Copertina
Autore G. B. Zorzoli
CoautoreGuglielmo Ragozzino
Titolo Un mondo in riserva
EdizioneMuzzio, Roma, 2006, Energie 11 , pag. 168, cop.fle., dim. 139x210x12 mm , Isbn 978-88-7413-131-0
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe economia , storia della tecnica , energia
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Indice


Prefazione come giustificazione                   7
1.  Un personaggio pirandelliano                  9
2.  Troppe riserve sulle riserve                 15
3.  Il petrolio viaggia ormai su quattro ruote   39
4.  E l'ambiente?                                57
5.  Il matrimonio con la politica                81
6.  Una breve stagione                           99
7.  Pezzi di carta che pesano                   115
8.  Iraq: un inizio o una fine?                 127
9.  L'incognita Arabia Saudita                  141
10. Un futuro molto incerto                     151


 

 

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Pagina 9

1 Un personaggio pirandelliano


Il petrolio è ritornato personaggio da prima pagina, come al tempo delle due grandi crisi energetiche del 1973 e del 1979. Solo che allora sembrava non esserci dubbio sulle cause del suo drastico rincaro: in entrambi i casi la decisione l'aveva presa l'OPEC, l'organizzazione messa in piedi da alcuni fra i più importanti paesi produttori di petrolio, principalmente mediorientali.

In realtà le cose erano un po' più complicate. L'OPEC era stata fondata nel 1960, ma fino al 1973 pochi si erano accorti della sua esistenza. Come mai all'improvviso aveva acquisito la forza di mettere in crisi le più potenti nazioni dell'occidente?

Le spiegazioni si moltiplicarono. Ricatto da parte dei paesi produttori; colpa dell'eccessiva domanda di prodotti petroliferi nei paesi sviluppati, puniti per questo consumismo fuori luogo; manovre dietro le quinte da parte delle grandi compagnie petrolifere per aumentare i propri profitti; prime avvisaglie dell'ormai prossimo esaurimento delle risorse petrolifere.

Mentre si continuava ancora ad accapigliarsi sulle cause delle due crisi, negli anni '80 i prezzi del greggio incominciarono a calare finché nel vicino 1998, che ormai sembra lontano anni luce, in termini reali tornarono ad allinearsi ai valori molto bassi degli anni precedenti il 1973. Poi a partire dal 1999, smentendo le previsioni della maggioranza degli esperti, hanno ripreso a salire e, pur oscillando quotidianamente in su e in giù (quella che in gergo si chiama volatilità), si sono mossi in una direzione univoca: verso l'alto.

Di nuovo sono stati chiamati in causa gli eccessi nei consumi, la prossima fine delle risorse di petrolio, l'OPEC, le grandi compagnie petrolifere. Tutti attori che, ovviamente, un loro ruolo nella vicenda l'hanno avuta e continuano ad averlo, ma non più importante di quello di altri comprimari di solito tenuti lontano dalle luci dei riflettori. Salvo eccezioni, tv, radio, giornali continuano soprattutto a parlare genericamente di produzione di petrolio, di domanda di petrolio, di compagnie petrolifere, di paesi produttori di petrolio. Insomma, tutti sembrano concordare sul fatto che di petrolio ce n'è uno solo, quello che secondo la definizione del Devoto-Oli si configura come una "miscela oleosa, liquida, giallo-bruna, costituita da idrocarburi) alifatici e aromatici".

A volte alcuni articoli che la stampa dedica a questa miscela oleosa, liquida, giallo-bruna, costituita da idrocarburi alifatici e aromatici, in una mente attenta e smaliziata potrebbero suscitare qualche dubbio sulla sua unicità, ma si tratta di accenni; incisi; sottintesi di ardua decifrazione. Anche una donna meno ingenua di Tosca avrebbe avuto qualche difficoltà nell'intuire cosa significasse che l'esecuzione dell'amato Cavaradossi doveva essere simulata "come quella del conte Palmieri".

Allora è bene incominciare facendo chiarezza su un punto: di petrolio non ce n'è uno solo. Sarebbero piaciuti a Pirandello i diversi ruoli che quella miscela oleosa, liquida, giallo-bruna ogni giorno, e in contemporanea, ricopre.

