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| << | < | > | >> |IndicePARTE PRIMA IL MATRIMONIO DEL MARE E DELL'INFERNO 7 Prefazione. L'Evasione possibile 9 di Oreste del Buono Storie del mare aperto 17 di James Milesius IL MATRIMONIO DEL MARE E DELL'INFERNO I. La notte 19 II. Il Saturnia 31 III. L'Isola 43 IV. In Finis 63 V. Biografia di Tadeusz Nepomuk Rolle 71 CONCLUSIONE 81 POSTFAZIONE. ODISSEA IN UN SOLO PUNTO 83 PARTE SECONDA RACCONTI 85 Introduzione 87 Cineserie 89 L'anti-Émile 93 Il Siliquastro 95 Le Sentenze della Biblioteca 101 Da «Le vite dei Padri» 107 A Oscar Wilde 111 Dal «Repertorio dei popoli» 117 Rosa 121 Le cinque Regole o Leggi 125 Una telefonata da Lubecca 133 Dai «Falsi quaderni in folio» 135 Da «I tre sogni sul giudizio» 137 L'ultimo caso del piccolo Lama Nanguj 139 Ultime Cineserie 157 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Ci aveva sorpreso, in pieno oceano, una furiosa tempesta. Il Baltimore, il nostro poderoso tre alberi, ne era uscito piuttosto malconcio. Di certo, avevamo perduto la rotta, e da due giorni vagavamo nella nebbia, una nebbia tanto fitta da impedirci di rilevare delle coordinate sicure. Spesso accade, in alcune zone oceaniche dei tropici, che il vento cada improvvisamente per molti giorni e che certi vapori, elevandosi dai mari caldi a contatto con le fredde correnti del Sud, oscurino il tragitto ai naviganti. Ci lasciavamo condurre dai flutti, scandagliando via via i fondali: ma il comandante era sicuro che in quel tratto d'oceano (dovevamo essere tra le quaranta e le cinquanta miglia a ovest dell'Arcipelago della ***) non vi fossero né terre abitate né rotte battute dai navigatori. Una notte, udimmo una campana suonare, non molto distante da noi, un segnale di inequivocabile richiesta d'aiuto.
Qui comincia la mia avventura.
Il comandante scrutò nella nebbia per discernere da dove provenissero quei segnali. La corrente ci trasportava nelle vicinanze di un vecchio scafo oscuro. Escluso il suono della campana, sul veliero affondato nella nebbia che avevamo di fronte non si notavano né luci né altri segni di vita. La corrente si placò e d'improvviso il corso del Baltimore divenne lentissimo. - Sembra il Saturnia - esclamò il comandante quando fummo a circa mezzo miglio -, la nostra nave gemella. Da anni non ne ho notizie, e ho perduto completamente di vista il capitano, persona squisita... Il nostro equipaggio non sarà molto felice di questo incontro... - Perché mai? - gli chiesi. - Sul Saturnia negli ultimi tempi circolano leggende che fomentano ogni genere di superstizione. L'ho sentita chiamare, solo sei mesi fa, «la nave dei morti». Durante un solo viaggio perse tutto l'equipaggio per la peste nera e andò alla deriva per tre mesi... - Forse hanno bisogno di un medico - lo interruppi -. Permettetemi di fare il mio dovere e di salire a bordo di quel bastimento. Il comandante tentennò prima di acconsentire. Fu calata in mare una lancia e vi presero posto due rematori. Nessun ufficiale - alcuni con giustificazioni risibili - volle accompagnarmi. Prima che scendessi nella barca, il capitano mi disse ancora: - Dottor Hastings, il cielo vi protegga, perché ho un oscuro presentimento. Rimanete il minor tempo possibile su quella nave. Con questa corrente flebile potremo starvi accosto al massimo per un'ora, un'ora e mezza. Tornate prima che potete, altrimenti... ignoro come reagirà l'equipaggio. Comunque, salutate da parte mia il capitano (lo riconoscerete subito per la sua singolare mutilazione) e assicuratelo che il Baltimora farà tutto il suo dovere per aiutarlo. Partimmo. Il nostro veliero ci sparì alle spalle, dietro una spessa coltre di nebbia che i suoi fanali foravano appena. D'improvviso l'acqua divenne immobile sotto di noi, come fosse