di non essere nata in primo luogo? Ad ogni modo, questa percezione impallidisce fino a diventare insignificante se messa a confronto con la ricchezza dell'universo narrativo di Highsmith: semplicemente, la sua opera è molto più avvincente di qualsiasi segreto celato nelle sue esperienze di vita e dissepolto dalla ricerca pseudo-freudiana di una chiave d'accesso al suo morboso universo. La sfida maggiore della lettura freudiana di Highsmith sta altrove: spiegare come la scrittura sia stata per lei letteralmente ciò che Lacan avrebbe chiamato il suo sinthome, il «nodo» che teneva insieme il suo universo, la formazione simbolica artificiale attraverso la quale è riuscita a conservare un minimo di sanità mentale conferendo consistenza narrativa alla sua tumultuosa esperienza. Nel suo capolavoro Those Who Walk Away (Inseguimento), la moglie dell'eroe giustifica il proprio suicidio citando (quello che poi sarebbe diventato) il motto di James Bond: «Il mondo non mi basta». La scrittura era per Highsmith ciò che le permetteva di non suicidarsi, di resistere in un mondo che, in sé, non basta. | << | < | > | >> |Pagina 171Quando esattamente si può dire che un popolo è felice? In un paese come la Cecoslovacchia, dalla fine degli anni '70 fino agli anni '80, in un certo qual modo la popolazione era effettivamente felice. In primo luogo, i suoi bisogni materiali venivano sostanzialmente soddisfatti: non troppo soddisfatti, perché l'eccesso di consumo può esso stesso generare infelicità. Di tanto in tanto, subire l'assenza dal mercato di alcune merci (niente caffè per un paio di giorni, poi niente carne di manzo, quindi niente apparecchi televisivi) è positivo. Questi brevi periodi funzionavano come eccezioni e servivano a ricordare alle persone che dovevano essere liete della generale disponibilità di merci: se un bene è sempre disponibile, questa disponibilità viene interpretata come un fatto naturale e non si apprezza più la propria fortuna. Così la vita procedeva in modo regolare e prevedibile, senza grandi sforzi o grandi shock: ci si poteva ritirare nella propria nicchia privata. Secondo aspetto estremamente importante: c'era un Altro (il Partito) a cui dare la colpa di tutto quel che andava male, così non ci si sentiva responsabili. Se temporaneamente venivano a mancare delle merci, perfino se il maltempo faceva danni, era colpa «loro». Terzo ma non meno importante aspetto, c'era un Altro Luogo (l'Occidente consumistico) di cui si poteva sognare e che talvolta si poteva perfino visitare. Questo luogo era alla distanza giusta, non troppo lontano ma neanche troppo vicino. Questo fragile equilibrio ha finito per essere alterato. Da cosa? Precisamente dal desiderio. Il desiderio è la forza che ha costretto le persone a voltare pagina finendo in un sistema nel quale la grande maggioranza di loro è chiaramente meno felice. Pertanto la felicità non rientra nell'ordine della verità, ma nell'ordine dell'opinione: in quanto tale è confusa, indeterminata, inconsistente. Ricordatevi della risposta proverbiale data da un immigrato tedesco negli Stati Uniti il quale, alla domanda «è felice?», rispose: «sì, sì, sono felice, aber glücklich bin ich nicht...». Siamo di fronte a una categoria pagana: per i pagani lo scopo della vita sta nel vivere una vita felice (l'idea di vivere «per sempre felici e contenti» è già una versione cristianizzata del paganesimo), mentre l'esperienza religiosa e l'attività politica vengono considerate come forme superiori di felicità (si veda Aristotele). Non ci deve meravigliare che di recente il Dalai Lama stia riscuotendo un successo tanto grande predicando in tutto il mondo il vangelo della felicità, né ci deve meravigliare che egli trovi le risposte più positive proprio negli Stati Uniti, ultimo impero della (ricerca della) felicità. Ciò comunque non significa che il cristianesimo non abbia una sua versione di felicità. Č merito di Gilbert Keith Chesterton aver mostrato con chiarezza, un secolo fa, la natura propriamente perversa