Sulla scena di questo teatro dell'ambiguo recita innanzi tutto la sua parte quella "cosa" che dovrebbe turbare i nostri sonni e che tutti chiamano in causa: il famigerato Brent, fino a ieri ignoto ai più.

Il Brent ha superato i 50 dollari al barile. Ha raggiunto quota 55. Si è attestato sui 60. Sale ancora. Li ha oltrepassati.

Il Brent, nel nostro immaginario, è divenuto sinonimo di petrolio. Eppure mai ruolo fu più usurpato: con i suoi circa 700.000 barili al giorno il Brent rappresenta un'inezia rispetto alla produzione mondiale, che a fine 2005 si è attestata su 83 milioni: meno dell'1% dell'offerta complessiva di greggio. Basta poi varcare l'oceano per accorgersi che lì il Brent cede il proscenio a un altro primattore. Nel continente americano lo stesso ruolo viene assunto dal WTI, sigla che sta per West Texas Intermediate, un greggio molto pregiato, ma pure lui prodotto in modeste quantità.

I prezzi di cui leggiamo sui giornali li fanno insomma due greggi il cui apporto alla produzione complessiva è minimo. Intanto. però, da un petrolio indifferenziato siamo già passati a due, ma il fatto che solo Brent e WTI vengano citati nei quotidiani bollettini della guerra petrolifera non ci deve ingannare. Il petrolio è un soggetto così pirandelliano da poter essere centomila personaggi diversi. O, per restare nel concreto, presenta molti tratti in comune con le uova: fresche, freschissime, del giorno, da bere.

Attenzione infatti alla definizione del Devoto-Oli: il petrolio è una "miscela" costituita da diverse sostanze, tutte appartenenti alla famiglia degli idrocarburi, dove, come nelle famiglie descritte dai romanzoni ottocenteschi, si annidano i bravi e i mediocri, i gentiluomini e le pecore nere. Le loro diverse caratteristiche emergono immediatamente quando il petrolio viene distillato: un procedimento simile a quello che si utilizza per la produzione della grappa, solo che le apparecchiature sono un po' più complesse e hanno ben altre dimensioni, come ciascuno di noi è in grado di verificare personalmente passando accanto a una raffineria di petrolio.

Quando il petrolio greggio viene sottoposto a distillazione, i diversi idrocarburi che lo compongono vengono separati l'uno dall'altro: solo per citare i prodotti più noti che in tal modo si ricavano, si va dalla frazione più leggera, la benzina, a una di peso intermedio, il gasolio, a una più pesante, l' olio combustibile, per finire ai residui che rimangono solidi (bitume). A conferma che di petroli ne esistono molti, le quote di benzina, gasolio, olio combustibile possono variare molto a seconda del greggio utilizzato. Che può essere, come si dice in gergo tecnico, molto light and sweet, cioè molto leggero e poco inquinato dallo zolfo, e allora dalla raffinazione esce molta benzina e abbastanza gasolio a basso contenuto di zolfo (lo zolfo è un inquinante e, dato il suo peso, tende a concentrarsi maggiormente nei prodotti della raffinazione meno leggeri).

Il WTI appartiene a questa categoria, come il Brent, che però è lievemente meno light and sweet. All'estremo opposto si collocano i parenti poveri, i greggi heavy and sour, pesanti e con molto zolfo, che, sottoposti alla pura e semplice distillazione, producono molto olio combustibile ad altissimo contenuto di zolfo e pochi distillati leggeri, per di più, nel caso del gasolio, con una significativa presenza di zolfo. Poveri di nome e di fatto. A fine agosto 2005, con la stampa mondiale preoccupata delle elevatissime quotazioni raggiunte dal petrolio, la newsletter Oil Daily informa che greggi sour provenienti dagli Urali sono stati svenduti negli Stati Uniti con gravi perdite, mentre i profitti che si ricavano da un petrolio light come il nigeriano sono saliti alle stelle.

In mezzo fra i due estremi si collocano ovviamente una miriade di al- tri greggi.

Per fortuna, come tutti gli attori, prima di entrare in scena anche il petrolio può essere truccato in modo da trasformare un quarantenne in un giovane playboy. È sufficiente rompere le molecole dei prodotti più pesanti mediante un processo chimico denominato appunto cracking, per convertirli in prodotti più leggeri. Se non sono ancora diventati abbastanza light, si può introdurre nelle molecole un po' più di idrogeno, che è il più leggero di tutti gli elementi chimici; infine con adeguati procedimenti chimici si toglie di mezzo quasi tutto lo zolfo inizialmente presente.