di sale. Tuttavia, ci muovevamo velocemente incontro al nostro obiettivo. Ora avevamo toccato lo scafo, proprio sotto la prua. Urlai per farmi udire, mentre i due rematori si sbracciavano agitando le lanterne. Ai nostri richiami non rispose nessuno. La campana non accennava a tacere. Il suo battito insistente rimbalzava, come per un'eco, attraverso la nebbia. Non ne avevo mai vista una così spessa, bianca e solida nella mia lunga esperienza di viaggi per mare. C'era una scala di corda contro la fiancata; mi ci appesi e già stavo per mettere piede a bordo quando udii dabbasso l'urlo di dolore di uno dei marinai. Aveva toccato la murata e ne era rimasto come ustionato: stringeva la mano sanguinante. L'altro lo soccorreva, impaurito. In quel momento si produsse uno spettacolo che ci atterrì. Un fuoco di Sant'Elmo di intensità prodigiosa, mai vista, si sviluppò sull'albero maestro del veliero che si stagliò, nitido e fosforescente, dentro la nebbia che l'avvolgeva. Alla sommità del pennone, sopra il controvelaccio ammainato, ciondolava il cadavere di un impiccato, coperto da un cappuccio reso luminoso dalla scarica elettrica. Sui due rematori, il fuoco di Sant'Elmo ebbe un effetto travolgente. Mi chiamarono giù a gran voce, quasi svenuti dal terrore. Quella luce innaturale aveva illuminato anche il disegno stilizzato di un teschio e di una falce che, a prua, cancellavano quasi il nome del Saturnia. Era evidente che, con me o senza di me, i due rematori sarebbero fuggiti. Ma io dovevo dar prova, come loro superiore, di un maggiore autocontrollo. Allora dissi: - Io rimango. Tornatemi a prendere tra un'ora esatta. - È pazzo - sentii mormorare uno, mentre l'altro si segnava. Con tre bracciate frenetiche al remo, sparirono nella nebbia. Ora ero solo. | << | < | > | >> |Pagina 56Tutto mi sembrava risolto, anche se non ero riuscito a inoltrarmi nella lettura degli appunti di Rolle. L'impresa cui il capitano si era votato era quella di sconfiggere il Tempo. Egli aveva scoperto, attraverso i suoi calcoli e le sue osservazioni astronomiche, l'esistenza di un punto geografico nel quale il flusso del tempo si annulla. Era quell'isola nel cuore dell'oceano nebbioso. Il Saturnia aveva puntato la prua su quell'obiettivo, per ordine del suo comandante. Nella sfera d'influenza di quel punto, il vascello era entrato nel mio stesso tempo, nell'anno 18... Dopo dieci anni (dieci anni trascorsi in realtà solo per il suo equipaggio), se ne stava estraendo, probabilmente per effetto di una lentissima azione inerziale. Ma, confrontata con le usuali coordinate spazio-temporali, la nave era immobile. Essa attraversava il punto di annullamento del tempo e ne veniva divisa come a metà: di qua c'era un tempo, il tempo primo - quello reale - di là il tempo secondo, dieci anni dopo. | << | < | > | >> |Pagina 111Per anni si erano lanciati insulti a distanza. Impedivano che il nome dell'Altro venisse fatto in loro presenza. Ognuno dei due riteneva di essere il più forte. Si rifiutavano di studiare le partite dell'Avversario. - Pattume - diceva Kobianski di Standler. - Un millantatore, un copista - diceva Standler di Kobianski. La verità è che il loro stile di gioco era completamente diverso. Kobianski era un romantico, un esteta, preferiva il gioco d'attacco. Standler il contrattacco e le «combinazioni geometriche, ossessive». Per un tacito accordo nessuno di loro si era mai presentato ai campionati. Finito il torneo, entrambi sfidavano il vincitore e ne avevano facilmente ragione. Portarli dietro la stessa scacchiera fu un'impresa ciclopica, preparata per lustri da un club di miliardari. Corse voce che i due campioni avrebbero ricevuto ciascuno, a prescindere dalle sorti dell'incontro, una cifra a sei zeri. Non ci fu nessuno scandalo.