del modo in cui il cristianesimo si pone in relazione con il paganesimo. Chesterton ha rovesciato l'(in)comprensione convenzionale per cui l'atteggiamento pagano antico consisterebbe in una gioiosa accettazione della vita, a fronte della quale il cristianesimo imporrebbe un cupo ordine di colpa e rinuncia. Al contrario, a essere profondamente malinconica è la posizione pagana. Anche se predica una vita dedita al piacere, lo fa nei termini di un «godetevela finché dura, perché, infine, ci saranno sempre morte e decadenza». Il messaggio del cristianesimo, al contrario, è di gioia infinita al di sotto dell'ingannevole superficie di colpa e rinuncia. Forse che Il signore degli anelli non è la prova definitiva di questo paradosso? Solo un cristiano devoto avrebbe potuto immaginare un tale magnifico universo pagano, confermando così che il paganesimo è l'ultimo sogno cristiano. Per questo motivo i critici cristiani preoccupati che libri o film come Il signore degli anelli o la serie di Harry Potter, a causa del loro messaggio magico e pagano, mettano in crisi il cristianesimo, non colgono nel segno, ovvero non si accorgono della perversa conclusione che qui è inevitabile: volete godere del sogno pagano di una vita dedita al piacere senza pagarne il prezzo di tristezza malinconica? Scegliete il cristianesimo! Si possono ricostruire le tracce di questo paradosso fino alla ben nota figura cattolica del prete (o della suora) presentato come autentico portatore di sapienza sessuale. Ricordiamo quella che può a buon diritto essere considerata la più potente scena di Tutti insieme appassionatamente: dopo la fuga dalla famiglia von Trapp e il suo ritorno in monastero perché incapace di gestire l'attrazione sessuale che prova nei confronti del barone von Trapp, Maria continua a non trovare pace, perché desidera ancora il barone. In una scena memorabile la madre superiora la convoca e le consiglia di tornare dai von Trapp per cercare di risolvere la propria relazione con il barone. Comunica il suo messaggio in una stranissima canzone dal titolo Scala tutte le montagne, il cui sorprendente motivo guida è «Fallo! Assumiti il rischio e fai tutto ciò che vuole il tuo cuore! Non permettere a meschine considerazioni di esserti di ostacolo!». Il potere misterioso della scena sta nella sua inattesa esibizione dello spettacolo del desiderio, che rende la scena letteralmente imbarazzante: proprio la persona da cui ci aspetteremmo una predica di astinenza e rinuncia si rivela sostenitrice della fedeltà ai propri desideri. Significativamente, quando Tutti insieme appassionatamente venne proiettato nella Jugoslavia (ancora socialista) della fine degli anni '60, questa scena – i tre minuti di questa canzone – fu l'unica parte del film che venne censurata, tagliata. L'anonimo censore socialista mostrò in questo modo la sua acuta consapevolezza del potere davvero pericoloso dell'ideologia cattolica: lungi dall'essere religione del sacrificio, della rinuncia ai piaceri terreni (in contrasto con l'affermazione pagana della vita dedita alle passioni), il cristianesimo offre un insidioso stratagemma per indulgere ai propri desideri senza doverne pagare il prezzo, cioè per goderci la vita senza temere la decadenza o il dolore debilitante che ci attende alla fine dei giorni. Se proseguissimo fino in fondo in questa direzione, sarebbe perfino possibile sostenere che la funzione ultima del sacrificio di Cristo consiste in questo: potete indulgere nei vostri desideri e goderne, perché me ne sono fatto carico io! C'è pertanto un elemento di verità nella battuta sulla preghiera ideale che una giovane cristiana dovrebbe rivolgere alla Vergine Maria: «tu che hai concepito senza peccare, concedimi di peccare senza dover concepire!». Nel perverso funzionamento del cristianesimo la religione viene efficacemente evocata come protezione che ci consenta di godere impunemente della vita. (18 settembre 2003)
traduzione di Daniele Francesconi
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