Oramai il cracking e l'idrogenazione rappresentano la via quasi obbligata per trovare in Occidente uno sbocco per i prodotti dei greggi heavy and sour, visto che la domanda si concentra sempre di più su benzine e gasoli, ma una raffineria in grado di effettuarli costa molto di più (diversi miliardi di euro) rispetto a quella che si limita alla mera distillazione: il mercato attribuisce quindi ai greggi pesanti un valore molto più basso rispetto a quelli leggeri.

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3 Il petrolio viaggia ormai su quattro ruote


I rapporti fra le industrie del petrolio e dell'automobile risalgono alla fine del XIX secolo. Se un oscuro capotecnico dell' Edison Illuminating Company di Detroit, di nome Henry Ford, non si fosse tempestivamente licenziato per produrre auto a benzina, la giovane industria del petrolio sarebbe addirittura andata incontro a una crisi disastrosa, e forse oggi il nome Rockefeller verrebbe associato alla bancarotta di un'azienda monoprodotto in cui aveva investito tutte le sue risorse imprenditoriali e finanziarie. La lampadina elettrica, inventata non molti anni prima da Thomas Alva Edison, forniva infatti più luce della lampade al cherosene, il prodotto petrolifero su cui si basava allora quasi esclusivamente il profitto delle imprese del settore, in primis della Standard Oil, il trust messo in piedi da John D. Rockefeller che con pari ricorso all'abilità manageriale e ad azioni molto discutibili, alcune addirittura classificabili come criminose perfino secondo i corrivi criteri legali dell'epoca, era riuscito a controllare quasi il 90% del mercato americano del cherosene.

La concorrenza della lampadina elettrica divenne rapidamente spietata: nel 1885 ne erano già in funzione 250.000, destinate a salire a 18 milioni nel 1902. Il gas di città riuscì a resistere ancora per un decennio, ma principalmente nell'illuminazione delle strade, mentre il cherosene, funzionale a fornire luce all'interno degli edifici, stava diventando un prodotto marginale, più che altro richiesto nelle zone rurali dove non era ancora arrivata l'elettricità.

Lo sviluppo dell'illuminazione elettrica avrebbe potuto spostare il baricentro del mercato dei prodotti petroliferi verso le frazioni pesanti (olio combustibile) utilizzabili per la generazione di elettricità, dove erano però destinate a scontrarsi con la veemente concorrenza del carbone (che infatti si sarebbe imposto in quasi tutto il mondo).

L'automobile pareva un'alternativa più promettente, purché si riuscisse a rimuoverne l'immagine di prodotto di nicchia, di oggetto di lusso per pochi ricconi.

Il primo cambiamento di questa percezione può essere fatto risalire al terremoto di San Francisco del 1906, grazie all'efficienza e alla praticità esibite dalle duecento auto private impiegate nei soccorsi, che tuttavia non avrebbero potuto muoversi senza tregua se la Standard Oil non avesse con altrettanta tempestività donato quindicimila galloni di benzina (circa 57.000 litri). Non inganni la cifra. Fino a quel momento la benzina era stata un prodotto petrolifero con modesti utilizzi, quindi quasi priva di valore commerciale: a Rockefeller l'operazione non deve essere costata più di 300-400 dollari, un'inezia per chi già allora stanziava almeno un milione di dollari all'anno per iniziative benefiche nel vano tentativo di migliorare la propria immagine, divenuta l'emblema del peggiore capitalismo di rapina.

L'abbiamo definita "operazione" non a caso, trattandosi di un abile investimento pubblicitario per di più quasi gratuito, visto l'impulso che diede all'industria automobilistica: le immatricolazioni di vetture passarono da 8.000 nel 1900 a 902.000 nel 1912 (cifra raggiunta dall'Italia soltanto negli anni '50). Di conseguenza nel 1911 la vendita di benzina e gasolio da parte della Standard Oil superò quella del cherosene.