I due contendenti, attraverso i loro emissari, stabilirono che la
tenzone si sarebbe esaurita in una sola partita, da giocare alla morte. Non
sopportavano la presenza dell'Altro più delle quattro ore previste dal
regolamento per un unico incontro.
La sfida fu giocata in un hotel, e richiamò una folla straripante che, subito, Standler giurò prezzolata da Kobianski e Kobianski plagiata da Standler. Un membro del club organizzatore si autocandidò come arbitro. Kobianski lo schiaffeggiò. Nessun altro si propose per l'incarico. I due sedettero allora uno di fronte all'altro. - Nero o bianco? - chiese Standler. - Nero - ordinò Kobianski. Standier rifletté. Decise che giocare con il vantaggio della prima mossa, sia pure concessa in modo sospetto dall'Avversario, gli conveniva. Ruotò la scacchiera e mosse un pedone. La partita era cominciata. Fin verso la metà dell'incontro, i due offrirono il meglio del loro repertorio. Il pubblico applaudì a scena aperta la prima sortita del cavallo di re di Kobianski. Altrettanto fece per un sacrificio di torre di Standler, con la torre avversaria riguadagnata in due perfette, successive mosse. Poi Kobianski sferrò un attacco imprevedibile e violento. Si accese una sigaretta, scese dal palco e andò a parlare con i cronisti. Standler parò il pericolo in due minuti. Raggiunse Kobianski nella sala e gli disse, sfiorandolo con la punta del bastone: - Tocca a Lei... È scacco al re -. Kobianski si stava già vantando di aver vinto. Tuttavia, le sorti bianche precipitarono nel seguito dell'incontro. Standler fece un errore che i più giudicarono veniale, ma da allora giocò sempre in difesa. In chiusura, il vantaggio di Kobianski era evidente. Standler, inchiodato alla sedia, scoprì quello che tutti sapevano di lui da tempo: che era un emotivo, e non avrebbe sopportato la sconfitta. Mentre studiava le contromosse, Kobianski girava tra il pubblico e riceveva applausi e complimenti. Alla quarantanovesima mossa, Standler perse la torre. Colto dal panico, propose all'Avversario un immediato cambio di regine che lo indebolì ancora di più. Sulla scacchiera c'erano ormai solo i due re, due pedoni per parte, torre e cavallo neri, un cavallo bianco. La posizione di Kobianski era fortissima. Il giocatore nero scese di nuovo dalla pedana e annunciò che se Standler non avesse inventato una risposta geniale (cosa impossibile per quel damerino da strapazzo), avrebbe dato matto in sette mosse.
Ci fu, tra il pubblico, un mormorio soffocato d'ammirazione.
- Cialtrone! - tuonò Standler dal palco, e mosse il re. Kobianski riguadagnò la scacchiera visibilmente preoccupato. Abbracciò con lo sguardo la nuova posizione e divenne pallido. Tra lo stupore generale, giocò, di seguito, tre mosse in difesa. Standler, imperterrito, continuò a spostare il re. Kobianski, senza contropartita apparente, tentò di immolare la torre consegnandola al cavallo bianco. Standler mosse il re. Terreo in volto, sudato, quasi rantolante, Kobianski infilò il suo re in un angolo della scacchiera, come cercando lo stallo. Alla successiva mossa di Standler (Re bianco in F6), abbandonò palco, partita e platea. Chiese il soprabito al guardaroba come uno spettatore qualsiasi e si gettò quasi sull'uscita. Il pubblico, interdetto, attese almeno cinque minuti, prima di applaudire Standler. Il vincitore era rimasto a fissare la scacchiera.
La sua posizione era ancora debolissima, chiaramente votata alla sconfitta.
Gli sfuggiva
che
pericolo vi avesse intravisto Kobianski. La constatazione d'aver vinto senza
sapere perché, di aver minacciato un «matto» che solo Kobianski era riuscito a
prevedere, lo inferociva e lo nauseava. Fu incerto se accettare il trofeo. Ma il
pubblico pagante, quella sera, voleva acclamare un vincitore.
A casa, Standler rifece più volte la partita: avvampava di vergogna per la
superiorità dimostrata da Kobianski. Il finale però, gli risultava sempre
indecifrabile. Come il fatto che l'Avversario, contrariamente al solito,
rifiutasse dichiarazioni alla stampa e vivesse da giorni nel più sordo
isolamento.
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