Di lì in avanti l'industria petrolifera stringe una santa alleanza con quella dell'auto. Nei decenni successivi i prodotti della raffinazione del greggio trovano sbocco in quasi tutti i settori dell'attività umana, caratterizzando il Novecento come "secolo del petrolio", ma il rapporto fra petrolieri e produttori di mezzi di trasporto rimane privilegiato e indissolubile, anche perché per i primi la benzina rimarrà il più redditizio fra i derivati dal petrolio. Anzi, il legame si è ulteriormente rafforzato da quando ha incominciato a diventare fuorviante lo slogan "tutto dal petrolio" della SIR di Rovelli, sigla sconosciuta a chi non ha i capelli grigi, trattandosi del nome di un'impresa petrolchimica messa in piedi negli anni '60 con i soldi dello Stato e presto finita fra i ferrivecchi dell'industrializzazione del Mezzogiorno. Oramai è ora di sostituirlo con "il petrolio muove il mondo".

La nostra non è una boutade. Lo confermano le tendenze storiche: nel 1980 a livello mondiale il 36% di un barile era destinato ai trasporti; nel 1990 era salito al 41,5%; nel 2000 al 46,5% e prima del 2010 supererà il 50%. In USA siamo già a una domanda di prodotti petroliferi per il trasporto intorno all'80% della domanda totale di petrolio; in Italia agli inizi degli anni '70 eravamo al 15%, ormai abbiamo varcato la soglia del 60%. Inoltre, se si esamina la situazione un po' più nel dettaglio, si scopre che la parola "trasporti", la quale definisce un insieme comprendente automobili, motociclette, camion, autobus, navi e altri vettori nautici, aerei, treni, tram, filobus, non solo non è appropriata perché include anche mezzi che non utilizzano prodotti petroliferi, ma, pur escludendo questi ultimi, offre comunque un'immagine troppo generica della realtà.

Nei paesi sviluppati, dove peraltro si concentra la frazione più rilevante della domanda di carburanti, il mezzo di trasporto maggiormente responsabile del consumo di prodotti petroliferi è di gran lunga l'autoveicolo: il 90% di tutta l'energia utilizzata dai mezzi di trasporto a terra negli Stati Uniti, poco più dell'80% in Europa, il 60% in Giappone. La crescente dipendenza del trasporto dal petrolio è confermata dalle previsioni sulla crescita del numero di automobili al 2010, che configura un fenomeno esplosivo. Per i paesi aderenti all'OCSE l'aumento dei veicoli in circolazione dovrebbe essere solo del 12-15%, il che, tenendo conto del livello di partenza, in valore assoluto significa una crescita notevole, mentre per l'insieme del mondo non sviluppato la stima per lo stesso intervallo temporale è di una loro triplicazione. Alla stessa data in India dovrebbero essere in circolazione un numero di vetture 36 volte quello del 1990, addirittura 91 volte in Cina, dove chi non possiede l'automobile ha come aspirazione principale quella di averla. Basta vedere la Shanghai d'oggi, così diversa dalla metropoli affollata solo da biciclette di meno di un ventennio fa. Nell'Iraq sconvolto e impoverito dal conflitto ciò che fa più effetto è la coda ai distributori di benzina. Per non parlare degli Usa, con gli intasamenti stradali che si verificano regolarmente nelle aree a maggiore densità demografica in occasione di ogni lungo weekend.

Un'altra conferma della tendenza del barile di petrolio a essere sempre di più trasformato in prodotti per il trasporto viene da altre stime, secondo le quali nel 2030 il numero di auto in circolazione nel mondo dovrebbe superare largamente il miliardo (si prevedono almeno 1,2 miliardi di unità) contro una cifra attuale intorno ai 400 milioni.

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L'opzione strategica su cui vi è oggi maggiore impegno — utilizzare l'idrogeno come combustibile — nel caso dell'autotrazione è destinata a incontrare innanzi tutto ostacoli nello sviluppo della rete di distribuzione per difficoltà tecnologiche e problemi di sicurezza (oltre che economici) viceversa inesistenti con il metano che, malgrado questi vantaggi, abbiamo visto quanto fatichi a diffondersi.

Non minori sono i problemi per realizzare un veicolo in grado di utilizzarlo con la necessaria efficienza. Non inganni la presentazione a getto continuo di veicoli a idrogeno da parte di aziende automobilistiche: di solito si tratta vetture modificate per consentire a un motore tradizionale di bruciare questo combustibile al posto di benzina. Esse hanno però un'efficienza energetica troppo bassa per renderle competitive con i suoi costi attuali (e presumibilmente anche futuri). L'idrogeno, infatti, non esiste libero in natura, ma deve essere prodotto partendo da altre materie prime. Malgrado abbia diversi impieghi in campo industriale (se ne consumano 500 milioni di metri cubi all'anno) e il suo primo utilizzo su scala significativa risalga dalla fine del XIX secolo, rimane un prodotto molto caro, per di più ricavato prevalentemente dai combustibili fossili: per il 48% da gas naturale, per il 30% da petrolio, per il 18% da carbone. Solo il 4% dell'idrogeno è prodotto mediante elettrolisi dell'acqua, in quanto si tratta di un processo competitivo esclusivamente quando si dispone di energia elettrica molto a buon mercato. La via per ottenere idrogeno a costi contenuti senza ricorrere a combustibili fossili, cioè con elettricità prodotta dal nucleare o da fonti rinnovabili, è quindi molto lunga.

Per impiegare l'idrogeno nell'autotrazione con un'accettabile efficienza energetica occorre utilizzarlo all'interno di una cella a combustibile. Per non perderci in spiegazioni tecnicamente complesse, ci limitiamo a ricordare che in una cella a combustibile l'idrogeno combinandosi con ossigeno produce energia elettrica. La cella a combustibile dovrebbe quindi svolgere le stesse funzioni della batteria in un veicolo puramente elettrico. Il condizionale, purtroppo, è d'obbligo. La prima cella a combustibile venne realizzata nel lontano 1839, non si è mai smesso di studiarla (molto attiva è stata in particolare la NASA), eppure ancora oggi i problemi di costo e di affidabilità sono ben lungi dall'essere risolti, come confermano le conclusioni di uno studio del National Research Council (NRC) americano: "per poter competere con gli attuali motori che utilizzano prodotti petroliferi, le celle a combustibile devono ridurre fra dieci e venti volte i loro costi, durare cinque volte la loro vita attuale e raddoppiare la propria efficienza". Sempre secondo lo studio del NRC "questi progressi non potranno essere conseguiti migliorando le tecnologie esistenti, ma solo sviluppando una concezione della celle a combustibile totalmente nuova".

In parole povere, oggi non esiste nessun tipo di cella a combustibile per autotrazione in grado di diventare competitiva, nemmeno in un lontano futuro. Occorrono soluzioni radicalmente diverse da quelle disponibili che, ovviamente, nessuno è in grado di dire se e quando vedranno la luce. Con tanti saluti a tutti coloro (e non sono pochi) che parlano e scrivono del 2030 o del 2040 come data per l'affermazione commerciale dell'automobile a idrogeno.

In conclusione, le alternative puramente tecnologiche ai carburanti oggi in uso non consentono di prevedere realisticamente un risparmio di carburanti tradizionali superiore al 20% della domanda prevista dallo studio dell'IEA per il 2030 (che già include gli effetti dovuti ai miglioramenti nell'efficienza dei veicoli tradizionali). L'obiettivo della mobilità sostenibile non può quindi prescindere da un significativo processo di trasformazione dei modi di trasporto e da un'adeguata politica di incentivazioni e fiscale, condivisi anche dagli Stati Uniti, che in trasporti assorbono un quinto della domanda mondiale di greggio. Il precedente degli anni '90, quando con il prezzo del barile sotto i 20 dollari e al governo la coppia Clinton-Gore nessuno ha tentato di aumentare se pure in misura ridotta il prelievo fiscale sulla benzina, la dice lunga sulla difficoltà di modificare l' American way of life, accresciute con la presidenza di George W. Bush, il quale ha ripetutamente dichiarato che gli standard di vita degli americani "non sono negoziabili".

Invece di interrompere il nesso fra trasporti e idrocarburi, o almeno ridurlo in modo considerevole, tutto sembra indicare che si continua a procedere nella direzione opposta. I veicoli e la loro percorrenza aumentano con una certa vivacità, nuovi paesi e nuovi continenti sono attratti a livello di massa da questa forma di trasporto, con le conseguenze del caso. La costruzione di un'ulteriore automobile, con il pezzo di strada relativo, scava un altro buco nella Terra.

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9 L'incognita Arabia Saudita


Mentre sull'Iraq sono puntati gli occhi di tanti osservatori, geograficamente contiguo incombe un convitato di pietra, l'Arabia Saudita, che non solo per la sua ricchezza petrolifera (circa un quarto delle riserve ufficialmente accertate di petrolio) può influenzare la risposta all'interrogativo che ci siamo posti a conclusione del capitolo 8.

Paese sulla carta ricco, con un reddito petrolifero netto di 86 miliardi di dollari nel 2003, saliti a 107 nel 2004 e a 157 nel 2005, che equivale però al 90-95% delle sue esportazioni, al 70-80% delle entrate dello Stato e circa al 40% del PIL nazionale. Paese pertanto particolarmente sensibile alla volatilità delle quotazioni del greggio, malgrado gli ingenti sforzi di diversificazione avviati dagli anni '70 del secolo scorso. Ancora oggi grandi imprese pubbliche come l'Aramco, che ha il monopolio della produzione di petrolio e controlla il 98% delle riserve di greggio, e la SABIC, l'undicesima azienda petrolchimica del mondo, dominano l'economia saudita. Nonostante le ripetute affermazioni di principio, non vi è stato alcun passaggio di proprietà dal pubblico al privato, che ha avuto qualche spazio solo in alcune attività di servizio.

Modesti anche i progressi per quanto concerne la spesso conclamata politica di attrazione di investimenti diretti stranieri. A gennaio 2004 il governo saudita approvò una riduzione dal 49 al 30% (e al 20% nel settore del gas naturale) dell'imposizione fiscale sui profitti degli investimenti esteri, con l'obiettivo di accelerare la riforma economica attraverso la presenza di imprese private, in teoria partecipate al 100% da capitali stranieri, ma a fine 2005 rimanevano esclusi la produzione di greggio, gli oleodotti, i mezzi di informazione, le assicurazioni e le telecomunicazioni, cioè tutto ciò che in un'economia come quella saudita conta. Per di più chi intende investire si scontra con enormi difficoltà burocratiche e con l'opposizione degli interessi che sarebbero colpiti da un'effettiva apertura del mercato.

Interessi che nulla hanno a vedere con quelli della maggior parte della popolazione, la quale non se la passa molto bene. Il forte incremento demografico, con tassi di crescita fra i più elevati del mondo, ha infatti portato il totale dei residenti da 5-6 milioni del 1980, di cui 2 di lavoratori stranieri e loro familiari, ai 25.795.938 di metà 2004, di cui 5.576.076 stranieri (ma altre fonti parlano di 7-9 milioni). Una popolazione molto giovane, l'età media essendo di 21 anni. E l'elevato tasso di natalità (5,5 figli per donna) fa prevedere un prolungamento nel futuro della tendenza attuale. Questa crescita della popolazione, unitamente ai minori introiti petroliferi in termini reali (deprezzamento del dollaro) ha fatto sì che il reddito pro capite nel 2004 sia stato di 4.564 dollari, un quinto dei 22.589 del 1980 e che la disoccupazione sia ufficialmente al 13% (quella vera sembra però parecchio maggiore).

Si tratta di dati da prendere con le molle. Per esempio secondo un rapporto UNDP del 2004 il PIL pro capite a parità di potere di acquisto (2002) è di 12.650 $, la popolazione di 23,5 milioni (2002) e il tasso di fertilità calcolato sul quinquennio 200-2005 è di 4,5. Queste discrepanze sono una caratteristica comune alla maggior delle informazioni numeriche relative al paese: non solo le riserve di petrolio sono molto incerte.

La situazione sociale è comunque grave e ciò giustifica la cautela con cui il governo saudita ha affrontato le ipotesi di tagliare i sussidi alla popolazione, di aumentare le tasse sui redditi dei propri concittadini, o di avviare altre riforme economiche di questo tipo. Non a caso una quota del recente maggior reddito petrolifero è stato destinato a interventi a sostegno della popolazione in campo sanitario, scolastico e abitativo.

La situazione è aggravata dalla scelte effettuate negli anni successivi ai due boom petroliferi del 1973 e del 1979-1980, che hanno lasciato l'Arabia Saudita con un bilancio dello Stato appesantito da tutti gli impegni assunti (spesso con leggerezza) nel periodo dei prezzi del petrolio improvvisamente saliti alle stelle, e hanno contestualmente provocato un forte deficit nel commercio con l'estero; a cui negli anni '90 si è aggiunto l'impegno di sostenere gran parte degli oneri della guerra contro l'Iraq del 1991 (55 miliardi di dollari!). Risultato: un debito pubblico di circa 175 miliardi di dollari, solo recentemente ridotto di una dozzina di miliardi grazie alle maggiori entrate petrolifere. A compensarlo per una frazione cospicua ci sarebbero anche i capitali depositati all'estero – secondo stime attendibili, circa 110 miliardi di dollari – ma questi appartengono alla numerosa famiglia reale e ai suoi più vicini collaboratori, e, come si sa, la commistione fra pubblico e privato va in genere in una direzione sola, che non è quella richiesta per ridurre il debito del paese.

I problemi economici e sociali sono certamente anche concause della precaria situazione politica del paese. La scoperta, dopo l'11 settembre 2001, che quindici dei diciannove terroristi implicati nell'azione erano sauditi, ha impressionato l'opinione pubblica, ma non chi era al corrente del deterioramento in corso all'interno del paese, che ha creato il brodo di coltura per forze che in forme diverse si richiamano al fondamentalismo islamico.

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Il fatto che il rincaro del petrolio e del gas, con le sue ricadute sulle tariffe elettriche, non abbia per nulla inciso sulla crescita della domanda di condizionatori in Italia, nel suo piccolo rappresenta un'altra riprova dello scarso panico esistente.

Sul breve-medio termine la relativa bonaccia che ci avvolge, ha anche giustificazioni obiettive. Prendiamo come esempio l'analisi del caso italiano pubblicata da Edgardo Curcio sul numero di agosto-settembre 2005 della newsletter Energia ed Economia: lo Stato italiano incassa il 65% del prezzo del carburante alla pompa della stazione di servizio, il 15% le compagnie petrolifere e i gestori delle stazioni, il restante 20% il paese produttore. Con l'aumento vertiginoso dei prezzi sono cresciuti anche la quota fiscale e i profitti delle compagnie, che in larghissima misura, vista la scarsa propensione a investimenti strategici, restano all'interno per i paesi sviluppati. Anche le maggiori entrate nei paesi produttori in buona parte si traducono in un incremento della domanda di beni e servizi sostanzialmente soddisfatta acquistandoli dai paesi industrializzati, come avvenne negli anni '70. Commenta Curcio: "una parte dell'enorme flusso di denaro che viene accumulato da questi paesi, ritorna, sotto forma di acquisti diversi (dalle armi ai beni strumentali, dai mobili alle medicine, dai materiali industriali alle auto) nelle tasche dei paesi consumatori". Non in tutte, trilussianamente c'è chi mangia un pollo intero e chi digiuna, ma in termini macroeconomici sono i grandi paesi consumatori dell'occidente a trarre il maggiore beneficio dagli alti prezzi del petrolio, anche perché una parte non trascurabile della ricchezza dei paesi produttori potrebbe come in passato essere reinvestita sulle piazze finanziarie occidentali.

Se sul breve-medio termine le cose possono proseguire in modo tutto sommato positivo per i paesi produttori e grandi consumatori, ma non per i paesi terzi (il che pone già nell'immediato non pochi problemi di stabilità politica), non è detto che la situazione rimanga sostanzialmente inalterata nel caso di una crescita ininterrotta fino a 100 dollari al barile, e magari oltre. Siamo consapevoli che le prossime considerazioni faranno storcere la bocca agli economisti "seri", i quali, se di buon umore, si limiteranno a liquidarci come veteropositivisti, ma siamo convinti che il passaggio oltre una data soglia da andamenti lineari ad andamenti non lineari si verifichi anche per i processi economici. È già accaduto in passato, per esempio quando nella Germania degli anni '20 l'inflazione andò fuori controllo. Nel caso dei prezzi del petrolio, il continuo aggiustamento fra maggiori esborsi dei paesi consumatori e ritorni diretti e indiretti potrebbe a un certo punto spezzarsi se per esempio gli squilibri sociali all'interno delle nazioni industrializzate portassero a una grave crisi economica da calo della domanda interna, che a sua volta potrebbe indurre i paesi produttori a trasferire altrove i propri capitali; di scenari consimili se ne possono fare moltissimi, tutti – ahimè – verosimili, purché ovviamente si consideri scontata una tendenza strutturale al rialzo delle quotazioni del greggio e dei derivati leggeri.

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